domenica 30 settembre 2018

MONDO: ARABIA SAUDITA L’Arabia Saudita resta una dittatura nonostante le riforme


Gwynne Dyer – Internazionale 
01 Ottobre 2018


Gioia e orgoglio per le donne saudite che finalmente hanno avuto il permesso di guidare. Contentezza per i concessionari che prevedono tanti nuovi affari. E sgomento per le famiglie del milione e quattrocentomila autisti, quasi tutti provenienti dall’Asia meridionale, che guadagnavano circa mille dollari al mese scarrozzando in giro le donne saudite. Tuttavia per cambiare l’Arabia Saudita servirà molto altro. 
Poco prima che la guida diventasse legale per le donne, sono state arrestate diciassette attiviste che avevano protestato per anni contro il divieto di guidare. Otto sono state liberate, ma le altre potrebbero essere processate in un tribunale speciale contro il terrorismo e vedersi inflitte pesanti condanne. La mano destra sa cosa fa la mano sinistra? Certo che sì. 
Consentire alle donne di guidare rientra nel progetto del principe ereditario Mohammed bin Salman finalizzato alla conquista del sostegno popolare attraverso la modernizzazione di alcuni aspetti della vita quotidiana. Dare l’impressione di arrendersi alle pressioni popolari di sicuro non rientra nel suo programma. Il cambiamento deve sembrare piuttosto una concessione elargita, non un cedimento di fronte alle proteste. 
È un’iniziativa meno spettacolare rispetto alla campagna contro la corruzione condotta l’inverno scorso, che ha portato alla detenzione di 56 importanti esponenti della famiglia reale e uomini d’affari (nel miglior albergo della capitale) finché non hanno “restituito” parte dei loro guadagni illeciti. 
L’idea che Mohammed bin Salman stia liberalizzando il sistema saudita è una fantasia
Tutta la vicenda pare abbia fruttato 100 miliardi di dollari al governo, anche se nessuno dei ladri ha visto un’aula di tribunale, men che meno una prigione. Il messaggio però era lo stesso: io sto dalla parte della gente comune e faccio le cose giuste, ma decido io quando e come. 
L’idea che Mohammed bin Salman stia aprendo il sistema saudita è una fantasia. Dopo aver messo da parte in modo spietato tutti i pretendenti al trono - suo padre, re Salman, ha 82 anni ed è malato – ha centralizzato il potere come mai in passato. L’Arabia Saudita era una monarchia tradizionale, profondamente conservatrice che ha sempre garantito alle élite la possibilità di esprimersi. Adesso è una dittatura. 
Mohammed bin Salman è noto per essere un uomo impulsivo e uno dei suoi errori più grandi è stato quello di invitare l’inviato speciale delle Nazioni Unite Ben Emmerson a visitare il paese affinché riferisse sul modo in cui al suo interno si conciliava la necessità di prevenire il terrorismo con il rispetto per i diritti umani. Emmerson è tornato all’inizio di maggio. Il suo rapporto è stato insolitamente sincero per essere un documento ufficiale, e in una successiva intervista è andato ben oltre quanto aveva scritto. 
Al Guardian ha riferito come le norme antiterrorismo saudite siano scritte in modo tale da criminalizzare qualsiasi forma di dissenso. La tortura nelle carceri saudite è un luogo comune, i funzionari colpevoli non vengono puniti e l’Arabia Saudita “sta vivendo la più spietata repressione del dissenso politico mai sperimentata dal paese negli ultimi decenni”. 
“Le notizie sulla liberalizzazione dell’Arabia Saudita sono completamente fuori luogo”, ha detto Emmerson. “Il sistema giudiziario adesso è completamente sotto il controllo del re ed è privo di qualsivoglia parvenza di indipendenza rispetto all’esecutivo. In parole povere, non esiste alcuna forma di separazione dei poteri in Arabia Saudita, né libertà di espressione, stampa libera, sindacati efficienti o una società civile funzionante”.

Fallimenti internazionali
I successi riportati da Mohammed bin Salman nel reprimere il dissenso interno lo hanno inoltre reso fin troppo sicuro di sé riguardo le sue doti di politica estera. Ha convocato il primo ministro libanese Saad Hariri a Riyadh e lo ha costretto a dimettersi, salvo poi vedere Hariri tornare al potere in alleanza con Hezbollah, un gruppo islamista sciita che Mohammed bin Salman detesta con tutto se stesso. 
Ha dichiarato un blocco ai danni del piccolo ma ricchissimo vicino dell’Arabia Saudita, il Qatar, per costringerlo a chiudere il canale televisivo Al Jazeera, il più influente notiziario in arabo, e a spezzare i suoi legami con l’Iran, il paese che Mohammed bin Salman detesta più di qualsiasi altro. Un anno dopo Al Jazeera è viva e vegeta e il Qatar si è ulteriormente avvicinato all’Iran. 
Il suo più grosso abbaglio lo ha preso lanciando un intervento militare nella guerra civile in Yemen per sconfiggere gli houthi, una tribù sciita che ha conquistato la maggioranza del territorio yemenita e che a suo parere (errato) è controllata e armata dall’Iran. 
I bombardamenti aerei dell’Arabia Saudita hanno ucciso migliaia di persone, i suoi alleati degli Emirati Arabi Uniti hanno migliaia di soldati sul campo e tre anni dopo i primi attacchi gli houthi controllano ancora le aree più popolose dello Yemen, compresa la capitale. 
Non è proprio il Vietnam dell’Arabia Saudita, visto che i sauditi non hanno truppe sul campo e gli emiratini fanno ricorso in larga misura a mercenari stranieri, ma l’intervento in Yemen è molto costoso, profondamente imbarazzante e senza possibilità di vittoria. Nel lungo periodo, potrebbe significare la rovina di Mohamed bin Salman. 
In Arabia Saudita la ricchezza è stata ampiamente condivisa più che nella maggioranza dei paesi ricchi di petrolio, e per la maggioranza che non si interessa alla politica la vita è ancora piuttosto bella. Persino per le donne le cose stanno piano piano migliorando: il 60 per cento dei laureati sauditi sono donne, e adesso possono addirittura guidare. Oggi però il paese è guidato da un dittatore volubile e troppo sicuro di sé. 


(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

MONDO: ARABIA SAUDITA A Riyadh le riforme sono di cartapesta


Madawi al Rasheed, Middle East Eye– Internazionale 
01 Ottobre 2018

Il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman ha sorpreso molti quando, il 24 ottobre 2017, ha concesso un’intervista al Guardian per celebrare la futuristica città di Neom, un progetto del valore di 500 miliardi di dollari che sorgerà sul mar Rosso tra l’Arabia Saudita, l’Egitto e la Giordania. Per garantire il successo del programma Vision 2030, di cui Neom fa parte, ha annunciato anche importanti riforme economiche e sociali. “Restituirò l’Arabia Saudita all’islam moderato”, ha promesso. 
Salman ha fatto appello alla comunità internazionale affinché contribuisca a rendere l’Arabia Saudita una società di nuovo aperta, come se nella sua storia recente il regno lo sia mai stato. Al principe sembrano sfuggire alcuni aspetti importanti sia dell’islam moderato sia delle basi su cui si fonda una società aperta. Di fatto il regime saudita è sempre stato, e continua a essere, un fermo oppositore di entrambe le cose. 
Negli ultimi ottant’anni, il regime si è basato su interpretazioni radicali dell’islam per addomesticare, controllare e sottomettere una popolazione araba molto diversificata. Per la prima volta nella storia una tradizione religiosa radicale, il wahabismo, è diventa religione di stato, sostenuta dalla spada e dai petrodollari. Storicamente, interpretazioni radicali dell’islam sopravvivevano solo nei deserti e nelle montagne distanti e isolate del mondo musulmano, dove questi movimenti venivano espulsi. Invece in Arabia Saudita il wahabismo ha resistito dalla metà del seicento a oggi. La variegata popolazione saudita è stata sottomessa in nome di un dio rappresentato come una divinità potente, adirata e spietata. Gli interpreti della sua parola sono diventati notabili di stato, un’alta casta sacerdotale con poteri di scomunicare intere comunità e singoli individui. 
Il principe ha in mente una teologia monarchica che criminalizzi la critica, il dissenso e perfino l’attivismo pacifico
Non è chiaro come il regime potrà attuare una vera riforma religiosa, soprattutto se si tiene conto del fatto che molti attivisti, religiosi, professionisti e perfino poeti, non tutti radicali o oppositori della nuova visione di Salman, sono stati messi in carcere nell’ultima ondata di arresti. 
Per potersi affermare, una riforma religiosa deve nascere da un dibattito interno ai circoli islamici ed essere del tutto libera dal controllo dello stato. La teologia della liberazione non è mai nata nelle corti di monarchi e principini dispotici. Ma il principe ha in mente qualcos’altro: una teologia monarchica che criminalizzi la critica, il dissenso e perfino l’attivismo pacifico. 
L’islam ha una sua specificità, che consiste soprattutto nella sua capacità di riformarsi da solo. Le sue molteplici scuole di giurisprudenza, che danno forma all’interpretazione della sharia; i ricchissimi testi che si offrono all’ijtihad, il processo di deduzione delle leggi; e la tradizione del kalam, ossia il dibattito nei circoli di studiosi: sotto il regime degli Al Saud tutto questo è scomparso. Il risultato finale è l’imposizione di un’unica interpretazione dell’islam con lo scopo di preservare la monarchia assoluta. Il principe sembra sostenere un islam politicamente oppressivo coperto da una patina liberale che accetta la musica pop e il ballo. 
Questo islam moderato prevede l’abolizione della pena di morte, la messa al bando della poligamia, la possibilità di un dibattito religioso sull’ereditarietà del potere, la natura del governo islamico e l’illegittimità della monarchia nell’islam? Permette alla società civile e ai sindacati di fiorire e affermarsi come versioni moderne delle antiche gilde islamiche? Questo progetto di islam moderato significa vera consultazione, un’assemblea nazionale eletta, un governo rappresentativo? Assolutamente no. L’islam moderato del principe è un progetto ben preciso in cui le voci dissidenti vengono messe a tacere, gli attivisti finiscono in carcere e gli avversari sono ridotti al silenzio. 
Ultimamente la nuova religione consente alle donne di guidare, magari addirittura di guidare fino in prigione nel caso in cui dovessero contestare le politiche economiche o il programma sociale del regime. E dovrebbero festeggiare visto che potranno ballare per strada e stare insieme agli uomini in pubblico. Questa riforma è ritenuta essenziale per la rinascita economica e per un’economia basata sulla tecnologia che somiglia a Disneyland. Il robot Sofia, l’ultima novità nel repertorio della promessa economia dei gadget, è oggi cittadina saudita, un simbolo dei drastici cambiamenti che attendono i rinati sauditi moderati. Sofia non è obbligata a indossare il velo come dovevano fare fino a poco tempo fa le bambole di plastica e i manichini senza testa nei negozi di moda. In futuro il regime potrebbe prendere in considerazione l’ipotesi di trasformare i cittadini sauditi in robot che non fanno domande, che appoggiano e apprezzano volentieri e senza opporre resistenza non solo il cosiddetto islam moderato ma anche la nuova Disneyland promessa.

Un’utopia promessa
Open society, la società aperta, è un’altra utopia con cui il principe vorrebbe sostituire la vecchia utopia islamica fondata sulle interpretazioni. Ma una società aperta dovrebbe essere una democrazia compiuta, in cui diritti civili e politici sono salvaguardati. Finora invece il regime ha dimostrato che l’ultima cosa che desidera è una società aperta. 
L’Arabia Saudita è effettivamente aperta al capitale internazionale che può salvarla dai pericoli della dipendenza da un unico prodotto, il petrolio, soggetto a fluttuazioni di prezzo. È anche aperta alle aziende internazionali desiderose di aprire bottega nel regno. I beni di consumo inondano i mercati con vaghe promesse di insegnare alle donne l’arte del trucco e di creare così nuove opportunità di lavoro. Tuttavia una società aperta non è certo l’obiettivo del programma Vision 2030 o della riforma dell’islam. 
Se non darà voce al popolo, l’Arabia Saudita resterà una società chiusa in cui lo stato controlla la religione, un vecchio progetto che ha rovinato l’islam e lo ha trasformato in uno strumento autoritario, rovinando la reputazione dell’islam e dei musulmani.
La comunità internazionale sta come un mendicante davanti ai cancelli del palazzo, in attesa di altri annunci da cui poter trarre benefici. Le aziende dovrebbero adottare un comportamento responsabile e insistere su una vera apertura, invece di accontentarsi di quella falsa promessa dal principe. Il loro ambiente di lavoro sarebbe di sicuro migliore se nel regno fossero rispettati i diritti umani e le norme del buongoverno, o addirittura forme rudimentali di democrazia. Invece, in condizioni di repressione e opacità le aziende e i loro dipendenti saranno a rischio. 
Nel breve periodo gli affari potranno anche apparire rosei in una dittatura, ma alla lunga si tratta di un’utopia insostenibile deturpata dalla repressione. Ricordate che nella terra in cui non vige lo stato di diritto ma il volere del principe potreste essere sbattuti fuori in qualsiasi momento. 

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

MONDO: BELGIO DOEL: IL VILLAGGIO CHE SCOMPARE


Giovanni Masini – Gli occhi sulla guerra 
01 Ottobre 2018

Degli ottocento abitanti che a metà degli anni Novanta componevano la popolazione di Doel, solo in venti sono rimasti qui.
Dietro la scomparsa di un’intera comunità c’è l’annunciata espansione porto di Anversa, il secondo d’Europa per volume di merci movimentate. Sul terreno dove sorge Doel è stata progettata la costruzione di un nuovo enorme molo, che consenta alle enormi navi portacontainer di scaricare merci a getto continuo. La Maatschappij LinkerScheldeoever, che gestisce i terreni del porto sulla riva sinistra del fiume, ha acquistato tutti gli edifici del villaggio ad eccezione di una minuscola casa ad un solo piano di proprietà di un insegnante. Chi era meno incline a vendere è stato convinto a suon di offerte milionarie: Cécile racconta che a una giovane coppia sono stati pagati 450mila euro per un’abitazione che ne valeva appena 50mila.
Fra i pochissimi rimasti c’è la madre Emilienne, ottantaquattrenne. Nel salotto di una casa invasa di orsi di peluche, accoglie i rari visitatori con lo sguardo velato da una vecchiaia che non riesce a nasconderne l’antica bellezza. “Io sono l’ultima doelenaar, nata e cresciuta in questo villaggio – racconta fumando una sigaretta dietro l’altra – Quando ero bambina c’erano 24 bistrot, dove venivano a bere i marinai delle navi di passaggio.
Poi all’improvviso, all’inizio degli anni Duemila, tutti hanno iniziato ad andarsene.” Nelle sere d’estate a Doel sciamano bande di balordi che entrano nelle case abbandonate e distruggono ogni cosa. Qualche volta hanno bussato alla porta di Emilienne, svegliandola nel cuore della notte. Lei ha scelto di restare, perché “in qualsiasi altro posto morirebbe”.
“Chi non voleva vendere la casa è stato convinto a suon di milioni”

Al momento la costruzione del nuovo molo è bloccata da una sentenza del Consiglio di Stato, ma Cécile ed Emilienne temono che da un giorno all’altro quel parere possa essere rovesciato e all’entrata del villaggio si presentino le ruspe. Quello che non le preoccupa, invece, è la presenza di un’enorme centrale nucleare a poche centinaia di metri dal paese, costruita nel 1975. Un impianto che non dovrebbe dare problemi ma che da tempo è finito nell’attenzione della comunità scientifica per alcune crepe al recipiente del reattore 3 che sarebbero in espansione. 
Molti degli attivisti che si battono per la chiusura della centrale si oppongono anche all’espansione del porto e più d’uno sottolinea la pericolosità di circondare un impianto nucleare con industrie chimiche e petrolifere fra le più grandi d’Europa. In attesa che i poteri forti di economia e politica si risolvano a decidere il destino di Doel, gli ultimi abitanti continuano a vivere la vita di sempre, che scorre lenta come le peniches che risalgono il corso della Schelda.


“La distruzione di Doel è bloccata da una sentenza del Consiglio di Stato, ma le cose potrebbero cambiare”
Cécile e Sasha accolgono i turisti che di tanto in tanto suonano il campanello, ansiosi di raccogliere informazioni sul villaggio fantasma. L’amministrazione comunale, che è stata accorpata con il villaggio vicino, invia ancora i giardinieri a curare le aiuole che decorano gli angoli delle vie deserte. 
Uno spazzino ramazza le foglie secche davanti al cimitero, dove il cancello è rotto e le lapidi spezzate. 
Ma all’ombra del campanile della chiesa dove fanno il loro nido i corvi, sono le anime dei morti a salutare i vivi che se ne vanno.

MONDO: UCRAINA La fabbrica delle mogli


Nicola Baroni– Gli occhi sulla guerra 
01 Ottobre 2018

Non è turismo sessuale, ma ricerca del vero amore, almeno sulla carta. Ogni anno migliaia di uomini occidentali vanno in Ucraina per incontrare ragazze locali con cui hanno chattato on line, nella speranza di sposarne una. La meta ideale di questo turismo dei cerca moglie è Mykolaïv, una città che conserva i tratti stilistici del periodo sovietico a 130 km a est di Odessa, a cui è collegata con una rete di trasporti pubblici inefficiente, cui sopperiscono autobus privati che partono solo quando sono abbastanza pieni, a discrezione dell’autista.
L’unico richiamo turistico è lo zoo più famoso del Paese, modesto agli occhi degli occidentali che vengono qui per un’altra “attrazione”: “La nostra città è famosa in tutto il mondo e i nostri turisti non vengono per castelli o montagne ma per le nostre donne”, vanta il sito di una delle centinaia di agenzie matrimoniali locali. L’appellativo “città delle mogli” non è una trovata pubblicitaria. Ha origine nel 1789, anno in cui il generale Gregory Potemkin fondò la città per farne un centro di costruzioni navali. Il generale obbligò gli abitanti dei villaggi circostanti a portare le ragazze più belle in città, per far sì che militari, operai e marinai si sposassero e mettessero radici a Mykolaïv. Duecentoventinove anni dopo la città è il centro del business ucraino dei matrimoni. Passeggiando su Tsentralny Avenue, un viale di 6 chilometri che taglia la città, tra caseggiati sovietici in stile brutalista e carri armati trasformati in monumenti pubblici, ci si imbatte in decine di negozi di vestiti da sposa con nomi spesso italiani: Florencia, Milano. A stupire è anche l’uso dell’immagine femminile che a Mykolaïv fanno le attività commerciali per fini pubblicitari: che sia un’assicurazione o un negozio di caccia e pesca, è immancabile il cartonato di una donna a grandezza naturale sulla strada principali


Le agenzie matrimoniali
Un capitolo fondamentale di questo business sono le agenzie di matrimonio per stranieri, che sui siti spiegano: “Le donne ucraine sono sempre state famose per la loro bellezza, il loro aspetto intelligente e le loro menti brillanti. Gli uomini da tutto il mondo sono venuti in Ucraina in cerca della miglior moglie: buona sposa e casalinga”. Campagna marketing sessista, alle educate orecchie occidentali, ma le persone a capo di queste agenzie, quasi sempre donne, non la pensano così: “In Ucraina ci sono molte meno donne che uomini – spiega Ekaterina Zaporozhenko, dell’agenzia Rumba Love Tour -. Il sogno di ogni ragazza ucraina è quello di trovare un fidanzato straniero e lasciare questo paese pieno di problemi. Gli uomini scelgono le donne ucraine perché sono belle, orientate alla famiglia e fedeli. Noi aiutiamo entrambi a trovare il partner giusto”. Le agenzie matrimoniali di Mykolaïv superano il centinaio, a detta degli operatori del settore: tutte presenti on-line ma poco visibili in città, segnalate al massimo da anonime targhette sui portoni. Non è così per Ukraine Brides, che si affaccia sulla strada con cartelli in doppia lingua, rivolti sia a potenziali clienti stranieri di passaggio sia alle donne locali.
 “La metà dei clienti viene da Stati Uniti, Inghilterra, Nuova Zelanda e Australia. Anche Europa e Turchia. Pochi italiani, in questo momento saranno una quindicina”, spiega Anna Mykhaylovskaya, manager dell’agenzia. Per iscriversi basta inserire la propria foto, alcuni dati personali, dichiarare cosa si sta cercando e pagare. A scegliere le ragazze con cui il cliente potrà chattare è l’agenzia, che fornisce anche il traduttore: “Scegliamo le ragazze giuste in base ai gusti e alle richieste del cliente. Lo mettiamo in guardia dal cercare una donna molto più giovane, che potrebbe voler provare diversi uomini prima di scegliere quello adatto”. Le ragazze che si rivolgono a Ukraine Brides devono compilare un modulo e rispondere ad alcune domande con cui l’agenzia verifica che il loro obiettivo è veramente il matrimonio, un metodo per niente infallibile, come ammette Mykhalovskaya: “Capita che alcune ragazze siano più volubili e vogliano divertirsi, ma lo stesso vale per gli uomini”. Ukraine Brides è attiva dal 2009 e oggi conta dieci dipendenti, più di 1500 ragazze e il doppio di clienti. Ma le cose sono cambiate molto in questi anni: “Oggi proliferano i siti di incontro gratuiti o con quote di iscrizioni mensili che permettono di interagire con tutti gli altri iscritti. Ma il nostro è un servizio più individuale, supportato dal personale dell’agenzia e con maggiore privacy. Il nostro cliente medio è il businessman over 40 che non ha tempo per cercarsi la donna e delega a noi il compito”.
Tutto parte con una conversazione on line ma alcuni clienti, dopo aver chattato per diversi mesi con le ragazze, decidono di andare a trovarle di persona: in questo caso l’agenzia organizza anche la permanenza e gli spostamenti nel paese e fornisce il traduttore. Per accedere agli uffici di Ukraine Brides si passa attraverso quello di un’omonima agenzia viaggi: “Siamo la stessa compagnia – spiega Mykhaylovskaya – questo è il dipartimento viaggi, che organizza il soggiorno dei clienti”.
Marito o denaro facile?
Di fronte all’agenzia c’è un negozio di fiori specializzato in matrimoni. La ragazza al banco dice di avere alcune amiche iscritte all’agenzia e di non sapere se vogliano veramente trovare marito, ma il sorriso parla al suo posto. Che tutte queste ragazze abbiano altri fini rispetto a sposarsi con il primo straniero che passa ed espatriare è stato anche il sospetto di Shaun Walker, che nel 2014 ha partecipato a un viaggio di gruppo organizzato da uno di questi siti internazionali di incontri in Ucraina. Walker ha raccontato sul Guardian di essersi trovato con altri 29 uomini soprattutto americani ma anche inglesi e italiani: tutti emotivamente fragili, hanno incontrato diverse ragazze ciascuno, hanno comprato loro regali e pagato cene, prima di tornarsene a casa più soli di prima.
Maryna (nome di fantasia) ha lavorato come traduttrice e scout manager per tre diverse agenzie matrimoniali ucraine e la sua versione è molto diversa da quella ufficiale: le ragazze vendono la loro immagine e i loro dati personali alle agenzie in cambio di soldi e non sono affatto intenzionate a sposarsi con un uomo straniero. A parlare con i clienti in chat sono i traduttori, non le ragazze, che si limiterebbero a passare in agenzia una volta al mese per ritirare i loro soldi e scattare alcune fotografie. L’agenzia mette il profilo della stessa ragazza su diversi siti di chat a pagamento e non detiene nessuna esclusiva sull’uso della sua immagine: “Capita che una ragazza lavori per diverse agenzie e a seconda della politica dell’agenzia compaia su diversi siti, in un caso dichiarando di avere dei figli, nell’altro di non averne, o di abitare in città diverse – spiega Maryna -. Ma capita anche che una ragazza sia già sposata: l’unica richiesta dell’agenzia è che tolga tutte le foto che la ritraggono con un uomo dai suoi profili social perché il cliente pur non avendo accesso diretto ai loro contatti privati potrebbe imbattervisi casualmente”.
 “Se il suo profilo è gestito da un buon traduttore – rivela Maryna – una ragazza può guadagnare anche mille dollari al mese, un buon traduttore ne guadagna fino a 3mila, un manager fino a 5mila. Nell’ultima agenzia per cui ho lavorato, che gestiva il profilo di 40 ragazze, lavoravano 13 persone, tra manager e assistenti. Senza contare un traduttore per ogni ragazza”.
Lara spiega che il sito internazionale a cui si lega l’agenzia trattiene l’80% del guadagno, il restante 20% se lo spartiscono agenzia, traduttore e ragazza. Ma se il cliente decide di andare in Ucraina si apre un capitolo di guadagni extra molto sostanziosa per questi ultimi: “Il traduttore deve incontrare la donna con cui il cliente pensa di aver chattato per mesi e raccontarle tutta la storia d’amore virtuale. Poi si passa all’incontro con il cliente, che include sempre una cena, a cui partecipa anche il traduttore. Di solito ragazza e traduttore si mettono d’accordo con il ristorante per maggiorare il conto della cena, anche duplicarlo, visto che pagherà il cliente”.
Col tempo si sono affinate anche le tecniche per evitare le avances sessuali dei clienti: “Di solito la ragazza dice di essere vergine e di doverci pensare bene, di dover passare più tempo con lui prima di decidere. L’uomo percepisce che nella realtà è molto più fredda di quanto fosse in chat e di solito non vuole incontrarla di nuovo. Ma se il traduttore è molto bravo e la ragazza è d’accordo, ci si inventa che ha avuto recenti problemi in famiglia o cattive esperienze con altri uomini e si potrà andare avanti per diversi giorni con la finzione”.
Maryna non si fa una ragione del perché questi uomini continuino a pagare per chattare, oggi che è possibile farlo gratuitamente nei siti di dating on-line: “Tra i clienti ci sono anche ragazzi. Ho visto un uomo spendere su un sito 30mila dollari in un mese. Molti parlano per anni con una donna, ma solo il 5% è davvero interessato a incontrarla. Lo fanno perché si sentono soli e vogliono parlare con belle ragazze, indipendentemente che siano vere o no. A volte addirittura capiscono che non stanno chattando con queste ragazze ma con qualcun altro al loro posto, ma hanno bisogno di una persona a cui raccontare la loro storia. Per loro è solo un aiuto psicologico”. Con la collaborazione di Anton Yeshchenko.

MONDO: UCRAINA Le lezioni delle scuole ucraine per addestrare i soldati di domani


Riccardo Pareggiani – Gli occhi sulla guerra 
01 Ottobre 2018

Dopo quattro anni di guerra, divenuta ormai un conflitto “congelato” ma ancora, spesso, letale, il governo di Kiev cerca alternative per spingere indietro dalla linea del fronte i separatisti pro-russi. L’educazione nelle scuole è la nuova arma.
Avdiivka è una piccola cittadina nell’est ucraino, precisamente ad una ventina di chilometri da piazza Lenin, il centro di Donetsk, ora sotto il controllo dei filorussi, dove, prima della guerra scoppiata nel 2014, viveva la maggior parte dei lavoratori delle fabbriche di carbone, prima industria della regione e seconda del Paese.


La cittadina è uno degli ultimi “avamposti” ucraini prima della linea del fronte che divide ormai il Paese, nonché uno degli ultimi villaggi abitati a meno di cinque chilometri dalle trincee; molto vicina alla zona dell’aeroporto di Donetsk, luogo di violentissimi scontri nel 2014, cerca di tornare alla vita e di richiamare quelle centinaia di persone che ne hanno abbandonato le strade e le case.
La vita cerca di scorrere in maniera tranquilla e routinaria, come se nulla accadesse a pochi metri di distanza. Le salve di mortaio ed i grossi calibri di artiglieria sono sempre presenti; segnano i palazzi, le strade e si odono con costanza, tutto il giorno, tutti i giorni.
Ciò che mantiene in vita la cittadina è naturalmente il giorno di paga, il mercato e la scuola; quest’ultima, più volte colpita dai cannoneggiamenti, è il luogo in cui l’Ucraina cerca di ripartire per rafforzare la presente e le future generazioni in virtù di una riconquista “toutcourt” di tutti quei territori che ora sono in mano ai filorussi.
La scuola e l’educazione, secondo le ultime mosse di Kiev, sono diventate centrali nella guerra ai separatisti filorussi. L’Ucraina, oltre a rispondere ai tiri di grosso calibro, alle incursioni di sabotatori e alle salve dei cecchini, cerca di respingere l’influenza di Mosca (dilagante sopratutto dopo l’annessione della Crimea) con l’introduzione di leggi di natura pedagogica negli istituti scolastici di ogni livello.
Tanto quanto la Russia ha utilizzato per decenni la lingua per dividere il Paese slavo, per legittimare l’annessione della Crimea e la protezione dei cittadini russofoni con mezzi militari, così l’Ucraina ha fatto leva sulla propria identità nazionale, rendendo il linguaggio il nuovo campo di battaglia e le scuole le nuove trincee.
 “L’istruzione è la chiave per il futuro dell’Ucraina”, ha dichiarato il presidente Pedro Poroshenko in seguito alla avvenuta approvazione, il 5 Settembre 2017, di una legge che ha fatto molto scalpore nei Paesi dell’ex spazio sovietico, confinanti con l’Ucraina: la legge sull”ucrainizzazione” della lingua nelle scuole.
La legge prevede che dal 2020 vengano completamente abolite nelle scuole tutte le lingue ad eccezione di quella ucraina. “Dalla scuola media secondaria, tutte le discipline saranno studiate in lingua ucraina. Le minoranze nazionali avranno diritto eccezionalmente a classi separate, […], fino alla completa messa in vigore della riforma. Mentre l’istruzione in lingua russa scomparirà completamente”, ha detto Viktoria Siomar, deputata, membro della Coalizione al governo con Poroshenko.
Ridurre il ruolo di Mosca in tutti i settori della vita ucraina è divenuto un obiettivo di sicurezza nazionale per Kiev, ed un tentativo in più di spingere il Paese al di fuori dell’orbita del grande “Orso russo”.
Oltre a limitare l’insegnamento della lingua e tagliare ampiamente i programmi pedagogici contenenti la storia e la cultura russa, sono state imposte delle quote di lingua, a livello televisivo, e sono state perfino chiusi due popolari social media di provenienza russa.
Ad Avdiivka l’educazione nelle scuole, quelle a ridosso della zona del fronte hanno fatto un ulteriore passo in avanti nella battaglia contro l’espansione russa ed è stata introdotta un’ora di lezione sulla “difesa della Madre Patria“.
Elena Markrinchuk è una donna proveniente da Donetsk, molto energica, robusta, laureata in pedagogia e storia, con una peculiarità veramente interessante. Oltre alla formazione accademica classica, l’altro lato della medaglia nasconde una grande professionalità nel campo delle informazioni, acquisita partecipando attivamente a training condotti dal Mossad, in Israele.
Elena, tutte le mattine, indossando la sua divisa mimetica di ufficiale dell’esercito, si reca alla scuola n. 7 per impartire la lezione di “difesa della Madre Patria”. Come afferma Elena, “al giorno d’oggi il mondo è regolato dalle informazioni ed esse sono divenute il nuovo campo di battaglia su cui si scontrano le parti”.
La sua lezione è un vero e proprio repertorio della più vincente propaganda militare, con racconti dal fronte “delle cose realmente accadute, di cui sono stata protagonista, e non di quelle ascoltate dalla bocca di qualcun’altro”, tende a specificare.
La lezione non è solo teorica, e non riguarda solo ed esclusivamente la propaganda, ma arriva a toccare argomenti di natura propriamente bellico-tattica: la posizione delle truppe, l’importanza dell’artiglieria, lo sbarramento, le strategia da trincea e, non da ultimo, la politica militare delle alleanze e il riconoscimento delle parti, i nemici e gli alleati.
C’è poi una parte fisica con vere e proprie prove, sotto la diretta ed attenta supervisione di un istruttore dell’esercito ucraino che, invece di sparare pallottole, spara voti.
Oksana ha 13 anni e, con la sua famiglia, è tornata ad Avdiivka dopo la proclamazione del cessate il fuoco (mai rispettato) e in concomitanza della riapertura delle scuole indetta a fine agosto 2017. Con lei sono rientrati quasi 400 bambini e i loro cari, come racconta Ludmyla Tilina, direttrice della scuola n.7: “La scuola ha riaperto nel 2015 e all’epoca venivano a scuola solo 100 bambini, rispetto ai 700 totali del periodo pre-conflitto. Dagli inizi del 2017 la scuola è stata spesso obiettivo militare, ma ad oggi, riusciamo nuovamente ad assicurare istruzione a 330 alunni, dai 5 ai 15 anni”.
Oksana è consapevole che il conflitto avrà ripercussioni sul futuro del Paese: “Da quando è scoppiata la guerra, le nostre vite sono completamente cambiate. Nel giro di qualche giorno alcuni compagni di scuola sono stati costretti a rimanere al di là del fronte, a scegliere altre scuole dove andare”.
Nonostante ciò, lei non è a favore di una separazione così marcata, a livello educativo. In una maniera estremamente adulta spiega che “questo continuo dividere porta, senza dubbio, ad un radicalizzarsi sempre maggiore della situazione, ad un ricongiungimento con l’altra parte sempre più lontano; mettere l’uno contro l’altro non ha mai portato a conclusioni positive delle controversie”. Oksana non si sente soddisfatta nello svolgere, per un’ora al giorno, una lezione che reputa inutile e per cui non nutre interessi. Lo stesso dice Viktor, 14 anni, il quale studia nella stessa scuola, la numero 7: “Quando termina la lezione della signora Elena (l’ufficiale dell’esercito) esco orgoglioso e fiero del mio Paese, ma questa sensazione dura poco”, dice Viktor. “Non sono mai stato intenzionato ad entrare nell’esercito e non credo che questa nuova lezione possa farmi cambiare idea”, conclude.

MONDO: UCRAINA Nelle trincee di Donetsk


Andrea Sceresini e Alfredo Bosco– Gli occhi sulla guerra 
01 Ottobre 2018


Nella periferia di Donetsk si continua a combattere. A tre anni dall’inizio della guerra civile del Donbass, che vede contrapposti l’esercito regolare ucraino e le forze separatiste filorusse, e nonostante i numerosi accordi di pace, i cannoni seguitano a sparare. Impossibile stabilire il numero delle vittime. Le fonti ufficiali parlano di dodicimila caduti, ma tutti sanno che le vere cifre sono molto più alte.


Nel centro della capitare della autoproclamata repubblica popolare la vita scorre normalmente: sola la notte, quanto il vento soffia verso sud, capita di sentire il lontano boato di qualche esplosione. Il fronte si trova oltre gli ultimi sobborghi operai. Qui, in uno scenario da prima guerra mondiale, uomini e ragazzi vengono feriti e uccisi ogni giorno. Abbiamo raggiunto una delle trincee avanzate della milizia separatista. “Gli sniper lavorano giorno e notte – spiega il comandante del presidio -. Usano proiettili incendiari, in modo da poter individuare meglio i bersagli dopo il calare delle tenebre”.
È col crepuscolo, infatti, dopo che gli osservatori dell’Osce sono rientrati alle proprie basi, che gli opposti contendenti iniziano a far tuonare le armi. A volte, in alcuni settori, ci si limita ai pulemyot e alle mitragliatrici pesanti. Più spesso, entrano in azione tank, mortai e cannoni. I bollettini di guerra parlano, ogni giorno, di decine di violazioni del coprifuoco. Solo nell’ultima settimana, nel territorio della repubblica di Donetsk, ci sono stati nove morti e undici feriti, ai quali bisogna aggiungere i caduti della repubblica di Lugansk e quelli dell’esercito ucraino.
 “Siamo in una situazione di stallo – raccontano i miliziani -. Sono ormai due anni che non si registrano grossi attacchi. Perciò abbiamo scavato le nostre trincee: difendiamo il nostro territorio e aspettiamo che succeda qualcosa”. La zona più martoriata è quella dell’aeroporto di Donetsk: il villaggio di Pisky, a ovest, la zona della piste di atterraggio, dove le trincee corrono a poche decine di metri di distanza, il sobborgo di Spartak e la periferia di Adeevka, dove negli scorsi mesi le fanterie hanno ingaggiato una disperata battaglia casa per casa. Le possibilità di una vera tregua, secondo i politici locali, sono praticamente nulle: “Il territorio della nostra repubblica dovrà espandersi fino a raggiungere i confini del vecchio oblast’ di Donetsk – ha dichiarato negli scorsi giorni il presidente della repubblica separatista, Alexander Zakharchenko -. Fino a che il governo ucraino manterrà l’atteggiamento che ha tenuto negli ultimi tre anni, non credo che ci potranno essere trattative”. La pace è ancora lontana, all’orizzonte di Donetsk. 

MONDO UCRAINA Il conflitto congelato


Andrea Sceresini – Gli occhi sulla guerra 
01 Ottobre 2018

La guerra in Ucraina è una guerra dimenticata. Era la primavera del 2014, quando i separatisti filorussi e l’esercito di Kiev hanno iniziato a scontrarsi lungo i confini del Donbass, in quello che un tempo è stato il più grande bacino carbonifero dell’Unione Sovietica.


In quattro anni, più di diecimila persone sono rimaste uccise dal fuoco delle artiglierie o dei cecchini. Oggi, nonostante i diversi cessate il fuoco, il conflitto continua a divampare a bassa intensità, nel silenzio quasi totale dei media europei – fatta eccezione per i canali propagandistici e i loro portavoce prezzolati. A Donetsk e Lugansk si muore ogni giorno, su entrambi i lati del fronte. I combattimenti iniziano al calar del sole, protraendosi spesso fino alle prime luci dell’alba – e a farne le spese, il più delle volte, è soprattutto la popolazione civile.
Raccontare un conflitto non è facile – specie quando il resto dei mezzi d’informazione si ostina a parlare d’altro. Il modo migliore per farlo, secondo noi, consiste nel coinvolgere in prima persona il lettore, permettendogli di immergersi a tutto tondo in quella stessa realtà che i grandi media non vogliono mostrargli.
Perciò, abbiamo deciso di affidarci a una nuova tecnologia: i video a 360°. Così, alcuni mesi fa, le telecamere de Gli Occhi della guerra sono scese nelle trincee alle porte di Donetsk, dove i miliziani filorussi combattono una guerra di trincea che sembra uscita dai libri di storia.
Siamo stati nelle miniere clandestine di carbone, le kopankas, che rappresentano l’unica fonte di reddito per migliaia di lavoratori rimasti disoccupati a causa della guerra. Quaggiù gli uomini lavorano in ginocchio, strisciando sul fondo di cunicoli pericolanti, nell’aria satura di polvere nera e gas velenosi – e il tutto per un misero salario di duecento dollari al mese. Il carbone viene poi rivenduto sul mercato interno ucraino, dall’altra parte del fronte: così, con i proventi di questo minerale insanguinato, frutto del conflitto, potranno essere acquistate nuove armi e nuove munizioni, dando vita a un diabolico circolo vizioso fatto di business e cannonate.
Infine, vogliamo mostrarvi come vive la popolazione nei villaggi a ridosso del fronte. Siamo stati a Petrovskij Rayon, alla periferia ovest di Donetsk, dove da quattro anni decine di anziani sfollati vivono rinchiusi in un vecchio bunker dell’epoca brezneviana. Il rifugio è perennemente gelido, d’estate come d’inverno, e tutte le sere viene bersagliato dal fuoco delle contrapposte artiglierie. “Questa oggi è la nostra casa – ci ha detto una delle inquiline più anziane. Al mondo, nessuno più si cura di noi”.
Facendo scorrere il mouse sullo schermo, potete spostare la vostra visuale in ogni direzione – assumendo, di volta in volta, il punto di vista del giornalista o dell’intervistato. Potete scrutare ogni angolo dello scenario circostante, proprio come se anche voi vi trovaste lì – immersi nel fango di una  kopankas o di una trincea, o tra le viscere umide di un rifugio antiaereo.
In un articolo scritto è possibile giocare con le parole; in un video o in una fotografia si può ritoccare il montaggio o correggere le inquadrature. Nelle riprese a 360° no: la realtà, qui, è tutta, impietosamente, alla portata dei vostri occhi. Questo è ciò che nessuno vi fa vedere. Questo è ciò che sta succedendo nel Donbass.

MONDO: BOSNIA HERZRGOVINA Tuzla IL LAGO CHE UCCIDE


Giovanni Masini – Gli occhi sulla guerra 
01 Ottobre 2018

“Non fronda verde, ma di color fosco; non rami schietti, ma nodosi e ‘nvolti; non pomi v’eran, ma stecchi con tosco”. Così Dante Alighieri, nel XIII canto dell’Inferno, introduce la pena dei violenti contro se stessi: i suicidi. Chi in vita peccò contro il corpo e la salute, per la legge del contrappasso, nell’Ade è destinato a una selva di alberi dove nulla sopravvive.
I versi danteschi ben descriverebbero il lago di ceneri di Tuzla, nella terza città della Bosnia. A pochi chilometri dalla più grande centrale a carbone del Paese sorge un allucinante deposito di rifiuti a cielo aperto, dove per decenni si sono accumulate le scorie derivanti dalla combustione della lignite: decine di ettari di terreno dove galleggiano acqua e ceneri, ricche di metalli pesanti letali per l’uomo e per l’ambiente.
Non vi nuotano pesci, gli arbusti seccano e gli alberi sbianchiscono. La mistura di acqua e ceneri, convogliata dalla centrale attraverso una tubatura quadrupla, viene scaricata nel terreno senza protezione per il suolo né per la falda. 


UNA CENTRALE FUORI CONTROLLO
La prima pietra del grande impianto termoelettrico fu posata nel 1959 ma in quasi sessant’anni poco o nulla è stato fatto per combattere l’inquinamento che ne fuoriesce. Le autorità protestano che si tratta di un’infrastruttura strategica: la Bosnia ha ancora un’elevata dipendenza dal carbone e la centrale di Tuzla, gestita dall’azienda pubblica Elektroprivreda, assicura energia a tutta la regione.
Il prezzo di questo servizio, però, è drammatico. Nell’aria è presente una concentrazione di polveri sottili fuori da ogni norma mentre le ceneri vengono disperse nel lago, contaminando le colture e la fauna locale. Secondo il “Centro per l’ecologia e l’energia” le acque del lago hanno un ph di 11, prossimo a quello dell’ammoniaca: “Qualsiasi forma di vita vi è impossibile – spiega il coordinatore del programma per l’energia e il cambiamento climatico, Denis Žiško – Come non bastasse nel vecchio sito di stoccaggio delle ceneri sono anche stati sotterrati 3mila metri cubi di amianto derivanti dalla demolizione di una torre di raffreddamento.“ A poca distanza dal lago, infatti, sorge un lago prosciugato da cui nei giorni ventosi si alza una polvere velenosa che ricopre i villaggi più vicini.

I METALLI PESANTI PRESENTI NELL’AMBIENTE
Nell’indifferenza quasi totale delle istituzioni, alcune associazioni ambientaliste hanno dato vita ad un’intensa campagna per sensibilizzare l’opinione pubblica, avviando, pur a fatica, i primi studi scientifici sull’inquinamento della regione.
Il professor Abdel Đozić, docente di ingegneria ambientale all’università di Tuzla, convive ogni giorno con l’ostilità di colleghi ed istituzioni proprio per la sua attività di ricerca e di denuncia. In collaborazione con il Cee ha raccolto i dati sull’incidenza di tumori e patologie cardiorespiratorie fra la popolazione. Uno studio del 2018 ha rilevato la presenza di arsenico e cadmio – connessi all’insorgere di diverse forme di tumori – nel terreno, nel particolato, nelle colture e nei pesci. Nei capelli degli abitanti della zona sono state trovate tracce di metilmercurio, un elemento estremamente tossico, oltre che di molti altri metalli pesanti.

LE CONSEGUENZE SULLA SALUTE PUBBLICA
I dati sullo stato di salute della popolazione sono se possibile ancora più eloquenti: se a Solina, località della regione dove il livello di inquinamento è particolarmente basso, solo il 7% degli abitanti è colpito da una patologia cardiovascolare, nei villaggi più vicini alla centrale questa percentuale sfiora il 70%.
A Solina nel 15% delle famiglie si conta almeno un morto di tumore: nei quattro villaggi più vicini alla centrale la percentuale è quasi tripla. Le patologie più frequenti sono il carcinoma ai polmoni e quelle cardiovascolari. 
 “La percentuale di incidenza per mortalità e malattie dovute a una lunga esposizione a metalli pesanti contenuti nelle ceneri, nella polvere e nell’aria è in media del 34% fra chi vive vicino alla centrale. Fra gli abitanti di Solina è del 2% – conclude Đozić – Le autorità della centrale non commentano il nostro studio, dicono che io e gli attivisti lavoriamo per gli stranieri. Ma è una menzogna”.



LA RABBIA DEI RESIDENTI
Nel villaggio di Bukinje gli annunci funebri riportano molti nomi di persone non ancora giunte ai sessant’anni. A Divkovici, che si va spopolando, la maggior parte dei bambini soffre di disturbi respiratori. Fra loro anche i figli di Goran Stojak, rappresentante della comunità locale. “Quest’acqua è veleno puro – dice camminando sulle sponde del lago, dove la cenere si è ormai solidificata – Ho provato a chiedere all’ispettorato che dovrebbe proteggere i cittadini ma non fanno niente e non vogliono fare niente. Ci ridicolizzano, ci prendono in giro: li sento dire che di notte vedono la luce verde (delle radiazioni, ndr) che viene dalla nostra zona.”

LE AUTORITÀ TACCIONO
Contattata da Gli Occhi della Guerra, la direzione della centrale non ha risposto; le autorità municipali di Tuzla non hanno invece nemmeno voluto ricevere i cronisti. A complicare ulteriormente la situazione è la corruzione e la cronica lottizzazione degli incarichi nella dirigenza della centrale, che rende difficile a questa o a quella forza politica denunciare la situazione. 
L’unico a rispondere alle nostre domande è stato il viceministro federale dell’ambiente, Mehmed Cero. Nel suo ufficio di Sarajevo, però, il viceministro si è trincerato dietro l’incompetenza del proprio ufficio, che pure in linea gerarchica dovrebbe essere il più potente. Candido, spiega che le leggi esistenti sono sufficienti ma che il vero problema è la loro applicazione: tuttavia aggiunge che non è compito del governo farle applicare. Infine non esita a scaricare la responsabilità dei mancati controlli sulle autorità municipali e cantonali di Tuzla, oltre che sull’ispettorato federale e sull’istituto idrometeorologico di Bosnia. Insomma, tutti colpevoli meno il governo di cui è rappresentante.
L’evasione dalle responsabilità delle autorità locali è particolarmente sconfortante se si considera che nel 2017 l’Organizzazione mondiale della sanità ha inserito Tuzla fra le tre città europee con la peggiore qualità dell’aria. Un vero e proprio suicidio, come già Dante aveva capito con profetica lungimiranza.

MONDO /BOSNIA HERZEGOVINA Zenica LA CITTÀ CHE SOFFOCA


Giovanni Masini – Gli occhi sulla guerra 
01 Ottobre 2018

La “Raca” è stata per decenni la pattumiera dell’enorme acciaieria che domina Zenica, 100mila anime a un’ora di auto da Sarajevo. Dalle colline che dominano la città si nota la selva di ciminiere che giorno e notte vomitano nell’aria fumi di ogni colore
Zenica è legata all’acciaio sin dal 1892, quando la prima fabbrica aprì i battenti, ai tempi dell’imperatore Francesco Giuseppe. Gli impianti siderurgici attraversarono più o meno indenni le turbolente vicende dei Balcani del primo Novecento e fiorirono sotto il regime comunista. A fine anni Ottanta l’acciaieria contava oltre 20mila operai e rappresentava il motore economico dell’intera regione. Nel giorno di paga dei dipendenti i prezzi dei generi alimentari al mercato subivano regolarmente un’impennata.
Quindi venne la guerra e l’acciaieria dovette sospendere la produzione. Nel 1999 lo Stato bosniaco, economicamente stremato dal conflitto, accettò di privatizzare la fabbrica, cedendola a fondi stranieri. Ora i prezzi del mercato sono alimentati dalle pensioni degli ex operai, non più dagli stipendi. I lavoratori della fabbrica sono un decimo di quelli che erano trent’anni fa. Attualmente la fabbrica appartiene ad ArcelorMittal, nuovo acquirente dell’italiana Ilva.

I miserabili dell’acciaio
La miseria ha spinto molti a procacciarsi da vivere con ogni mezzo. Fra i più disperati ci sono i “raccoglitori di ferro”: uomini che ogni giorno alle uscite dell’acciaieria attendono i camion diretti alla “Raca”, sperando di recuperare gli scarti ferrosi da pulire e rivedere alla stessa fabbrica. È un lavoro sporco e pericoloso, compiuto senza alcuna protezione. Un lavoro che per giunta è pagato una miseria: un grosso blocco di scorie ferrose frutta dai 15 ai 20 centesimi, che qui non bastano a comprare un panino.
Negli ultimi anni, tuttavia, l’acciaieria ha iniziato a ripulire le scorie ferrose all’interno della fabbrica e i disperati che vivevano della raccolta del metallo hanno perso anche quell’ultima, estrema, fonte di sostentamento. I più poveri muoiono letteralmente di fame.
Livnjak Sedin vive con la moglie invalida e i tre figli a Tetovo, un sobborgo di poche case stretto fra l’acciaieria e la Raca. La sua abitazione diroccata sorge proprio all’ombra della recinzione del colosso siderurgico. Fino a qualche tempo fa raccoglieva le scorie ferrose ma ora non trova più di che sfamare la propria famiglia. Lo Stato gli passa 22,5 euro al mese per tutti e tre i figli, ma non bastano. Riesce a racimolare qualche spicciolo vendendo al mercato le cipolle del proprio orto ma non è abbastanza per sfamare cinque bocche. Infagottato in una maglietta troppo grande, racconta. “Non ho lavoro, sono inserito nelle liste di collocamento. A volte faccio dei lavoretti a chiamata ma ho bisogno di 180 euro per poter operare mio figlio al braccio: è caduto a scuola e si è fatto male.” La mutua copre solo la metà delle spese mediche e per il resto bisogna arrangiarsi.
I ragazzi avrebbero bisogno di proteine e così Livnjak dà loro le uova delle galline del proprio pollaio, nonostante sappia benissimo che sono tossiche. Un’ordinanza delle autorità locali ha vietato ai cittadini di Tetovo di consumare uova e verdure a foglia larga: l’aria e il terreno sono troppo inquinati.


Inquinamento tre volte oltre la soglia d’allarme
Un’inchiesta giornalistica del The Guardian accusa l’acciaieria di produrre emissioni inquinanti oltre i limiti. La direzione della fabbrica ha risposto rigettando tutte le accuse e sottolineando gli investimenti fatti nei programmi di protezione dell’ambiente, superiori a 45 milioni di euro: attualmente è in corso un procedimento giudiziario, ancora aperto.
Il quotidiano britannico punta il dito fra l’altro sul fatto che in un anno l’acciaieria ha utilizzato ben 16 volte la quantità di carbone consumato dalle case private, postulando un nesso con l’inquinamento dell’aria e le sue conseguenze per ambiente e residenti, ma l’azienda ha puntualizzato che ben un terzo del carbone consumato è destinato agli impianti di riscaldamento domestici della città, che insieme al traffico veicolare sono responsabili della cattiva qualità dell’aria.
Samir Lemes, presidente dell’associazione ambientalista “EkoForum”, chiede un intervento più restrittivo della politica per contenere le emissioni ma lamenta la scarsa efficienza dei controlli ambientali: “Abbiamo organizzato degli incontri per raccogliere tutti i soggetti interessati ma a ogni riunione c’era un assente: o il rappresentante del governo federale, o di quello cantonale… E ogni volta la colpa era da attribuire agli assenti”, spiega parlando con Gli Occhi della Guerra.
Ad aggravare la situazione c’è la mancanza di controlli adeguati. Nel 2013, dopo imponenti proteste dei cittadini, il Comune fece installare dei rilevatori della qualità dell’aria ma nel giro di pochi anni la mancata manutenzione li ha già messi tutti fuori uso. In una delle poche misurazioni effettuate, nel dicembre 2013, vennero rilevati 1392 μm di anidride solforosa per ogni metro cubo d’aria.” In Italia la soglia considerata sufficiente a fare scattare un allarme è di 500 μm/metro cubo.

La mancanza di dati
Alla penuria di dati ufficiali sull’inquinamento dell’aria fa peraltro da contraltare una totale mancanza di numeri esaustivi per quello che riguarda lo stato di salute della popolazione.
“Non ci sono dati ufficiali sul tasso di malattie, li tengono nascosti – prosegue Lemes – Sappiamo solo che l’inquinamento aumenta in parallelo alla produzione. La politica di tutti i partiti, senza eccezioni, è quella di non parlare dell’inquinamento: nascondere i numeri, perché l’industria alimenta l’occupazione. Non potremmo avere altre industrie, quindi si tengono queste”.
Il quadro è così complicato dalla mancanza di dati precisi e completi sull’inquinamento e sullo stato di salute della popolazione nella regione. Quello che è certo, invece, è che l’unica speranza, per Zenica e per i suoi abitanti, è affidata alla collaborazione dei gruppi ambientalisti con alcune ambasciate straniere (fra le tante, quella svizzera e quella svedese) per promuovere programmi di sensibilizzazione della popolazione. Ma la strada per liberare Zenica dalla dipendenza dalle industrie è ancora lunga.

MONDO/ BOSNIA HERZEGOVINA Il Paese più inquinato d’Europa


Giovanni Masini – Gli occhi sulla guerra 
01 Ottobre 2018

(Sarajevo) Dieci decessi al giorno: a tanto ammonta, secondo i dati dell’Organizzazione mondiale della sanità, il conto dei morti in Bosnia ed Erzegovina. Paese-simbolo della tormentata storia dei Balcani, la Bosnia è in pace da oltre venti anni ma deve comunque districarsi fra numerose difficoltà: al primo posto c’è senza dubbio l’inquinamento.
Aria, acque e suolo sono gravemente contaminate per una serie di fattori. Tradizionalmente il regime comunista non ha mai prestato particolare cura alla protezione dell’ambiente; la devastazione portata dalle guerre ha impedito l’ammodernamento di industrie ed impianti privati, sia per quanto riguarda il riscaldamento che per il traffico veicolare che per lo smaltimento dei rifiuti. Molte industrie scelgono di delocalizzare qui la produzione non solo per il costo del lavoro ma anche per la legislazione ambientale assai meno severa che nella vicina Unione europea. 
L’approvvigionamento energetico è ancora strettamente legato alla dipendenza dal carbone: nonostante il Paese sia ricco di risorse naturali, le Nazioni Unite calcolano che la Bosnia usi il 20% del proprio pil in energia. Una percentuale tripla rispetto a quella di Usa e Ue.
Al primo posto nella classifica degli elementi più inquinati c’è sicuramente l’aria. L’Oms ha calcolato che ogni anno Sarajevo perda addirittura il 21,5% del proprio Pil a causa dell’inquinamento dell’atmosfera, fra decessi, malattie croniche e giornate di lavoro e di studio perse. Il Paese è al quinto posto nella classifica globale degli Stati con la maggior mortalità dovuta alla qualità dell’aria.

L’aria inquinata di Sarajevo
A Sarajevo nei mesi invernali i livelli di polveri sottili sono costantemente al di sopra della media. Il limite per le emissioni di pm10 nella capitale è stato fissato a 450 microgrammi per metro cubo ma nel gennaio 2016 ne vennero rilevati anche 750. A Milano la soglia è di 50 microgrammi. Ad aggravare la situazione c’è il fatto che in città circolano decine di migliaia di auto private diesel che risalgono in molti casi al secolo scorso. Nell’inverno di tre anni fa la scuola di scienze ambientali della capitale venne chiusa anticipatamente perché era impossibile respirare per lo smog. Un po’ dappertutto nel Paese, poi, fra i più poveri è diffusa la pratica di riscaldare le case con carbone o bruciando combustibili di fortuna e in qualche caso addirittura i rifiuti.
Se però le autorità fanno poco o niente contro queste cattive pratiche, quando ad inquinare sono gli impianti industriali la reazione dei poteri pubblici è ancora più debole.
Una struttura istituzionale complessa e iper-burocratizzata consente ad ogni livello amministrativo di addossare la colpa ad altri enti, in un circolo vizioso che non consente di individuare i responsabili. Gli Occhi della Guerra ha potuto verificarlo in un approfondimento dedicato alla centrale termoelettrica a carbone di Tuzla.

La fabbrica di giocattoli tra rifiuti cancerogeni 
Ma l’inquinamento non è solo un problema di emissioni e di qualità dell’aria. Anche il suolo è spesso contaminato, a causa della pessima gestione dei rifiuti industriali e civili.
Nella prima metà del 2018 ha fatto scalpore l’inchiesta del “Center for Investigative reporting” su un sito di stoccaggio abusivo di rifiuti tossici a Tuzla. A poche centinaia di metri dalla centrale esiste un’area industriale dismessa dove un tempo sorgeva una fabbrica di isolanti. La produzione è ferma da anni ma i rifiuti e le scorie tossiche sono ancora lì: barili pieni di terra e mercurio, contenitori metallici e tubi zeppi di ossido di propilene, toluene diisocianato – un elemento altamente cancerogeno – seppelliti nel terreno. Analisi condotte in laboratori specializzate hanno dimostrato come nel suolo siano presenti nichel, cadmio e arsenico in misura superiore ad ogni soglia di guardia.
Gli Occhi della Guerra ha tentato di visitare l’aria industriale ma la proprietà non ha concesso i permessi necessari. Una delle guardie all’ingresso, però, ha rivelato che sul sito dovrebbe presto aprire una fabbrica di giocattoli. 
Quel che è pego è che il governo federale non è in possesso di dati affidabili e completi sulla mole di rifiuti tossici presenti sul sito: una mancanza di informazioni che purtroppo sembra cronica e che affligge diverse località della Bosnia, soprattutto nelle città più inquinate.