martedì 2 ottobre 2018

ITALIA & ECONOMIA Ue e Italia sempre più lontante. Aleggia il fantasma «Italexit»


Andrea Colombo– Il MANIFESTO
03 Ottobre 2018

Non è un caso se il presidente della commissione Bilancio della Camera Claudio Borghi, esponente dell’ala più antieuropea della Lega, in mattinata si confessa certo che «l’Italia con una sua moneta, sarebbe in grado di risolvere i suoi problemi anche se non tutti». E tanto meno se poco dopo il presidente del consiglio si sente in obbligo di correggere e rassicurare: «L’euro è la nostra moneta ed è irrinunciabile». La preoccupazione che attanaglia in questo momento i massimi rappresentanti delle istituzioni italiane ed europee, dal Quirinale all’Eurotower, è proprio questa: l’uscita dell’Italia dalla moneta unica. Forse si tratta di paure esagerate e catastrofiste, certo è che per una volta parlare di «tempesta perfetta» non è solo una frase fatta. Gli elementi infatti ci sono tutti.

PRIMA DI TUTTO C’È l’impossibilità per la Commissione europea di arretrare dalla posizione di rigida fermezza adottata lunedì in Lussemburgo. A impedirlo non è la forza ma l’estrema fragilità di un’Unione che teme di vedere tutto crollare come un castello di carte ove permettesse all’Italia di sfidare le regole impunemente. Ed è una posizione sulla quale si ritrovano non solo la Commissione ma di fatto l’intera Ecofin, l’assemblea dei ministri delle Finanze, inclusi i Paesi «sovranisti» che sulla carta sono più vicini al governo giallo-verde. Ieri è stato infatti proprio il ministro austriaco Hartwig Loeger, presidente di turno dell’Ecofin, a chiudere ogni spiraglio al governo di Roma: «Siamo una famiglia e abbiamo regole comuni. Mi aspetto che ora Tria sia pronto a rafforzare la discussione a livello italiano». Traduzione: Ecofin, come la Commissione, si aspetta che il ministro dell’economia Giovanni Tria convinca i partner della maggioranza gialloverde ad abbassare quell’asticella del deficit al 2,4% che si è ormai caricata di una deflagrante valenza politica.

MA PROPRIO QUESTO è il secondo elemento che compone la tempesta in arrivo: l’indisponibilità del governo italiano ad arretrare. Ieri sera il premier Giuseppe Conte, Tria, il ministro degli esteri Enzo Moavero e i due vicepremier si sono riuniti in un vertice per definire un Def che è ancora del tutto ballerino. Impresa difficile, tanto che il vertice sugli investimenti che doveva iniziare subito dopo è stato rinviato. Ma non sembrano esserci gli estremi per un ripensamento. «Il governo è compatto e non arretriamo», va giù duro Luigi Di Maio, che rincara di brutta prendendo di mira il ragioniere generale dello Stato Daniele Franco: «Deve preparare la nota di aggiornamento su impulso dei politici». Deve scrivere sotto dettatura. Parole che certo non distendono i nervi a via XX settembre. Salvini, dal canto suo, minaccia di chiedere i danni per l’impennata dello spread dovuta alle dichiarazioni di Moscovici di lunedì e se ne esce con una battuta micidiale riferita al presidente della Commissione Juncker e al suo paragone tra Italia e Grecia: «Parlo solo con persone sobrie che non fanno paragoni assurdi».
A rincarare ci pensa Alessandro Di Battista, tacciando i funzionari di Bruxelles di essere «schiavi dell’alcol e di Goldman Sachs». Non è il massimo della diplomazia.

IL TERZO ELEMENTO è lo spread. Ieri ha infranto la barriera dei 300 punti, poi è sceso ma solo per decollare di nuovo e chiudere a 304. Potrà continuare a oscillare ma, in presenza di uno scontro così duro tra Roma e Bruxelles, è inevitabile che viaggi nelle zone alte e attenda lì, condizionandolo, il verdetto della quattro agenzie di rating atteso per fine mese. Se fosse un downgrade unanime l’Italia si troverebbe a un solo gradino dai «titoli junk», cioè dal bivio tra commissariamento e uscita dall’euro. Ma, in una situazione così tesa, il rischio di un secondo downgrade a poche settimane di distanza dall’eventuale primo colpo è concreto.

PER EVITARE LA TEMPESTA il Quirinale ha due possibilità. La prima è riuscire a convincere i governanti ad abbassare sensibilmente il deficit. Sarebbe un passo risolutivo ma anche una sconfitta esiziale per il governo. Il secondo, meno improbabile, è convincere i due leader di maggioranza a spostare risorse dal reddito e dall’intervento sulla Fornero agli «investimenti produttivi». Per questo è necessario reperire coperture in modo da non finanziare le due riforme a debito.
E’ tornata in campo l’idea di «tassare» chi dovesse andare in pensione prima dei 67 anni decurtando la pensione dell’1,5% per ogni anno conquistato e soprattutto l’ipotesi di intervenire pesantemente sulle detrazioni fiscali. Della manovra hanno parlato ieri pomeriggio il presidente del Parlamento europeo Tajani e il ministro Savona, che però, a fine incontro, non si sbottona: «Cambierà la manovra? Troppo presto».

1 commento:

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