Andrea Colombo– Il MANIFESTO
03 Ottobre 2018
Non è un caso se il presidente della commissione
Bilancio della Camera Claudio Borghi, esponente dell’ala più antieuropea della
Lega, in mattinata si confessa certo che «l’Italia con una sua moneta, sarebbe
in grado di risolvere i suoi problemi anche se non tutti». E tanto meno se poco
dopo il presidente del consiglio si sente in obbligo di correggere e
rassicurare: «L’euro è la nostra moneta ed è irrinunciabile». La preoccupazione
che attanaglia in questo momento i massimi rappresentanti delle istituzioni italiane
ed europee, dal Quirinale all’Eurotower, è proprio questa: l’uscita dell’Italia
dalla moneta unica. Forse si tratta di paure esagerate e catastrofiste, certo è
che per una volta parlare di «tempesta perfetta» non è solo una frase fatta.
Gli elementi infatti ci sono tutti.
PRIMA DI TUTTO C’È l’impossibilità per la
Commissione europea di arretrare dalla posizione di rigida fermezza adottata
lunedì in Lussemburgo. A impedirlo non è la forza ma l’estrema fragilità di
un’Unione che teme di vedere tutto crollare come un castello di carte ove
permettesse all’Italia di sfidare le regole impunemente. Ed è una posizione
sulla quale si ritrovano non solo la Commissione ma di fatto l’intera Ecofin,
l’assemblea dei ministri delle Finanze, inclusi i Paesi «sovranisti» che sulla
carta sono più vicini al governo giallo-verde. Ieri è stato infatti proprio il
ministro austriaco Hartwig Loeger, presidente di turno dell’Ecofin, a chiudere
ogni spiraglio al governo di Roma: «Siamo una famiglia e abbiamo regole comuni.
Mi aspetto che ora Tria sia pronto a rafforzare la discussione a livello
italiano». Traduzione: Ecofin, come la Commissione, si aspetta che il ministro
dell’economia Giovanni Tria convinca i partner della maggioranza gialloverde ad
abbassare quell’asticella del deficit al 2,4% che si è ormai caricata di una
deflagrante valenza politica.
MA PROPRIO QUESTO è il secondo elemento che
compone la tempesta in arrivo: l’indisponibilità del governo italiano ad
arretrare. Ieri sera il premier Giuseppe Conte, Tria, il ministro degli esteri
Enzo Moavero e i due vicepremier si sono riuniti in un vertice per definire un
Def che è ancora del tutto ballerino. Impresa difficile, tanto che il vertice
sugli investimenti che doveva iniziare subito dopo è stato rinviato. Ma non sembrano
esserci gli estremi per un ripensamento. «Il governo è compatto e non
arretriamo», va giù duro Luigi Di Maio, che rincara di brutta prendendo di mira
il ragioniere generale dello Stato Daniele Franco: «Deve preparare la nota di
aggiornamento su impulso dei politici». Deve scrivere sotto dettatura. Parole
che certo non distendono i nervi a via XX settembre. Salvini, dal canto suo,
minaccia di chiedere i danni per l’impennata dello spread dovuta alle
dichiarazioni di Moscovici di lunedì e se ne esce con una battuta micidiale
riferita al presidente della Commissione Juncker e al suo paragone tra Italia e
Grecia: «Parlo solo con persone sobrie che non fanno paragoni assurdi».
A rincarare ci pensa Alessandro Di Battista,
tacciando i funzionari di Bruxelles di essere «schiavi dell’alcol e di Goldman
Sachs». Non è il massimo della diplomazia.
IL TERZO ELEMENTO è lo spread. Ieri ha infranto la
barriera dei 300 punti, poi è sceso ma solo per decollare di nuovo e chiudere a
304. Potrà continuare a oscillare ma, in presenza di uno scontro così duro tra
Roma e Bruxelles, è inevitabile che viaggi nelle zone alte e attenda lì,
condizionandolo, il verdetto della quattro agenzie di rating atteso per fine
mese. Se fosse un downgrade unanime l’Italia si troverebbe a un solo gradino
dai «titoli junk», cioè dal bivio tra commissariamento e uscita dall’euro. Ma,
in una situazione così tesa, il rischio di un secondo downgrade a poche
settimane di distanza dall’eventuale primo colpo è concreto.
PER EVITARE LA TEMPESTA il Quirinale ha due
possibilità. La prima è riuscire a convincere i governanti ad abbassare
sensibilmente il deficit. Sarebbe un passo risolutivo ma anche una sconfitta
esiziale per il governo. Il secondo, meno improbabile, è convincere i due
leader di maggioranza a spostare risorse dal reddito e dall’intervento sulla
Fornero agli «investimenti produttivi». Per questo è necessario reperire
coperture in modo da non finanziare le due riforme a debito.
E’ tornata in campo l’idea di «tassare» chi
dovesse andare in pensione prima dei 67 anni decurtando la pensione dell’1,5%
per ogni anno conquistato e soprattutto l’ipotesi di intervenire pesantemente
sulle detrazioni fiscali. Della manovra hanno parlato ieri pomeriggio il
presidente del Parlamento europeo Tajani e il ministro Savona, che però, a fine
incontro, non si sbottona: «Cambierà la manovra? Troppo presto».