Enrico Pitzianti, giornalista, da Internazionale
Per le vie del centro di
Domusnovas c’è silenzio. Sui marciapiedi stretti si incontrano poche persone e
basta distrarsi un attimo e svoltare all’incrocio sbagliato per ritrovarsi
affacciati sulla campagna, davanti alle colline chiazzate da ulivi. Secondo le
statistiche ufficiali, nel piccolo centro del sud della Sardegna vivono circa
seimila persone, ma i numeri non tengono conto di tutti quelli che se ne sono
andati per studiare o lavorare, senza però spostare la residenza. Qui, molti
hanno un parente che ormai vive da qualche parte in Lombardia o in Veneto, a
Roma, a Torino o all’estero.
Ma non è sempre stato così. In
queste campagne, un tempo le miniere occupavano migliaia di persone. Da inizio
ottocento a metà novecento, quasi cinquanta siti assorbirono la tradizionale
forza lavoro dell’area, fatta di agricoltori e pastori. Alla fine
dell’ottocento, circa diecimila persone lavoravano nelle cave. Il capoluogo di
provincia, Carbonia, fu fondato negli anni del ventennio fascista proprio per
ospitare chi avrebbe lavorato nelle miniere di carbone da cui prende il nome.
Il declino cominciò nel
dopoguerra a causa della diminuzione dei prezzi dei metalli estratti e degli
alti costi di produzione. Le miniere sono state sostituite dalla grande
industria, quella chimica e metallurgica, ma poi anche queste sono andate in
crisi durante gli anni novanta e duemila tra fallimenti e delocalizzazioni. Il
risultato è un vuoto occupazionale che, accentuato dalla crisi economica
mondiale cominciata nel 2007, ha fatto della provincia del Sud Sardegna una
delle più povere d’Italia.
Dalla
Sardegna all’Arabia Saudita
È questo il contesto da tenere
presente se si vuole capire qualcosa in più di Domusnovas, tornata al centro dell’attenzione
nazionale perché ospita l’azienda Rwm, parte del gruppo tedesco Rheinmetall
defense, che fabbrica ed esporta armi in tutto il mondo. A sollevare nuove
polemiche è stato un video del New York Times che mostra alcuni ordigni
prodotti in Sardegna e venduti all’Arabia Saudita, che a sua volta li utilizza
nella guerra nello Yemen.
Della vendita di armi ai sauditi
parlava già un articolo di Malachy Browne del 2015. Browne ricostruiva gli
spostamenti di due spedizioni di ordigni dall’aeroporto cagliaritano di Elmas a
quello di Ta’if, nel sud dell’Arabia Saudita, vicino alle coste del mar Rosso.
Anche in quel caso ci furono dibattiti accesi. Ma ad andarci di persona, tra le
miniere dismesse nel sud della Sardegna, si capisce che il dibattito qui non è
a intermittenza come quello nazionale.
Un
paese diviso
Il sindaco Massimiliano Ventura,
già dalla prima telefonata tira in ballo la Rwm: “Te lo dico subito, io sto
dalla parte dei posti di lavoro”. E aggiunge: “Su questa cosa sono pronto a
fare le barricate”.
Lo incontro la mattina del 5
gennaio e di persona è ancora più netto: “Parliamoci chiaro, lo sappiamo tutti cosa
produce la Rwm e nessuno è contento di quello che succede nello Yemen, ma alla
riconversione non ci credo”.
La parola “riconversione” a
Domusnovas la usano tutti, ma con significati diversi. C’è chi la pretende,
invocando l’articolo 11 della costituzione secondo cui l’Italia ripudia la
guerra. E chi invece ne parla per mettere in guardia dalle sue conseguenze, e
cioè il licenziamento di 270 persone. Il 70 per cento delle quali, precisa
Ventura, è residente a Domusnovas. Anche loro fanno appello alla costituzione,
ma invece che l’articolo 11, citano l’articolo 1, specificando che il lavoro
viene prima di tutto.
Ulivi
e ferro spinato
Nella campagna intorno alla Rwm,
a pochi minuti dal centro di Domusnovas, pascoli e greggi disegnano i campi tra
le colline. Il paesaggio non è certo quello di una zona industriale: agli ulivi
si alternano staccionate e reti che separano terreni agricoli, mentre tra i
boschi del monte Linas, oltre ai siti nuragici, ci sono i ruderi delle miniere
dismesse.
Poco prima della fabbrica d’armi,
la strada provinciale viene usata anche come posteggio: una fila ordinata di
auto sulla destra ricorda quelle dei matrimoni nelle case di campagna. Oltre la
fila, la strada è sbarrata, e il guardiano avverte che non si possono fare foto
della Rwm, nemmeno dall’esterno, e che da quel tratto in poi l’accesso è
riservato ai pastori che lavorano da quelle parti.
Non c’è molto da vedere,
comunque. Sulle mura scrostate che cingono l’azienda c’è il filo spinato tipico
delle zone militari, mentre l’edificio all’interno è piuttosto anonimo, qualche
finestra sbarrata si affaccia sui colli a est. A colpire è il silenzio, un
silenzio tombale, di quelli che non ci si aspetterebbe vicino a un impianto
industriale di queste dimensioni. A un centinaio di metri dalle transenne, a
pochi metri dalle auto posteggiate in fila indiana, c’è una scatola di cartone
abbandonata sull’erba verde: sul cartone si legge “pericolo, esplosivo da
mina”.
Qualcosa
che somiglia a un ricatto
Tornando in paese, a dominare è
lo scetticismo, soprattutto tra gli operai. Del resto, si era parlato di
riconversione anche per la sede della danese Rockwool a Iglesias, per l’Alcoa
di Portoscuso, per il polo industriale di Iglesias e per una serie di aziende
che poi sono fallite, come la Binex.
Tutte queste storie non hanno
fatto altro che far aumentare la sfiducia e la disoccupazione, tanto che in
questa provincia un giovane su due non ha un lavoro. Gli stessi amministratori
locali definiscono la zona come “depressa” e “in crisi perenne”.
È per questo che per buona parte
degli abitanti di Domusnovas, la Rwm, che ha guadagnato quasi 500 milioni nel
solo 2016 è una sorta di salvagente. Secondo molti sono stati i tedeschi a
evitare che un’altra azienda di qui chiudesse i battenti per sempre.
Il riferimento è alla Sarda
esplosivi industriali che, prima dell’arrivo della Rheinmetall nel 2010,
produceva esplosivi usati nelle miniere della zona. Chiusi gli impianti
minerari a causa della crisi, è arrivata la proprietà tedesca, che usa
l’esplosivo per le sue mine e bombe.
Come in molti altri casi, gli
operai non hanno avuto alcuna vera alternativa: in queste terre o si lavora in
industrie che possono avere conseguenze sull’ambiente e sulle vite di molte
persone, o si resta a spasso. Se sembra un ricatto, è perché per molti versi lo
è, ed è contro questo ricatto che si battono alcuni movimenti locali.
Gli
operai e gli attivisti
“Siamo riusciti a bloccare la
strada provinciale che porta alla Rwm con un sit-in, ma poi i lavoratori sono
riusciti a passare dal retro”, mi racconta Lorenzo, uno dei molti giovani della
zona che si oppongono alla Rwm. Le proteste contro l’azienda sono frequenti, e
sono promosse da associazioni pacifiste e antimilitariste come il comitato No
Basi, già attivo in Sardegna in zone come Quirra o Capo Teulada – un
promontorio di settemila ettari a meno di un’ora di auto da Domusnovas,
occupato da uno dei poligoni militari più discussi dell’isola.
Il Comitato per la riconversione
Rwm, il 3 dicembre 2017 scriveva della necessità di “creare i presupposti per
uno sviluppo del territorio che sia pacifico e sostenibile dal punto di vista
ambientale e sociale, come segno di volontà di pace dal basso che possa
costituire uno stimolo alla cittadinanza attiva e alla politica”.
Le proteste nascono da
preoccupazioni ambientali, ma anche da questioni etiche. Le aziende che
producono armi preoccupano sia per la segretezza in cui operano sia per gli
eventuali scarti industriali. Inoltre, a sollevare dubbi è anche la creazione
di un “campo prove”, che fa parte della richiesta di ampliamento dell’azienda e
che evoca i campi di questo tipo che nel Sulcis non sono mai stati bonificati,
com’è successo per esempio a Capo Teulada, dove ancora oggi si ritrovano ordigni
inesplosi.
Ogni
posto di lavoro qui ha la forma di un miraggio nel deserto
Tra gli oppositori più convinti
del progetto c’è anche il deputato di centrodestra, poi passato al gruppo
misto, Mauro Pili, che è stato sindaco di Iglesias e presidente della regione
Sardegna dal 2001 al 2003. Pili, che è anche una delle fonti dell’inchiesta del
New York Times, ha fatto della battaglia alla Rwm uno dei suoi obiettivi
politici, documentando e filmando i vari carichi all’aeroporto di Elmas e al
porto di Cagliari.
I lavoratori della Rwm hanno
risposto alle richieste di riconversione con un’altra lettera aperta: “Le
proposte sono fantomatiche e inconsistenti, e mirano ingannevolmente a far
credere che qualcuno abbia veramente a cuore noi e le nostre famiglie. La verità
è che molti colleghi provengono da realtà industriali fallite nel territorio e
senza l’Rwm tanti di questi sarebbero oggi disoccupati”.
Un operaio di Domusnovas che
preferisce rimanere anonimo, dopo avermi spiegato che qui l’economia si fonda
prevalentemente su pensioni, casse integrazioni e assistenzialismo, ha
concluso: “Ogni posto di lavoro ha la forma di un miraggio nel deserto”.
Lo
scontro politico
Oltre alle divisioni tra
attivisti e operai, ci sono anche quelle tra gli amministratori locali. Lo scontro,
più o meno esplicito, è tra quelli di Domusnovas e quelli di Iglesias. Al
centro della contesa c’è l’ampliamento della Rwm.
Il sindaco di Domusnovas è
convinto che con il raddoppio delle dimensioni dell’impianto raddoppierebbe
anche il numero degli operai, e per questo per lui “il progetto potrebbe
partire domattina”.
Al comune di Iglesias sono più
cauti. L’ampliamento ricadrebbe nel loro territorio, più precisamente nella
zona di San Marco, che Domusnovas vorrebbe portare sotto la propria
amministrazione, dando in permuta a Iglesias parte della foresta del Marganai.
A Iglesias dicono che il via libera all’ampliamento sarà dato solo a condizione
che l’intervento “acquisisca la necessarie autorizzazioni paesaggistiche”.
Il 1 dicembre 2017 il sindaco e
il vicesindaco di Domusnovas hanno marciato a piedi sulla statale, chiedendo a
gran voce di poter acquisire 1.400 dei 1.700 ettari di San Marco. Non era la
prima volta che succedeva. In ottobre era stata l’intera giunta a mettersi in
cammino per chiedere la stessa cosa. Ma per ora, la situazione resta sospesa.
Lo
spettro della delocalizzazione
Intanto, mentre le
amministrazioni si scontrano, sulla scena è apparso anche lo spettro della
delocalizzazione. La Rwm potrebbe lasciare la Sardegna per trasferirsi a sud di
Riyadh, in Arabia Saudita, dove nel marzo 2016 la multinazionale tedesca ha
inaugurato uno stabilimento che produrrà gli stessi ordigni fabbricati a
Domusnovas.
La scelta permetterebbe al gruppo
tedesco di risparmiare sui costi di produzione, ma anche di allontanarsi
dall’Europa, dove sempre più paesi – dalla Germania alla Norvegia, ai Paesi
Bassi – hanno annunciato di non voler vendere più armi all’Arabia Saudita e
agli altri paesi della coalizione coinvolti nella guerra in Yemen.
Che fare, dunque, se i tedeschi
se ne vanno? Tra chi si oppone all’industria militare si parla molto di
turismo. Chiunque percorra le strade del Sulcis, però, si accorgerebbe subito
che è un settore da ricostruire da zero: qui di turisti se ne vedono veramente
pochi rispetto alla media sarda.
Secondo i dati riportati dal Sole
24 ore, l’ex provincia di Carbonia-Iglesias, che oggi fa parte di quella del
Sud Sardegna, è penultima per numeri di turisti accolti nel 2016 sull’isola. Le
miniere prima, e le grandi industrie poi, hanno attirato capitali e
investimenti andati successivamente in fumo nei fallimenti e nelle
delocalizzazioni, e non è mai stato creato un sistema economico che prevedesse
investimenti anche sul turismo.
È un’impresa complicata, perché
bisognerebbe lavorare anche sull’immaginario, far capire che il Sulcis non è
fatto solo di poligoni militari e ruderi industriali da bonificare, ma anche di
dune, foreste e strapiombi sul mare che disegnano un paesaggio unico.
Un buon punto di partenza
potrebbe essere il parco geominerario della Sardegna. Riconosciuto patrimonio
dell’Unesco nel 2015, si estende in tutta la regione su 3.500 chilometri
quadrati e comprende il territorio di 81 comuni, concentrati soprattutto nel
Sulcis. È un percorso storico e paesaggistico all’avanguardia, che mette sotto
una nuova luce la storia delle attività estrattive. All’archeologia mineraria e
industriale, e ai villaggi abbandonati resi finalmente visitabili, si sono
affiancati musei, come quello dell’ossidiana a Monte Arci o del carbone nella
miniera di Serbariu. Chilometri di cave, grotte, foreste e miniere dialogano in
un percorso che dalla miniera di Montevecchio si affaccia sul mare dallo
strapiombo di Porto Flavia.
È ancora presto per capire se il
parco sia davvero un’alternativa possibile, ma potrebbe essere l’inizio di un
cambio di prospettiva: quel miraggio di riconversione che il Sulcis desidera da
decenni.
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