venerdì 31 agosto 2018

LAVORO MINORILE IN ITALIA - DATI E NUMERI PER UNA PRIMA ANALISI QUANTITATIVA


Lavoro minorile: le testimonianze

La storia di S. 18 anni
Ho fatto diversi lavori e ho iniziato da piccolo. La mia prima esperienza è stata a 15 anni. Ho lavorato come aiuto pizzaiolo. L’ho fatto per imparare il mestiere e per avere dei soldi miei, non volevo chiederli ai miei genitori. Ho lavorato per circa un anno. Ci andavo tutti i giorni, tranne il lunedì. Iniziavo verso le 15.00 e finivo verso mezzanotte. Mi davano circa 10 euro al giorno. All’inizio mi sono trovato bene con il mio capo, ma poi i rapporti sono diventati più duri, vedevo che si sedeva tranquillamente mentre io lavoravo.. dovevo fare tutto io e se mi sedevo 10 minuti dava fastidio. Alla fine me ne sono andato, ho litigato, mi sentivo usato, ho chiesto anche l’aumento ma mi hanno detto di no. Lo capivo che ero sfruttato. In estate quando lavoravo, davanti al forno c’erano 40 gradi! Mi ricordo che prendevo l’acqua ghiacciata dal freezer e me la buttavo addosso, dopo 2 secondi ero asciutto. Però mi è servita come esperienza, perché ho capito cosa vuol dire guadagnarsi dei soldi, che faticando i soldi che guadagni non è la stessa cosa di quando te li danno. Quando spendi, quando esci, ti rendi conto di quanto valgano. Dopo, tra i 15 e i 16 anni, ho iniziato a lavorare con un parente, come parrucchiere. Mi dava qualcosa anche se non facevo molto. Andavo ogni giorno, ma solo il pomeriggio, così avevo il tempo di andare a scuola la mattina. Verso i 17 anni ho iniziato a lavorare con mio padre nel commercio. Mi piaceva moltissimo, ho viaggiato e visto altri Paesi. Mi pagavano bene e mensilmente. Poi ho smesso perché mi hanno arrestato con l’imputazione di rapina. Mi hanno dato una pena molto severa, non me l’aspettavo, c’è stato un equivoco.. La prima volta che ho lasciato la scuola avevo 15 anni. Ho fatto male, è stato un errore. Forse se avessi continuato magari non avrei fatto casini…non so. Allora mio padre mi ha detto “o te ne vai a scuola o lavori”. E così mi sono messo a cercare lavoro e ho iniziato a fare il pizzaiolo. Quando è andata male come pizzaiolo, ho ripreso la scuola, ho fatto altri due anni, ma poi l’ho lasciata di nuovo.. La scuola comunque mi piaceva, se potessi ci riandrei. La scuola, non te ne rendi conto fino a quando ci vai, è molto importante. Impari anche sulla vita, come comportarti con le persone. L’ho lasciata perché pensavo che non mi serviva, ma non è così invece… Quando finirà la misura penale voglio lavorare e continuare nel settore del commercio. Questo lavoro è stato importantissimo per la mia vita. Se fai una cosa che ti piace e ti fa sentire bene, il lavoro ti apre la mente, ti migliora come persona e ti cambia la vita! (…). Altrimenti non lo fai bene e magari a qualcuno può capitare di fare casini, perché si trova male o non guadagna abbastanza, anche se nel mio caso è stato diverso... 
I. oggi ha 18 anni
Sono nato in Italia, ho iniziato a lavorare con mio padre quando avevo quasi 14 anni. Mio padre lavorava nel campo dell’edilizia e io lo aiutavo come muratore. Più o meno, lavoravo tutto il giorno. Non mi piaceva molto, un lavoro così è pesante, faticoso e fai pure pochi soldi, non si guadagna tanto. La scuola non mi piaceva, mi annoiavo e non ci andavo. A quel punto i miei genitori mi hanno detto di andare a lavorare.. Quando inizi a lavorare così piccolo ti rendi conto che per fare i soldi ti fai il “mazzo” e quindi cerchi modi per fare tanti soldi in poco tempo (…), cerchi un modo per fare più soldi. Così cominci a fare casini, vai a rubare e a spacciare. Ti dici “faccio quest’altro, è più facile, è guadagno di più!”. Se non ci sono lavori migliori qualche cosa bisogna inventarsela. Mi servivano soldi, non volevo chiederli. I soldi servono anche per gli “sfizi”, per uscire con le ragazze, per comprami le scarpe e le sigarette. Nessuno vuole le scarpe del mercato. E quindi ho cominciato a fare casini (…). Ma neanche spacciare è facile. Anche questo è un lavoro. Si fanno i debiti, ti danno la roba in anticipo, poi se ci rientri bene, altrimenti lavori gratis o ci vai sotto! Poi però mi hanno arrestato. Adesso sono in messa alla prova. Quando esco spero di trovare un lavoro, uno serio, di essere impegnato in qualche cosa, altrimenti se non trovo niente e non ho soldi, finisce che rientro

Indagine a cura di save the children (2014)

I minori intervistati
I giovani coinvolti nell’indagine quantitativa sono minori che per diverse ragioni sono stati intercettati dal circuito della giustizia minorile. Si tratta di ragazzi e ragazze dai 14 anni di età fino ad essere poco più che maggiorenni. La rilevazione ha comunque riguardato le loro esperienze di lavoro da prima degli 11 anni ai 16. Sono per lo più ragazzi di genere maschile (92%), che effettivamente compongono la quasi totalità dell’universo dei minori del circuito penale. Il 32% (232 minori) degli intervistati è di origine straniera.

Le esperienze di lavoro precoce
Si attesta al 66%la quota dei minori del circuito della giustizia minorile coinvolti nell’indagine che ha svolto attività lavorative precoci. Nel 73% dei casi si tratta di giovani italiani; mentre il restante 27% è rappresentato per lo più da ragazzi di origine straniera, nati in Italia o arrivati in diverse fasce di età.
I minori di origine straniera che hanno avuto esperienze di lavoro precoce in Italia provengono soprattutto dall’Europa (paesi UE e non) e dall’Africa. In particolare, nel primo caso si tratta di minori di origine rumena e albanese; mentre nel secondo caso sono maggiormente presenti i minori che provengono da: Egitto, Marocco e Tunisia.
Dalle interviste è emerso con chiarezza che la maggior parte degli intervistati (più del 60%) ha svolto attività di lavoro precoce tra i 14 e i 15 anni. Tuttavia, più del 40% ha avuto esperienze lavorative al di sotto dei 13 anni e – dato allarmante – circa l’11% ha svolto delle attività persino prima degli 11 anni. 
Se leggiamo questi primi dati in relazione alla carriera scolastica degli stessi minori intervistati, emerge con chiarezza come il coinvolgimento precoce in attività lavorative abbia una forte relazione anche con i percorsi accidentati e difficili. Se, infatti, si tengono presenti le forme più visibili ed estreme della dispersione scolastica (quali le bocciature e l’abbandono) si ha che già dalle elementari il 12% dei minori che hanno avuto esperienze di lavoro precoce hanno abbandonato la scuola o sono stati bocciati una o più volte. La percentuale sale notevolmente nella scuola media, fino a raggiungere il 56%. Se inoltre si tiene conto che la maggior parte dei minori del circuito della giustizia minorile ha un diploma di scuola media inferiore, è significativo anche l’11% di quanti hanno deciso di interrompere la frequenza alle scuole superiori.
Il rapporto con la scuola è vissuto in modo estremamente conflittuale, anche perché non di rado i minori che svolgono attività di lavoro precoce non hanno tempo per approfondire i loro studi e in alcuni casi gli stessi impegni di lavoro impediscono ai minori di frequentare con regolarità la scuola. Per la maggior parte degli intervistati, infatti, la scuola non piace perché detta regole e orari, tuttavia in realtà i minori interrogati anche su cosa sia piacevole della scuola rispondono certamente lo stare con gli amici, ma anche studiare (in senso generale o più specificatamente fare laboratori pratici o seguire le lezioni delle materie scientifiche). Non c’è quindi un’avversione totale, come spesso vorrebbe l’idea comune: ‘non ti piace la scuola, quindi vai a lavorare’. Si intraprendono delle possibili attività lavorative per tanti motivi diversi. La scuola è fuori dubbio vissuta con difficoltà, tanto da arrivare – in taluni casi - a sentimenti veri e propri di insofferenza, ma non è l’idea in sé dello studio ad allontanare i minori, che in realtà sono curiosi di conoscere, non trovano però risposte adeguate a un vissuto personale complesso e a una tale precarietà lavorativa che svilisce l’idea stessa della necessità di una formazione.

Le attività lavorative dei minori
Nel 66% dei casi i minori hanno svolto attività di lavoro precoce per fare fronte alle proprie spese personali, tuttavia poco più del 40% ha invece affermato di avere lavorato anche per aiutare la propria famiglia. Nella maggiore parte dei casi (90%) i minori affermano che i propri genitori erano d’accordo con la loro scelta di iniziare delle attività lavorative. I lavori svolti sono sempre poco qualificanti e precari. Diversamente da quanto è stato raccolto nelle precedenti indagini relative al lavoro precoce in Italia (vd. la già citata ricerca Game Over di Save the Children e Ass. Bruno Trentin) è interessante notare che i giovani della giustizia minorile che hanno avuto esperienze di lavoro, le hanno svolte al di fuori del contesto familiare: il 21% ha lavorato per i propri genitori, il 18% per dei familiari, ma ben il 60% per altre persone.
I settori principali di impiego sono: il settore della ristorazione (21%) - bar, ristoranti, alberghi, pasticcerie, panifici, ecc.; le attività di vendita ( 17%) - negozi, mercati generali, vendita ambulante; le attività in cantiere (11%) – come manovali, imbianchini, carpentieri, ecc.; le attività in campagna(10%) - che includono l’aiuto sia nella coltivazione (raccolta, lavori come bracciante, ecc.), sia nel lavoro con gli animali (allevamento, maneggio).
Seguono, poi, tutti quei lavori che si svolgono presso le officine meccaniche e i distributori di benzina (9%), le attività artigianali (5%), il lavoro in fabbrica (3%), le consegne a domicilio (2%) e solo una percentuale residuale svolge le proprie attività lavorative in casa per aiutare la famiglia nel proprio lavoro o nella cura di fratelli più piccoli o parenti in difficoltà.
Tenendo presente una serie di informazioni raccolte incrociando più domande, anche in questo caso si ribaltano le statistiche sul lavoro minorile in generale. Se, infatti, le stime sul totale della popolazione compresa tra i 14 e i 15 anni dedita ad attività di lavoro precoci individuano nelle forme occasionali le partecipazioni lavorative dei giovanissimi; nel caso dei minori del circuito penale emerge come le loro attività di lavoro precoce siano svolte più o meno tutti i giorni (71%) e nell’88% dei casi si distendono nella fascia oraria diurna (tra le ore 6 e le ore 20). Inoltre, il 43% lavora più di 7 ore continuative al giorno e circa il 38% svolge le proprie attività per un numero di ore comprese tra 4 e 7.

Condizioni familiari 
Quasi il 63% degli intervistati vive con i propri genitori; circa il 24% solo con la madre. Per il 3,6% si tratta di ragazzi e ragazze senza fissa dimora. Le famiglie sono per lo più numerose (questo è vero non solo per chi ha avuto esperienze lavorative precoci, ma per tutti i minori coinvolti nell’indagine): più del 40% ha, infatti, 3 o più fratelli/sorelle.
Non si tratta necessariamente di famiglie a basso reddito, sebbene la povertà economica e culturale sia un dato rilevante. Non necessariamente, poi, altri membri della famiglia hanno o hanno avuto condizioni penali pendenti. Anche in questo caso, i dati non si discostano molto tra i minori che non hanno avuto esperienze di lavoro precoce e quelli che al contrario hanno svolto attività lavorative. È solo leggermente più alta la percentuale relativa alle possibili condizioni penali dei padri (23,5% per quanti non hanno mai avuto esperienze di lavoro precoce, 31,5% per gli altri).

Tipi di reati
Ai minori con esperienze di lavoro precoce coinvolti nell’indagine sono contestati per lo più reati contro il patrimonio (54,5%), seguono quelli contro la persona (12,7%), contro l’incolumità (9%) e le istituzioni (6%). Il 17% dei reati può essere ascritto ad altre forme. Evidentemente, per diversi minori le contestazioni non riguardano un solo settore di reato, capita ad esempio che al reato contro il patrimonio se ne sommi uno contro la persona. I reati più frequenti tra quelli contro il patrimonio sono il furto e la rapina; mentre tra i reati contro la persona i ricorrenti sono quelli relativi alle lesioni volontarie. La maggior parte dei minori afferma di avere iniziato le proprie azioni illecite tra i 12 e i 15: il biennio più delicato risulta essere senza dubbio quello tra i 14 e i 15, periodo nel quale si acutizzano le forme più evidenti della dispersione scolastica (bocciature e abbandoni).

Esperienze di sfruttamento: primi dati di riflessione
Come è noto, non esiste ad oggi un catalogo dei lavori più pericolosi svolti dai minori, non è quindi semplice identificare un’eventuale area di rischio di sfruttamento. Tuttavia, come nelle precedenti indagini, si è deciso di considerare ‘a rischio’ sfruttamento lavorativo quei ragazzi che: lavorano in fasce orarie serali o notturne (dopo le 20.00); e/o svolgono un lavoro continuativo (che interferisca con almeno due delle seguenti condizioni: interruzione della scuola, minore rendimento scolastico, minore tempo a disposizione per il divertimento con gli amici e per riposare; o ancora che lo stesso lavoro venga definito moderatamente pericoloso). Date queste condizioni si stima che almeno il 10% dei minori intervistati è stato coinvolto in un’attività definibile ‘a rischio di sfruttamento’. Si tratta di un dato certamente sottostimato, soprattutto se teniamo presente che – come già evidenziato – il 70% dei minori coinvolti nell’indagine dichiarano di avere lavorato più o meno tutti i giorni e più del 40% ha lavorato continuamente più di 7 ore.

Il futuro

Dai dati emersi nell’analisi qualitativa sarà maggiormente evidente come i giovani inseriti nel circuito della giustizia minorile abbiano difficoltà ad avere dei sogni, dei desideri da realizzare nel futuro. Al di là delle esperienze di lavoro pregresse, per la maggior parte degli intervistati il lavoro rimane comunque una possibilità per evitare forme di recidiva: l’89% ritiene infatti che il lavoro – a certe condizioni – possa aiutare nel percorso di reinserimento sociale.
Tuttavia per fare sì che questo sia possibile, occorrono – ad opinione dei giovani intervistati – una serie di importanti caratteristiche. Il lavoro deve prevedere una giusta paga, deve essere stabile e rendere autonomi. Per alcuni (soprattutto per chi ha già avuto esperienze pregresse) dove avere un contratto e magari – laddove possibile – sarebbe utile potere fare riferimento a un adulto affidabile.

SICUREZZA SUL LAVORO Incidenti lavoro, muore giovane operaio a Pavia


Redazione Rassegna sindacale
01 Settembre 2018

Infortunio mortale sul lavoro oggi (giovedì 30 agosto) a Mortara (Pavia). La vittima è Marco Trambaiolo, operaio di 32 anni, residente a Lomello. L'uomo aveva un contratto di lavoro in somministrazione per la Delta Trasporti, azienda di proprietà del gruppo Mauro Saviola, società leader nel settore del legno industria, con sede a Viadana (Mantova). L'infortunio è accaduto in mattinata, l’operaio ha perso la vita schiacciato da una pala meccanica.
“Sono ancora in corso gli accertamenti per capire le dinamiche dei fatti e le responsabilità di quanto è accaduto, ma come Fillea Cgil, Filca Cisl, Feneal Uil di Pavia denunciamo ancora una volta come la precarietà e la frammentazione d’impresa, in tutte le sue forme, incida sulla salute e sicurezza di tutti gli ambienti di lavoro”, spiegano i sindacati. “La ricerca della riduzione dei costi nell’organizzazione del lavoro da parte delle aziende – aggiungono – genera situazioni non controllate che possono diventare devastanti sotto il profilo della salute e sicurezza”. I sindacati di categoria nei prossimi giorni metteranno in campo “iniziative utili a denunciare ancora una volta la mancanza del rispetto delle regole fondamentali del decreto legislativo 81” e chiederanno al gruppo Mauro Saviola “un incontro per chiarire le dinamiche e le responsabilità dell’accaduto”.

ECONOMIA Fitch conferma la tripla B. Ma l’outlook passa a «negativo». Spread verso i 300



Bruno Perini  - Il Manifest0
01 Settembre 2018


L’agenzia di rating Fitch conferma il trating dell’Italia BBB ma rivede al ribasso l’outlook, da «stabile» a «negativo». Pericolo scampato per quanto riguarda il temuto downgrading. Ma evidentemente i mercati intuivano che le analisi uscite nei giorni scorsi sull’andamento dell’economia italiana avrebbero influito sull’outlook. A questo punto attendono il giudizio, entro il 7 settembre, di Moody’s.
Il debito pubblico dell’Italia rimarrà «molto elevato», lasciando il Paese «più esposto a potenziali shock», spiegano gli analisti di Fitch. Che tra le criticità indicano la «natura nuova e non collaudata del governo, le considerevoli differenze politiche fra i partner della coalizione e le contraddizioni fra gli elevati costi dell’attuazione degli impegni presi nel Contratto e l’obiettivo di ridurre il debito pubblico. Non è chiaro come queste tensioni politiche saranno risolte».
Si tratta di vedere come reagiranno ora i mercati, ma già la giornata di attesa è stata convulsa e lo spread ha toccato nuove vette da brivido: 293 punti base, in un clima di incertezza legato alle dispute commerciali e alla crisi dei paesi emergenti. Così nel finale il differenziale di rendimento tra il Btp decennale benchmark e il pari scadenza tedesco si è attestato a 293 punti base dai 285 registrati ieri in chiusura. Sale anche il rendimento del Btp decennale benchmark, al 3,26% dal 3,20 del closing della vigilia. Quello che preoccupa gli operatori è poi l’andamento del biennale che ha toccato quota 200. Un incremento che alzerà in misura rilevante gli interessi che l’Italia dovrà pagare. La tensione nella comunità finanziaria è alle stelle: l’andamento dello spread si appresta a toccare quota 300, con la possibilità che scatti una sorta di moltiplicatore che porterebbe i nostro Btp verso la carta straccia.
Ma vediamo qualche cifra da paura. L’aumento dello spread farà salire la spesa dei tassi d’interesse sui titoli di Stato italiani di 6 miliardi nel biennio 2018-2019. L’Osservatorio conti pubblici italiani aggiorna le stime rispetto al dato diffuso poco più di due mesi fa: «Da allora lo spread è aumentato ulteriormente», ricorda il direttore dell’Ocp, Carlo Cottarelli. I risultati evidenziano che al 30 agosto la stima è aumentata di 113 milioni nel 2018 e 1,4 miliardi nel 2019, per un totale di 1,5 miliardi. Dalle precedenti previsioni (al 14 giugno) emergeva un incremento della spesa di 785 milioni per il 2018 e 3,7 miliardi per il 2019, per un totale di 4,5 miliardi. Sommando 1,5 miliardi, relativi agli ultimi due mesi, a 4,5 miliardi delle vecchie stime si ottengono 6 miliardi di euro di maggiore spesa per interessi dovuta all’aumento dello spread.
Clima pesante anche a Piazza Affari che ha risentito sia dei risultati del Pil sia dei dati sull’occupazione. La Borsa di Milano (-1,1%) ha chiuso in rosso appesantita dalle incertezze politiche e dai rapporti tra Italia e Bruxelles. Piazza Affari, in attesa del giudizio di Fitch sul rating del debito italiano, archiviava la seduta in linea con gli altri listini europei che risentono dei timori per dazi e la situazione in Argentina. Il Ftse Mib è stato appesantito dalle banche, tlc e auto. In rosso Pirelli (-4,6%), Brembo (-2,4%), Fca (-1,9%) e Ferrari (-1%). Arretrano Carige (-3,2%), Banco Bpm (-3,1%), Mps (-2%), Mediobanca (-1,6%), Intesa e Unicredit (-1,3%). Male Tim (-3,3%) e Mediaset (-1,4%). In calo Atlantia (-1%), nel giorno del cda insieme a quello di Autostrade per l’Italia per l’aggiornamento sul piano per Genova e la lettera di risposta al Mit. In positivo Astm (+1%) e Autostrade Meridionali (+0,8%) mentre è piatta Sias (+0,08%).
«Non siamo nella situazione dell’autunno 2011, quando l’impennata dei rendimenti portò all’uscita da palazzo Chigi di Berlusconi, ma il governo cammina su un crinale sottile», dicono gli analisti. E ne è ben consapevole: il sottosegretario Giorgetti ha dichiarato a Libero, il 12 agosto, di aspettarsi «un attacco»: «I mercati sono popolati da affamati fondi speculativi che scelgono le loro prede e agiscono. Abbiamo visto cosa è accaduto a fine agosto nel ’92 e sette anni fa con Berlusconi».

ECONOMIA Manovra, il governo balla sul tetto. Altolà di Bruxelles


Andrea Colombo - Il Manifest0
01 Settembre 2018

Il momento della verità ormai è dietro l’angolo. Che il primo vero scoglio sulla rotta del vascello gialloverde sarebbe stata la legge di bilancio era chiaro sin dall’inizio. Ma ormai il tempo stringe e le condizioni ambientali non sono certo le migliori. Lo spread a 293 punti ancora prima che la partita si apra ufficialmente indica che il rischio di una tempesta nei mercati è concreto ed è un elemento che peserà sulla scelte del governo.
L’EUROPA CONFERMA i suoi moniti. Lo fa, con l’abituale diplomazia, il commissario per gli affari economici e monetari Pierre Moscovici. Promette che, «nonostante il tono in alcuni casi scortese» dell’Italia, la commissione sarà «costruttiva». Ma con paletti rigidi: «Una correzione corposa dei conti per il 2019 sarà necessaria». Moscovici promuove il ministro dell’economia Giovanni Tria ma boccia senza appello qualsiasi velleità di sforare il tetto del 3%, ipotesi avanzata soprattutto da Luigi Di Maio: «Lo sforamento provocherebbe difficoltà che neppure voglio immaginare. L’1,3% del Pil non è un target ma un tetto». Con perfetta sintonia, un alto funzionario Ue, nell’anonimato, rincara la dose: «Se le regole non verranno seguite mi preoccupo io ma potrebbero preoccuparsi anche i mercati».
LA COMMISSIONE ASPETTA la nota di aggiustamento al Def per il 27 settembre. L’eventuale rottura del parametro equivarrebbe a innescare una crisi senza ritorno. Sull’argomento ieri è tornato il sottosegretario alla presidenza del consiglio Giancarlo Giorgetti, il Gianni Letta di questo governo. Anche lui ipotizza lo sforamento «se necessario per mettere in sicurezza il Paese e nell’interesse di tutta l’Europa». Negli ultimi vent’anni, spiega, «non si è fatta una spesa per investimenti seria, soprattutto sotto l’aspetto del capitale infrastrutturale. Ci sono le scuole e gli edifici pubblici a rischio, non solo i ponti».
L’argomentazione non convince il Mef. Via XX settembre ricorda, in via informale, che i fondi per il risanamento ci sono già, diverse decine di miliardi da ripartire in 10 anni stanziati dal governo Gentiloni e già fuori bilancio. Solo che non vengono spesi per via dei lacci e lacciuoli burocratici, dalle norme sugli appalti al patto di stabilità interno, dagli ostacoli burocratici alla necessità di trattare con le comunità locali. Violare il parametro senza nemmeno essere riusciti a spendere i soldi che già ci sono sarebbe assurdo.
NATURALMENTE GIORGETTI questo lo sa benissimo. E’ probabile che stia solo replicando la strategia già messa in opera negli anni scorsi dai governi di centrosinistra: chiedere e ottenere flessibilità sbandierando interventi d’emergenza, all’epoca l’immigrazione, la minaccia del terrorismo e la ricostruzione post sisma, salvo poi devolvere quei fondi a tutt’altro scopo. In questo caso lo scopo sarebbero quelle riforme che il governo vuole assolutamente avviare, senza poterne però garantire la copertura se non ricorrendo al deficit: il reddito di cittadinanza, la Flat Tax, l’intervento sulla legge Fornero.
Tria però non è disposto a concedere molto. Non solo non vuole che il debito aumenti: è deciso ad abbassarlo. Per lui, come per Moscovici, l’1,3% è il tetto. In realtà al Mef sono convinti che la trattativa con Giorgetti e con la Lega non sarà proibitiva. La stessa mossa del sottosegretario, che ha sì parlato di possibile sforamento ma citando solo la messa in sicurezza del territorio senza insistere sulle riforme economiche, sembra più un ponte che una sfida.
LE COSE STANNO diversamente con il pentastellato Di Maio. M5S e il suo leader al governo hanno bisogno di risultati tali da poter controbilanciare la campagna anti migranti di Matteo Salvini in termini di consenso. Per questo devono forzare le resistenze di Tria. Non fino al punto di infrangere il parametro: quella in realtà è solo una minaccia che tutti sanno irrealizzabile. Ma al punto di allargarsi ben più di quanto il ministro dell’Economia vorrebbe certamente sì.
Il braccio di ferro si riflette sul rischio principale, quello di un attacco speculativo. Per fermare la corsa dello spread sarebbe utile dire parole chiare e anticipare, come ha chiesto ieri il forzista Renato Brunetta, la nota di aggiustamento. Ma questa mossa il governo non è in grado di farla perché la trattativa è appena all’inizio. Deve rischiare, nelle prossime settimane, una tempesta sui mercati che cambierebbe tutte le carte in tavola.

ECONOMIA Un fisco equo contro la diseguaglianza

Redazione Rassegna sindacale
01 Settembre 2018


Tra poche settimane il ministro dell'Economia Tria presenterà la variazione al Documento di economia e finanza, poi sarà il turno della legge di Bilancio. Secondo il contratto tra M5s e Lega, il cuore della politica economica del governo essere la flat tax, una riforma fiscale che annullerebbe la progressività contenuta prevista nella Costituzione. “La teoria della finanza pubblica si basa su due concetti: l'equità orizzontale e l'equità verticale. La prima ha a che vedere con ciò che la nostra Costituzione stabilisce nell'articolo 3, cioè che il calcolo della base imponibile dev’essere uguale per tutti i contribuenti. L'equità verticale rappresenta invece la progressività. Chi ha più disponibilità può sopportare un peso fiscale proporzionalmente maggiore. Non c’è niente di complesso, sono solo regole di buon senso”. Lo ha detto ai microfoni di RadioArticolo1, Vincenzo Visco, economista, già ministro delle Finanze in più governi, uno dei massimi esperti di fisco in Italia.
Il nostro, però, è uno dei paesi in cui le diseguaglianze sono aumentate maggiormente nel corso dei dieci anni di crisi. “Il problema della diseguaglianza è il tema principale dei nostri tempi – conferma Visco –, ma non si può combattere col fisco. Il fisco, infatti, dà un contributo marginale, mentre la diseguaglianza dipende dal rapporto di forza fra capitale e lavoro e dalle posizioni di rendita che si creano nel mercato. Normalmente i mercati non regolati creano diseguaglianza perché, invece di garantire concorrenza, creano monopoli”.
In questa dinamica, il fisco “può solo dare un contributo ex post e limitato”. Ciò che determina una forte riduzione della diseguaglianza è invece “la spesa pubblica di ogni singolo paese, in particolare la spesa sociale”. Quando si parla di taglio delle tasse, pertanto “l’obiettivo è sempre il taglio di settori della spesa pubblica, in particolare della spesa sociale. Lo scontro è su questo non su altro”.
Una riduzione delle tasse, dunque, significa quasi sempre riduzione di servizi e aumento delle diseguaglianze. “È quanto successo negli ultimi dieci anni – spiega ancora l’ex ministro –. L’Italia ha tagliato la spesa pubblica, anche perché ha avuto problemi di debito pubblico, e ha tagliato anche la spesa per l'istruzione e la sanità”. Gli effetti si vedono già: “Molte persone faticano a curarsi e non sono in grado di pagare il ticket”. D'altra parte, bisogna considerare il fatto che la possibilità di avere uno stato sociale “è strettamente legata al livello del reddito e alla capacità produttiva di un paese”. Quindi il problema principale oggi è: come far riprendere un sentiero di crescita all'Italia, che ancora oggi ha un livello di reddito inferiore a quello di dieci anni fa?”.
Eppure una delle priorità del nuovo governo resta la messa in atto della flat tax, che “ovviamente conviene ai ricchi”. Questo, a detta di Visco, “rischia di minare la democrazia.” Il vulnus dell'evasione di massa, poi, “che l'attuale governo sembra voler tollerare se non addirittura proteggere e incentivare”, è un altro problema che “si deve risolvere”. Recuperare l'evasione “si può tradurre in riduzione delle tasse”. Il problema, conclude l’ex ministro, è che “ci sono oggi categorie di cittadini ben note” che subiscono un onere eccessivo e altri che non pagano. “Si tratta di perequare e a quel punto produrre un sistema in cui ci sarebbe maggiore disponibilità di reddito da parte della collettività” e si guadagnerebbe in “efficienza economica”, perché verrebbe meno “la concorrenza sleale derivata dall'evasione”.

LAVORO Cgil: «Servono investimenti pubblici»


Redazione Rassegna sindacale
01 Settembre 2018


“Pur in crescita, si conferma il rallentamento dell'economia italiana a metà dell'anno in corso, ma forse il peggio deve ancora venire. Siamo sempre troppo lontani dai livelli pre-crisi di Pil, consumi e investimenti”. Così la Cgil Nazionale commenta i conti economici trimestrali diffusi quest’oggi dall’Istat.
L’Istituto nazionale di Statistica ha pubblicato i conti economici relativi al periodo aprile-giugno 2018. Nel secondo trimestre dell'anno (aprile-giugno) l'economia italiana è cresciuta dello 0,2%, confermando il rallentamento segnato nel primo trimestre, che aveva registrato un +0,3%.
Per quanto riguarda il mercato del lavoro, invece, diminuiscono i disoccupati e aumentano gli inattivi: gli sfiduciati che un lavoro non lo cercano più. Il tasso di disoccupazione nel mese scorso è sceso al 10,4 %, calando così di 0,4 punti percentuali rispetto a giugno e tornando ai livelli di marzo 2012. In calo anche la disoccupazione giovanile, scesa il mese scorso al 30,8% (-1,0 punti), ovvero al minimo da ottobre 2011. Aumentano però gli inattivi con una crescita dello 0,7% rispetto a giugno (pari a 89mila unità in più)
“Finalmente - osserva la Confederazione - si inverte, dopo anni, la tendenza ad affidare la crescita nazionale prevalentemente alla domanda estera, viste anche le tensioni geoeconomiche, e il contributo alla variazione positiva del Pil viene praticamente solo dagli investimenti interni”. Tuttavia, a sostenere gli investimenti fissi sono per la Cgil “prevalentemente le spese per i mezzi di trasporto e non per impianti e macchinari, mentre gli investimenti in ricerca, innovazione e brevetti si riducono”.
Il contributo alla crescita del Pil da parte dei consumi delle famiglie e della spesa pubblica è invece nullo, “sebbene - aggiunge -  le importazioni crescano denotando una forte domanda inevasa da parte della produzione nazionale”.
“Tutto questo - sottolinea il sindacato di corso d’Italia - in corrispondenza di una disoccupazione ancora a due cifre e oltre il 30% per i giovani. Inoltre, va posta attenzione alla persistente difficoltà alla ripresa occupazionale della fascia d'età 35/49".
Visto che il quadro economico e occupazionale Istat di oggi aiuta a determinare le prospettive macroeconomiche su cui il Governo si concentrerà nelle prossime ore per stilare la nota di aggiornamento del Def e soprattutto il disegno di legge di Bilancio 2019, “appare urgente un aumento cospicuo degli investimenti pubblici. Bisogna - prosegue - selezionare i settori di intervento in ragione delle priorità nazionali, a partire dalle infrastrutture, dalla manutenzione del territorio e dalla prevenzione dei rischi, oltre che dell'innovazione necessaria alla struttura produttiva italiana”. 
Infine, conclude la Cgil “solo una maggiore qualità delle produzioni può garantire maggiore e migliore occupazione. Crescita sostenuta e qualità del lavoro costituiscono le basi per la sostenibilità degli stessi conti pubblici e la credibilità dei mercati finanziari”.

LAVORO La disoccupazione cala? Non è vero.


Sandro Carli– Jobnews
01 Settembre 2018


C’è poco da star sereni anche se l’Istat ci prova e ci racconta che cala la disoccupazione. Ci sono anche giornali che ci credono e così titolano. Ma tutti sanno bene che non è vero. Possono crederci personaggi come Di Maio e Salvini i quali non sanno neppure dove abitano le parole lavoro, economia. Il primo continua a far la voce grossa con i Commissari della Ue i quali mandano chiari avvisi al ministro Tria perché, dal momento che lui di economia se ne intende, moderi i due vicepremier se l’Italia vuole che la Ue abbia un occhio di riguardo, magari lo socchiuda, per quanto attiene al documento di economia e finanza, il Def e poi il Bilancio del 2019 ma i vincoli  economici che valgono per tutti non si possono eludere come ha sottolineato Moscovici. In tarda serata giunge il giudizio dell’agenzia di rating Fitch.  Il debito pubblico dell’Italia rimarrà ”molto elevato”, scrive Fitch in una nota, lasciando il paese ”più esposto a potenziali shock”. Fitch sottolinea fra le criticità la ”natura nuova e non collaudata del governo, le considerevoli differenze politiche fra i partner della coalizione e le contraddizioni fra gli elevati costi dell’attuazione degli impegni presi nel ‘Contratto’ e l’obiettivo di ridurre il debito pubblico. Non è chiaro come queste tensioni politiche saranno risolte”.
Non è un caso che ci sia grande attesa negli ambienti economici per il pronunciamento della agenzia di rating, Fitch, ma già prima Moody’s, poi anche l’Ocse avevano rivisto al ribasso i parametri economici, il Pil dal 1,5 all’1,2 nel 2018, e dall’1,2 all’1,1 nel 2019. Ma  a dare un segnale netto, negativo, preoccupante, malgrado l’euforia dell’Istat arrivano i dati della Borsa di Milano che non solo chiude ancora una volta in rosso ma vede volare lo spread tra i nostri Btp e il tedesco Bund che sfiora i 290 punti, 289,9 in chiusura, con il rendimento del decennale italiano al 3,22%. Male le banche, in rosso aziende come Pirelli (-4,6%), Brembo (-2,4%), Fca (-1,9%) e Ferrari (-1%). Arretrano Carige (-3,2%), Banco Bpm (-3,1%), Mps (-2%), Mediobanca (-1,6%), Intesa e Unicredit (-1,3%). Male Tim (-3,3%) e Mediaset (-1,4%). In calo Atlantia (-1%), nel giorno del cda insieme a quello di Autostrade. Non solo i nostri titoli vengono comprati ma al rialzo del loro valore.
Le persone che hanno un lavoro sono diminuite di 28 mila
È in questa situazione che nel mese in cui è entrato in vigore il “decreto dignità” Istat scopre che il tasso di disoccupazione è sceso al 10,4 con un calo di 0,4 punti in percentuale rispetto a giugno. Anche se si trattasse di un dato reale ci sarebbe poco da gioire perché saremmo tornati ai livelli di marzo 2012. In realtà, il calo della disoccupazione che, dice Istat, riguarda “entrambi i generi e tutte le classi d’età”, si deve a 113mila persone in cerca di lavoro in meno. In calo anche la disoccupazione giovanile, scesa al 30,8% (-1,0 punti). Anche in questo caso si tratta di un incremento di chi non studia e non cerca lavoro. Non solo. Leggendo bene i dati si scopre che la stima degli occupati registra ancora una lieve flessione: ci sono 28mila persone in meno con un lavoro, il -0,1% su base mensile. Resta ampiamente positivo il dato annuo (+277mila occupati), ma “la diminuzione congiunturale dell’occupazione è interamente determinata dalla componente femminile e si concentra tra le persone di 15-49 anni, mentre risultano in aumento gli occupati ultracinquantenni”, afferma l’Istituto. Ma, guarda caso, si registra una flessione per i dipendenti permanenti (-44 mila), mentre crescono in misura contenuta i dipendenti a termine e gli indipendenti (entrambi +8 mila). “Si conferma – dice anche Istat – una ormai consolidata tendenza all’incremento dei contratti a termine, sottolineando un recupero degli autonomi che caratterizza le ultime rilevazioni. Entriamo nel mondo degli inattivi. Aumenta l’esercito – dice Istat – di chi neanche si avvicina al mondo occupazionale, ovvero non ha lavoro e non lo cerca. I cosiddetti inattivi tra i 15 e i 64 anni risultano in crescita dello 0,7%, ovvero +89 mila persone. L’aumento coinvolge le donne (+73 mila) e gli uomini (+16 mila) e si distribuisce tra i 15-49enni. Il tasso di inattività sale al 34,3% (+0,3 punti percentuali)”. I dati sull’occupazione degli ultimi 12 mesi (luglio 2017-luglio 2018) mostrano ancora una volta, in modo molto netto, come la composizione del mercato del lavoro stia cambiando radicalmente. Più 400mila tra occupati a termine e autonomi e meno 122mila permanenti.
Scacchetti (Cgil). Ripresa molto fragile, crescita inferiore alla media europea.
Tania Scacchetti, segretaria confederale della Cgil, riferendosi anche ai dati resi noti dall’Osservatorio dell’Inps afferma che “continua l’andamento altalenante dei dati relativi al mercato del lavoro, indice di una ripresa molto fragile e di una crescita inferiore alla media dei Paesi europei”. La segretaria confederale sottolinea  “la crescita significativa soprattutto dei contratti  a termine, in somministrazione e del lavoro intermittente.  Preoccupa il calo nel 2018 delle trasformazioni dei contratti di apprendistato da contrastare con opportune politiche di sostegno. Qualora ce ne fosse ancora bisogno – afferma – qualità e stabilità del lavoro sono le prerogative per la riduzione delle disuguaglianze e per lo sviluppo del Paese”.

Ilva. Ci vuole lo sciopero delle tute blu per far uscire Di Maio dalla tana. Convocati i sindacati. Il ministro dica se la gara è legittima oppure no. Intanto stanno per finire le risorse e scade il mandato dei commissari


Alessandro Cardulli – Jobnews
01 Settembre 2018

C’è voluto l’annuncio dello sciopero per martedì 11 settembre, in tutte le fabbriche del gruppo Ilva, da quella di Taranto a Genova, Novi Ligure, Paderno Dugnano, che danno lavoro a circa 14 mila persone, senza contare l’indotto, per smuovere il ministro dello Sviluppo Economico e del Lavoro nonché vice premier, Luigi Di Maio che si è  deciso a convocare i sindacati per mercoledì 5 settembre. Insieme alla giornata di sciopero avevano annunciato anche una manifestazione davanti alla sede del ministero, un presidio per tutta la giornata.
Camusso: “sicuramente lo sciopero resta”
“Sicuramente lo sciopero resta, il primo tema che abbiamo proposto è che il governo deve uscire dall’ambiguità di questa lunga stagione e dire cosa intende fare. Non può scaricare la responsabilità della decisione sulla gara e sull’affidamento dell’Ilva alle parti sociali o ad altri soggetti, è il governo che deve dire”, conferma Susanna Camusso, segretario generale Cgil, ai microfoni di RaiNews24. “Ci aspettiamo che il governo intervenga per determinare il fatto che l’acquisizione avvenga con le migliori soluzioni possibili sul terreno ambientale- spiega Camusso- e con una risposta positiva al’insieme dell’occupazione, quindi senza una dichiarazione di esuberi e sulle condizioni di lavoro e dei salari quindi”.
Il Di Maio, in tutt’altre faccende affaccendato, in particolare nel tallonaggio all’altro vicepremier, Salvini Matteo che si prende la scena con le sue comparsate insieme alla peggiore gente della ultra destra europea, leggi Orban, che lo considera il suo “eroe”, si era perfino dimenticato dell’esistenza dell’Ilva, dei lavoratori e che le risorse di cui dispone il gruppo sono pressoché finite, restano circa 24 milioni. Scadono anche i tre commissari che stanno gestendo l’azienda. Per non parlare del  fatto che lui stesso aveva dichiarato illegittima la gara con cui Arcelor Mittal si era aggiudicata l’asta
Il mistero del ministro. “Delitto perfetto ma non si può annullare la gara”
“Delitto perfetto” aveva detto “ma non si può annullare la gara”. Mistero sulle sue intenzioni. Si era rimesso al parere dell’Avvocatura dello Stato, che glielo aveva dato per iscritto ma lui, in conferenza stampa non lo aveva letto, si era limitato a farne un sunto. Aveva chiesto anche un parere all’Anac, l’agenzia anticorruzione che aveva rilevato delle “criticità” ma non aveva parlato di “illegittimità”. Ai sindacati, esterrefatti, che avevano chiesto la lettura del parere dell’Avvocatura aveva annunciato che sarebbero stati riconvocati. Poi altri “impegni” gli hanno impedito di affrontare la “questione” Ilva. Fra questi altri “impegni” la sfida a Salvini, a chi le dice più grosse, lo aveva portato ad un attacco alla Commissione della Ue rivendicando il diritto, non si sa perché, a superare il limite del 3% nella predisposizione del Bilancio. Si era preso anche una sonora smentita sul fatto che l’Italia ogni anno “regala” alla Ue ben venti miliardi. Figuratevi se nella sua agenda poteva figurare l’Ilva, vicenda sulla quale aveva fatto cadere l’assoluto silenzio. Non solo. Fiom Cgil, Fim Cisl, Uilm Uil lunedì avevano fatto pervenire un lettera al ministro in cui annunciavano la mobilitazione se non fosse arrivata la convocazione urgente. Niente, silenzio assoluto. Silenzio anche dal presidente del Consiglio che era stato allertato dai sindacati. Da qui l’annuncio delle tre organizzazioni della proclamazione dello sciopero.
Dal 6 agosto silenzio del ministro, vicepremier, in altre faccende impegnato
“Attendiamo dal 6 agosto”, scrivono nella lettera inviata a Conte e a Di Maio, Fiom Cgil, Fim-Cisl, Uilm Uil e Usb, “le risorse finanziarie sono ormai quasi esaurite e il 15 scade l’amministrazione straordinaria”. “Siamo ancora in attesa di notizie per la ripresa del negoziato e la valutazione di legittimità da parte del ministero della gara per l’aggiudicazione del gruppo Ilva”. “Lunedì 27 agosto abbiamo unitariamente sollecitato il governo a convocare tutte le parti e ad oggi non abbiamo ancora avuto risposta”. I sindacati “nel permanere  delle condizioni attuali” annunciano “la mobilitazione generale di tutto il gruppo Ilva per l’11 settembre con scioperi in tutti gli stabilimenti del gruppo e presidio al ministero”. Passano due ore dall’annuncio dello sciopero dei metalmeccanici e arriva la convocazione di Di Maio, al ministero per il 5 settembre primo pomeriggio, delle segreterie delle organizzazioni di categoria, Fiom, Fim, Uilm, Usb insieme alle segreterie generali di Cgil, Cisl, Uil . Al “tavolo”, annuncia il ministro, parteciperanno la società AmInvestco (leggi Arcelor Mittal, che si è aggiudicata la gara, ndr), i commissari straordinari dell’Ilva e, oltre a tutti ai segretari generali e dei sindacati metalmeccanici, anche i rappresentanti dei lavoratori chimici e del trasporto interessati alla vicenda per l’indotto. Convocata anche Federmanager, non si capisce a quale titolo. Si rende noto nel comunicato che parteciperà anche il ministro precisando “come i sindacati e l’azienda avevano chiesto”. Le parti sono convocate per “proseguire il confronto relativo alla cessione della società”.
Camusso: il governo dica se la vendita è stata effettuata oppure no
Sul futuro del gruppo siderurgico giovedì 30 era intervenuta anche Susanna Camusso, segretario generale della Cgil nel corso di una iniziativa tenuta a Genova. “Il governo deve assumersi la responsabilità di dire se la vendita c’è o non c’è. Notiamo una tendenza a scaricare sugli altri soggetti: questo è inaccettabile. Pensiamo non ci sia più tempo, nel senso che non è che prendendo tempo, rinviando la decisione e chiamando in causa altri il tema si risolve”. “Come hanno detto le categorie nazionali chiedendo un incontro al ministro – aveva proseguito –, ribadiamo che il governo ci deve dire se la vendita è stata effettuata oppure no. E, a partire da quello, deve dirci come si determinano le risposte che vanno ancora date in termini ambientali, quelle che riguardano l’occupazione, i salari, l’accordo di programma. Parliamo di una vendita e di risorse finanziarie, il governo deve decidere”.

LAVORO Governo non dà risposte: 11 settembre sciopero Ilva


Redazione Rassegna sindacale
01 Settembre 2018


Sciopero in tutti gli stabilimenti Ilva martedì 11 settembre, con presidio nazionale a Roma sotto la sede del ministero dello Sviluppo economico. Due ore dopo l'annuncio darriva la convocazione al ministero: i sindacati hanno ricevuto dal ministro dello Sviluppo Economico, Luigi Di Maio la lettera di convocazione del tavolo sull'Ilva per il 5 settembre nel primo pomeriggio al ministero. Al tavolo – oltre a Di Maio – parteciperanno la società AmInvestco, i commissari straordinari dell'Ilva e, oltre a tutti ai segretari generali e ai sindacati metalmeccanici, anche i rappresentati dei lavoratori chimici e del trasporto interessati alla vicenda per l'indotto. Convocata anche Federmanager. Tuttavia, fanno sapere dalla Fiom Cgil, "lo sciopero resta fissato, vediamo il 5 se ci sono le condizioni per avviare la trattativa e quindi revocare la protesta". 
La giornata di protesta è stata annunciata oggi (venerdì 31 agosto) da Fiom Cgil, Fim Cisl e Uilm Uil con una lettera inviata al presidente del Consiglio Giuseppe Conte e al ministro dello Sviluppo economico e del Lavoro Luigi Di Maio. “Dal 6 agosto attendiamo notizie per la ripresa del negoziato e la valutazione di legittimità da parte del ministero della gara per l'aggiudicazione del gruppo Ilva”, scrivono i sindacati nella missiva: “Lunedì 27 abbiamo unitariamente sollecitato il governo a convocare tutte le parti e a oggi non abbiamo avuto risposta”. I sindacati ricordano anche che “le risorse finanziarie sono ormai quasi esaurite e il 15 settembre scadrà l'amministrazione straordinaria”. Fiom, Fim e Uilm, dunque, dichiarano, “nel permanere delle condizioni attuali, la mobilitazione generale di tutto il gruppo Ilva”.
Sul futuro del gruppo siderurgico giovedì 30 era intervenuta anche Susanna Camusso. “Il governo deve assumersi la responsabilità di dire se la vendita c'è o non c'è. Notiamo una tendenza a scaricare sugli altri soggetti: questo è inaccettabile. Pensiamo non ci sia più tempo, nel senso che non è che prendendo tempo, rinviando la decisione e chiamando in causa altri il tema si risolve”, aveva detto il segretario generale Cgil nel corso di una visita a Genova. “Come hanno detto le categorie nazionali chiedendo un incontro al ministro – aveva aggiunto –, ribadiamo che il governo ci deve dire se la vendita è stata effettuata oppure no. E, a partire da quello, deve dirci come si determinano le risposte che vanno ancora date in termini ambientali, quelle che riguardano l'occupazione, i salari, l'accordo di programma. Parliamo di una vendita e di risorse finanziarie, il governo deve decidere”.

ILVA Ilva, fumata nera. I sindacati: «Sciopero». Di Maio li convoca


Massimo Franchi – Il manifessto
01 Settembre 2018


Doveva essere una giornata campale per Ilva e lo è stata. Ma tutt’altro che chiarificatrice. Niente parere dal ministero dell’Ambiente (dovrebbe arrivare oggi), niente parola definitiva sul possibile annullamento del bando e dunque della vendita a Mittal. Nessuna parola da Di Maio, nessun video su Facebook. E addirittura voci – smentite dal Mise – di un nuovo decreto che il 6 settembre allungherebbe ulteriormente i termini del commissariamento, ora fissati al 15 settembre quando il colosso indiano – contratto firmato con Calenda alla mano – potrà entrare negli stabilimenti Ilva da padrone anche senza accordo con i sindacati.
IN QUESTA INFINITA VERTENZA che va avanti da ben 6 anni come al solito le sorprese sono all’ordine del giorno. Mentre Taranto rischia di scoppiare tanto che perfino il vescovo Filippo Santoro parla di «situazione drammatica» in città.
La prima sorpresa della giornata si era avuta alle 14 quando Fim, Fiom, Uilm e Usb decidevano di rompere gli indugi e indire uno sciopero – sarebbe un inedito assoluto l’allargamento del fronte confederale all’Usb – non avendo ricevuto risposta all’ultimatum inviato lunedì. La data fissata sapientemente all’11 settembre lascia però la possibilità di revocarlo in caso di chiarimento della vicenda «annullamento».
TUTTI I SINDACATI SI RITROVANO comunque nella pressante richiesta a Di Maio di prendere decisioni e dare certezza sulla gara e dunque sull’interlocutore con cui trattare.
A STRETTO GIRO PERÒ – DUE ORE – arrivava la convocazione tanto attesa per martedì 5 – data contestata dal leader Fim Marco Bentivogli per precedenti impegni – tra soli quattro giorni dunque. Anch’essa conteneva sorprese: Di Maio infatti ha deciso che per la prima volta al tavolo parteciperanno anche i commissari straordinari dell’Ilva – invisi ai parlamentari M5s di Taranto che da tempo ne chiedono la rimozione – e i sindacati dei lavoratori chimici e dei trasporti coinvolto per l’indotto, insieme a Federmanager.
LA CONVOCAZIONE PER MITTAL appare però il segno che il bando di gara vinto dalla cordata guidata dal colosso franco-indiano non è «annullabile», sebbene abbia «molti profili di illegittimità».
Arrivare ad un accordo entro il 15 settembre al momento appare molto difficile, «se non impossibile», sottolinea Sergio Bellavita, segretario generale Usb metalmeccanici. Se le distanze sul piano ambientale – anche grazie alle pressioni del ministro Sergio Costa di questi giorni con l’incontro di giovedì con i rappresentanti di Mittal – sembrano avvicinarsi con impegno a ridurre la produzione a 6 milioni di tonnellate annue e sull’accorciamento dei tempi intermedi della copertura dei parchi; sul piano occupazionale le distanze rimangono rilevanti.
LA QUOTA DI ASSUNZIONI dirette da parte di Mittal non supererebbe quota 10.500, lasciando oltre 3mila esuberi tra Taranto, Genova e gli altri stabilimenti. Se il piano Calenda riduceva la quota a 2.500 con un fantasioso accrocco di Invitalia, la via per arrivare a «zero esuberi» – le colonne d’Ercole dei sindacati per firmare un accordo – ora sembra essere quella dei prepensionamenti. Ma il «delitto perfetto» denunciato da Di Maio per ora sembra aver ucciso per prima la fiducia nei suoi confronti dei tarantini.

SURVIVAL I Boscimani


Redazione Survival

31 Agosto 2018

I Boscimani contano circa 100.000 persone e vivono in Botswana, Namibia, Sud Africa e Angola. Sono i popoli indigeni dell’Africa meridionale e abitano lì da migliaia di anni.
Nel cuore del Botswana sorge la Central Kalahari Game Reserve (CKGR), una riserva istituita appositamente per proteggere il territorio tradizionale dei 5.000 Boscimani Gana, Gwi e Tsila (e dei loro vicini, i Bakgalagadi), e la selvaggina da cui dipende la loro sopravvivenza.
Agli inizi degli anni ’80, nella riserva furono scoperti i diamanti. Poco dopo, i ministri del governo si recarono in loco dicendo ai Boscimani che avrebbero dovuto andarsene a causa dei giacimenti rinvenuti.
Nel 1997 vennero effettuati i primi sfratti forzati, conclusisi definitivamente nel corso di due operazioni di sgombero successive, avvenute nel 2002 e nel 2005. Le case dei Boscimani vennero distrutte, le loro scuole e i loro dispensari sanitari chiusi, il loro pozzo per l’acqua smantellato e cementato, le loro riserve d’acqua rovesciate nel deserto. La popolazione fu minacciata, caricata su camion e portata via.
Oggi, i Boscimani vivono in campi di reinsediamento fuori dalla CKGR. Per sopravvivere dipendono in gran parte dalle razioni di cibo distribuite dal governo perché sono praticamente impossibilitati a cacciare, e vengono picchiati e arrestati se sorpresi a farlo. Sono stretti dalla morsa dell’alcolismo, della noia, della depressione e flagellati da malattie come la tubercolosi e l’HIV/AIDS.
Se non riusciranno a tornare a casa, nelle terre ancestrali, le loro società e il loro stile di vita unico verranno distrutti per sempre, e molti di loro moriranno.
Nonostante avessero vinto in sede legale il diritto di tornare nelle loro terre nel dicembre 2006, il governo ha continuato a fare tutto quando in suo potere per rendere impossibile il ritorno a casa dei Boscimani; tra le altre cose, ha chiuso con il cemento il loro unico pozzo. Senza di esso, i Boscimani stentavano a trovare abbastanza acqua per sopravvivere nelle loro terre.
Dopo aver perso, nel giugno 2010, una nuovo causa legale intentata contro il governo per vedersi riconoscere il diritto di accedere all’acqua, i Boscimani sono ricorsi in appello e nel gennaio 2011, finalmente, la Corte d’Appello del Botswana ha riconosciuto loro il diritto di usare il vecchio pozzo e di aprirne di nuovi. I giudici hanno descritto la lotta dei Boscimani come “una storia straziante di sofferenza e disperazione umana”.
Mentre, da un lato, il governo negava ai Boscimani l’accesso all’acqua, dall’altra faceva scavare nuovi pozzi a beneficio esclusivo della fauna selvatica e autorizzava la compagnia Wilderness Safaris ad aprire un resort turistico nella riserva.
Il Kalahari Plains Camp vanta un contratto d’affitto stipulato con il governo. Tuttavia, l’accordo non ha assolutamente tenuto conto dei diritti che i Boscimani hanno sulle terre in cui sorge il campo, e i Boscimani non sono stati in nessun modo consultati sul progetto.
E così, mentre i Boscimani rischiavano di morire di sete nelle loro terre, i turisti sorseggiavano cocktail sul bordo della piscina del campo.


Oltre a negare l’accesso all’acqua ai Boscimani, il governo ha anche: rifiutato di rilasciare permessi di caccia all’interno delle loro terre (nonostante la sentenza dell’Alta Corte del Botswana abbia sancito che tale rifiuto è incostituzionale); arrestato oltre 50 Boscimani con l’accusa di aver cacciato per sfamare le proprie famiglie e torturato molti di loro; limitato l’accesso alla riserva per la maggior parte dei Boscimani, che ora devono richiedere un permesso di un mese per visitare le loro famiglie.
La politica del governo è chiaramente quella di intimidire e terrorizzare i Boscimani per costringerli a restare nei campi di reinsediamento, e di rendere praticamente impossibile la loro sopravvivenza all’interno delle terre ancestrali.

Il processo
Nel 2002 i Boscimani decisero di trascinare il governo in tribunale per averli sfrattati illegalmente dalle loro terre ma il processo iniziò solo nel 2004 presso l’Alta Corte di Lobatse (una città a sud della capitale Gaborone).
Nonostante fosse stato intentato dai suoi cittadini più poveri, il processo sarebbe presto divenuto il più lungo e costoso della storia del paese.
I Boscimani adulti che avevano inizialmente intentato causa erano 239 ma altri 135 chiesero successivamente di essere aggiunti all’elenco degli attori. Comprendendo i loro figli, alla fine le persone rappresentate nel processo sono state oltre 1000. Purtroppo, però, dei 239 Boscimani capofila, il 12% è morto aspettando giustizia.
Mentre il caso continuava a svolgersi tra rinvii e ritardi ingiustificati, molti Boscimani cercarono di tornare a casa, nella riserva. La maggior parte di loro fu sfrattata nuovamente, in alcuni casi per ben tre volte. Contemporaneamente, veniva cancellata dalla Costituzione del Botswana una clausola chiave che proteggeva i loro diritti territoriali.
Ma grazie alla generosità dei suoi sostenitori, Survival ha potuto continuare ad aiutare i Boscimani ad affrontare il processo.
Il verdetto arrivò il 13 dicembre 2006. I giudici sentenziarono a favore dei Boscimani dichiarando ”illegale e incostituzionale” la sfratto dalla Central Kalahari Game Reserve (CKGR).
Oltre a confermare il diritto dei Boscimani a vivere all’interno delle terre ancestrali, i giudici stabilirono anche che i Boscimani avevano il diritto di cacciare e raccogliere liberamente all’interno delle loro terre, e di vivervi, se lo desideravano, senza bisogno di richiedere speciali permessi d’ingresso.
Nonostante il governo abbia subito rinunciato a ricorrere in appello, da allora non ha mai smesso di fare tutto quando in suo potere per rendere impossibile il ritorno dei Boscimani nella terra ancestrale.
Nel tentativo di avere accesso all’acqua all’interno della riserva, nel 2010 i Boscimani trascinarono di nuovo il governo in tribunale. Il giudice rigettò il caso, ma nel gennaio 2011 la Corte d’Appello del Botswana rovesciò la decisione, condannando il “trattamento degradante” del governo nei confronti dei Boscimani.

Ingresso vietato all’avvocato
Le due importanti vittorie giudiziarie segnate dai Boscimani, tuttavia, non hanno scoraggiato il governo dal continuare a cercare di sradicarli dalla loro terra. Nel 2013, i Boscimani sono tornati in tribunale ancora una volta, per garantirsi il libero accesso alla loro terra mediante l’abolizione della politica dei permessi mensili messa in atto dal governo.
Tuttavia all’ultimo minuto, il Botswana ha vietato l’ingresso nel paese allo storico avvocato dei Boscimani, il britannico Gordon Bennet e, in seguito, il loro caso è stato chiuso. Ora i Boscimani si ritrovano senza il rappresentante legale che avevano scelto, in evidente violazione della legge internazionale.

I diamanti
Le terre ancestrali dei Boscimani si trovano nel cuore della zona diamantifera più ricca del mondo. Si sa con certezza che esiste almeno un grande deposito di diamanti presso la comunità boscimane di Gope. Ma nella riserva sono già stati individuati molti altri giacimenti di kimberlite (la roccia vulcanica al cui interno di trovano i diamanti).
Nel maggio 2007, la De Beers ha venduto il giacimento di Gope alla compagnia Gem Diamonds per 34 milioni di dollari. Secondo il direttore generale della Gem Diamonds, la campagna a sostegno dei Boscimani aveva reso il deposito troppo problematico per De Beers.
Il governo del Botswana ha autorizzato la miniera; in precedenza aveva dichiarato che alla compagnia non sarà consentito fornire acqua ai Boscimani. Il governo si è anche già riservato il diritto di utilizzare i pozzi dell’acqua scavati dalla Gem Diamonds per abbeverare la fauna selvatica. Secondo la compagnia, i Boscimani sarebbero favorevoli alla miniera ma le comunità non hanno avuto nessuna consulenza indipendente sull’impatto delle attività minerarie.
La Gem Diamonds ha affermato pubblicamente che il giacimento di Gope (ora rinominato “Ghaghoo”) contiene diamanti per un valore stimato di 4 miliardi di dollari.
La miniera è stata aperta ufficialmente nel settembre 2014.
Nel caso dei Boscimani sono coinvolte anche altre compagnie. La Petra Diamonds sta esplorando tutta la riserva del Kalahari, e ha identificato Gope e Kukama come aree di prioritario interesse.

Turismo

Dopo i diamanti, il turismo è la risorsa più importante del paese.
Mentre l’Ente del turismo del Botswana utilizza sfacciatamente immagini patinate dei Boscimani per promuovere i viaggi nel paese, le autorità governative stanno facendo tutto il possibile per spazzare via quel che resta della tribù.
I turisti sono invitati a godere di una “esperienza boscimane” viaggiando con loro per imparare le tecniche di caccia e raccolta, e assistendo alla “danza della trance”. Nel frattempo, però, ai Boscimani viene impedito di cacciare e la maggior parte di loro è costretta a vivere fuori dalla propria terra ancestrale.
Survival chiede ai tour operator e ai viaggiatori di tutto il mondo di mostrare il loro sostegno ai Boscimani boicottando il turismo in Bostwana.
La pressione pubblica è l’unico strumento per costringere il governo a rispettare i diritti dei Boscimani.

L'acqua
Nel febbraio 2011, il tribunale più autorevole del Botswana ha sancito che i Boscimani hanno il diritto di accedere all’acqua all’interno della Central Kalahari Game Reserve, la loro casa.


Uno dei metodi utilizzati dal Governo del Botswana per impedire che i Boscimani facessero ritorno alla Central Kalahari Game Reserve è stato quello di tagliare i loro rifornimenti d’acqua.
Prima degli sfratti, i Boscimani attingevano acqua da un pozzo situato presso la comunità di Mothomelo. Una volta al mese, una piccola auto Durante gli sfratti, il governo soppresse questo servizio e smantellò la cisterna e la pompa dell’acqua, rendendo il pozzo inutilizzabile.
I Boscimani che erano riusciti a tornare nella riserva, sia prima sia dopo la vittoria in tribunale, erano costretti a sopravvivere con l’acqua piovana che si depositava nelle depressioni della sabbia e con i pochi liquidi forniti da meloni e radici. Durante la stagione secca, la vita era estremamente difficile, e almeno una donna morì di fame e di sete.
Contemporaneamente, il governo, autorizzava una compagnia diamantifera ad utilizzare tutta l’acqua di cui aveva bisogno, faceva scavare nuovi pozzi per gli animali selvatici utilizzando fondi della Tiffany & Co, e permetteva alla Wilderness Safaris di aprire un complesso turistico nella riserva, dotato di piscina.
I Boscimani intentarono una nuova azione giudiziaria contro il governo nel tentativo di ottenere l’accesso al pozzo. Il caso fu dibattuto alla Corte Suprema del Botswana il 9 giugno del 2010, ma la sentenza del giudice fu negativa.
La sentenza emessa recentemente dalla Corte d’Appello, a cui i Boscimani decisero di ricorrere, ha descritto il comportamento che il governo ha mantenuto con i Boscimani come un “trattamento degradante”.
Oggi, il vecchio pozzo della comunità di Mothomelo è stato rimesso in funzione e, dopo nove anni, i Boscimani possono finalmente bere.
I Boscimani continuano a temere che il governo possa richiudere il pozzo. Tuttavia sperano che la promessa fatta da Gem Diamonds, quella di costruire nuovi pozzi per altre comunità della riserva, sia mantenuta entro la fine di quest’anno.