lunedì 1 ottobre 2018

ITALIA & CIG ECONOMY Creare la libertà


Roul Martimez– Rassegna sindacale
02 Ottobre 2018


Non siamo noi a crearci. Siamo il prodotto di diverse forze biologiche, ambientali, economiche e politiche che vanno al di là del nostro controllo. Certamente possiamo scegliere di cambiare, ma il modo in cui lo facciamo è già il risultato di quello che siamo. Se tutti i giorni facciamo innumerevoli scelte, questo non ci conferisce responsabilità. Non è una giustificazione del fatalismo: occorre sempre individuare i nostri limiti per darci la possibilità di oltrepassarli. Ma il mito della responsabilità individuale ha portato a politiche crudeli, all’accettazione della disuguaglianza e della povertà vissute come un fallimento personale dovuto a pigrizia o stupidità. Lo stesso linguaggio viene usato per spiegare perché alcuni Paesi sono più ricchi e altri più poveri: questo è il cuore del progetto della destra, usato per difendere lo status quo. 
Da una parte abbiamo dunque il mercato, che non è il regno della libertà di scelta: si è costretti dalle circostanze ad accettare questo sistema, e di conseguenza a svolgere lavori pericolosi o pagati poco. Dall’altra parte abbiamo lo Stato che è sempre interventista. La questione reale è per proteggere quali interessi esso interviene. Una democrazia che funziona bene è un ostacolo per il profitto, perché protegge i lavoratori e tassa i profitti per offrire servizi pubblici. Mentre l’obiettivo del mercato è mantenere il potere, influenzando l’opinione pubblica. Il principio “una persona, un voto” è superato dal principio “un dollaro, un voto”. Ciò è evidente nel sistema dei media, controllati da una manciata di miliardari di destra e dunque in grado di esercitare una forma di corruzione sui nostri schermi. Ed ecco che l’utopia neoliberista diventa una distrazione pericolosa dalle dinamiche del mondo reale tra il potere e il controllo. Quello che abbiamo visto negli ultimi anni, però, più che neoliberismo è socialismo per i ricchi e capitalismo per i poveri: il rischio viene condiviso, ma il profitto è privatizzato. Basti illustrare i risultati di quattro decenni di queste politiche: aumento delle disugualianze, crisi economica, degradazione ambientale, democrazie più fragili. Oggi l’un per cento dell’umanità possiede la stessa ricchezza del restante 99 per cento e le condizioni ecologiche si stanno smantellando molto velocemente; uno studio del Fondo monetario internazionale ha dimostrato che il costo esternalizzato dell’industria del combustibile fossile è di 10 milioni di dollari al minuto. Si lascia che altri paghino il conto. Oggi alcune narrative distopiche affermano che le nostre creazioni tecnologiche finiranno per sopraffarci; ma la vera minaccia non risiede nei robot o nell’intelligenza artificiale, è nel sistema economico che noi stessi abbiamo creato, nella politica dell’odio e nella xenofobia nate dal fallimento dell’establishment di rispondere alle crisi. Se dunque il terreno centrale delle opinioni politiche è nient’altro che un costrutto sociale nel quale si riflettono le relazioni di potere prevalenti, per cambiare il corso delle cose bisogna mettere in discussione le idee che stanno alla base delle nostre identità e culture, esercitare solidarietà oltre i confini nazionali, abbracciare e proteggere la diversità degli esseri umani. In poche parole, dobbiamo sostenere politiche radicali, sostenibili e democratiche. 
I sindacati sono spesso stati una parte vitale di questa lotta. In Gran Bretagna, Corbyn ha iniziato a parlare con passione di porre fine all’austerità, abolire le rette universitarie, rinazionalizzare il sistema sanitario e le ferrovie; tramite i social media manda un messaggio politico che ispira un rinnovato movimento di giovani, le persone scendono in strada quando è necessario e hanno il forte sostegno delle organizzazioni dei lavoratori. Il messaggio è chiaro: per vincere dobbiamo essere radicali, coraggiosi, idealisti. Dobbiamo pretendere quello che ieri non osavamo nemmeno sperare. 
I sindacati in Europa si sono focalizzati su obiettivi immediati, come retribuzioni più alte, migliori condizioni di lavoro e pensioni decenti. Questo approccio ha portato a importanti vittorie, ma la storia ci insegna che quando non si riesce a ingaggiare una contesa più ampia per un futuro più democratico, sostenibile ed equo, l’equilibrio del potere si allontana, fino a che anche le battaglie per i salari e per le condizioni di lavoro diventano inaccessibili. Con sindacati coraggiosi e movimenti popolari possiamo riscrivere le regole del gioco

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