Bisogna ricominciare a tracciare il confine tra uomini e no, perché è lì che si smette di decidere cosa vogliamo fare e si ritorna a scegliere chi vogliamo essere
Quando ho visto la copertina
dell’Espresso della settimana scorsa, con i due volti sinottici di Matteo
Salvini, il ministro della Repubblica, e di Aboubakar Soumahoro, il
sindacalista dei braccianti schiavizzati nelle campagne, ho pensato: ecco cosa
vuol dire schierarsi. È questo che significa l’espressione “Uomini e no”, un
titolo che - oltre a riprendere testualmente quello del romanzo di Vittorini
del ’45 - vuole affermare che esiste una differenza precisa tra ciò che rientra
nella categoria dell’umano e ciò che invece è disumano; occorre stare molto
attenti a non dimenticarla quella differenza, perché ci sono condizioni
accettando le quali restare umani potrebbe non essere più possibile.
La rete dei sostenitori della linea
Salvini davanti a quello schierarsi ha alzato grida belluine: «Avete perso,
accettatelo: adesso le cose sono cambiate!». Ma schierarsi non è rifiutarsi di
perdere: è pretendere che il gioco si faccia alle condizioni in cui partecipare
sarà ancora possibile per tutti. Significa tirare una linea netta tra come è
legittimo agire e come non lo è e dire in modo inequivocabile che oltre quel
confine non si può e non si deve andare, perché dall’altra parte c’è qualcosa
che cambia del tutto le regole dello stare insieme. Non è quindi il conflitto
quel che pone il problema, anzi: la differenza di opinioni e il loro continuo
confronto sono il Dna dei sistemi democratici. Il cittadino che si sente
rappresentato dalle scelte del ministro dell’Interno si fa forte degli indici
di gradimento e dichiara dai sondaggi: «La maggioranza sull’immigrazione sta
con Salvini, è la democrazia».
In Italia però in questo preciso
momento storico non è questione di avere opinioni diverse su questo o quel
tema. In gioco non c’è più solo il contarsi, perché la democrazia non è il
sistema di governo in cui ci si conta e basta: è quello in cui ci si dichiara
d’accordo su un sistema di regole e valori e solo dopo - dentro a quel sistema
- ci si conta. Non condividere quelle regole e quei valori e pretendere di
essere contati ugualmente è come aspettarsi di giocare a tennis con le regole
del calcio.
Il punto non è dunque vincere e
perdere, è capire a cosa stiamo giocando. Schierarsi significa affermare che nel
gioco del tennis c’è una differenza enorme tra chi mi viene incontro per
sfidarmi con la racchetta e chi mi cambia le dimensioni del campo e trasforma
la rete in porta. Decidere da che parte stare non significa più tifare questo o
quel campione in campo: significa pretendere che la differenza tra i due giochi
torni ad essere visibile a tutti quelli che guardano la partita.
Il primo passaggio per farlo è smettere
di confondere il merito - cioè cosa è necessario fare - con il metodo, cioè
come è legittimo farlo. Il cosa, l’entrare nel merito, è la materia politica
per eccellenza. Chi se ne interessa pone domande concrete e sono le domande di
tutti. Cosa fare per gestire i naturali fenomeni migratori che per le più varie
ragioni portano migliaia di persone sulle nostre coste? Che politiche mettere
in atto perché chi non ha una casa possa arrivare ad averla? Che azioni
istituzionali sono necessarie perché le persone che perdono il lavoro abbiano
le coperture necessarie a non finire per strada finché non ne trovano un altro?
Queste non sono domande di destra o di sinistra: le risposte sono interesse
comune e sceglierle non è schierarsi, ma esprimere la propria legittima
differenza di visione, consapevoli che in una dialettica democratica tra
maggioranza e minoranza le visioni possono anche alternarsi nel dare le
risposte di governo. Ma Matteo Salvini e il governo che lo sostiene non stanno
agendo solo sul cosa rispondere: stanno modificando radicalmente anche le
regole del come.
È lì che bisogna ricominciare a tracciare
il confine tra uomini e no, perché è lì che si smette di decidere cosa vogliamo
fare e si ritorna a scegliere chi vogliamo essere. Oltre quel confine non c’è
solo il contrario di quello che pensiamo: c’è il contrario di quello che siamo.
Quella linea di demarcazione è andata persa il giorno in cui non è stato più
possibile distinguere le differenze tra quello che sta facendo Matteo Salvini
oggi e quello che appena un anno fa minacciava di fare Marco Minniti: chiudere
i porti e criminalizzare i poveri in arrivo e chi li aiuta, pensando che questo
sia il modo per far cessare le migrazioni. Quelli che affermano che non ci sono
più la destra e la sinistra non vanno dunque liquidati troppo sbrigativamente
come qualunquisti: lo sono di certo, ma in modo implicito stanno dicendo anche
che la natura degli attori in campo per risolvere i problemi smette di essere
importante nel momento esatto in cui il metodo usato per farlo diventa lo
stesso per tutti loro.
Ecco perché schierarsi, tracciare un
confine, è tornato ad essere un atto politico essenziale. Farlo è molto meno
difficile di come sembra, se sono ancora chiari e condivisi i principi
costituzionali, e fare qualche esempio pratico può essere utile. Che si sia di
destra o di sinistra, siamo tutti d’accordo che discutere per stabilire quante
persone devono entrare e a quali condizioni sia un cosa che ci riguarda tutti,
a prescindere dalle differenze nelle soluzioni proposte.
Lasciare 700 persone in alto mare in
situazione estrema per ricattare l’Europa appartiene invece alla categoria del
come e implica una messa in discussione del metodo stesso del nostro stare
insieme.
Nessuno che si riconosca nei principi
della Costituzione e nella dichiarazione dei diritti umani può essere d’accordo
con l’uso di un’emergenza umanitaria come grimaldello per risolvere
un’emergenza politica.
Difendere una scelta simile non è
essere di destra o di sinistra: è essere disumani, perché significa
disconoscere la dignità delle vite in gioco. Pensare di far valere argomenti
come “la maggioranza” per difendere una decisione del genere significa aver
accettato la disumanità come strumento di azione politica. Le reazioni sui
social e alcuni fatti di cronaca - sempre più numerosi e preoccupanti - ci
dicono che è esattamente questo che è successo in questo paese negli ultimi
anni ed è la vera sconfitta politica per tutti, qualunque sia lo schieramento
di appartenenza. Oggi non è più così chiaro che un conto è ragionare
sull’integrazione delle minoranze etniche - processo legittimo che riguarda il
cosa - e un altro conto è schedare le persone su base etnica, un inaccettabile
come che rovescia le regole che ci proteggono tutti.
Non è più così chiaro che tutti,
considerati per differenza, siamo la minoranza di qualcun altro. Il fatto che scelte
come queste (o anche il solo ventilarle come possibili in un sistema che invece
le nega per principio) possano essere affermate all’interno di un sistema
democratico non è la democrazia: è il banco di prova della sua tenuta. Chi lo
sta facendo sta lasciando passare l’idea che per affrontare il merito delle
cose qualunque metodo sia diventato lecito.
Schierarsi davanti a questo è dunque
indispensabile tanto quando opporre un dissenso senza tentennamenti, perché su
quell’idea non si gioca più la differenza tra la destra e la sinistra, ma
quella tra la democrazia e il fascismo.
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