Redazione di Un ponte per …
26 agosto 2018
La Ong “Un Ponte Per…” è attiva
dai primi anni ’90 in Medio Oriente e in questi ultimi dodici mesi ha
ripristinato un pronto soccorso a Raqqa, la capitale dell’autoproclamato
Califfato dell’ISIS conquistata dalle forze curde e arabe negli ultimi mesi del
2017 grazie anche ai bombardamenti della coalizione guidata dagli Stati Uniti.
La città è rasa al suolo, oltre
100.000 persone sono comunque rientrate, con problemi gravissimi sanitari e di
ripresa della vita. Nonostante gli sforzi dell’esercito SDF per lo sminamento e
un modello di democrazia proposto dai curdi, diffidenze, distruzione e nuove
tensioni crescono.
Claudio Jampaglia ha intervistato
il direttore dei programmi dell’Ong, Domenico Chirico, a Giorni Migliori.
“Noi siamo presenti a Raqqa da un
anno, da quanto è cominciata la battaglia per riprenderla all’ISIS. Mettemmo su
dei centri sanitari di emergenza fuori dalla città ed eravamo solo due attori
sanitari presenti, “Un Ponte per…” con “Mezza Luna Rossa” curda e un’altra Ong.
Da lì scappavano le persone e questi centri sanitari di emergenza davano le
prime cure, la cosiddetta stabilizzazione, per poi portare le persone verso gli
ospedali della zona nord della Siria. Da lì poi, finita la battaglia, siamo
entrati subito in città e abbiamo costruito questo centro sanitario. Il dato
importante da capire è che i siriani sono distrutti da anni di guerra e quindi
c’è stato un ritorno di persone oltre ogni aspettativa nella città di Raqqa.
Finita la battaglia sono rientrate immediatamente 100mila persone – e parlo di
ottobre-novembre-dicembre 2017 – con una città completamente minata. I nostri
dati parlavano di 2-300 persone ogni mese vittime di ordigni inesplosi nella
città. Questo a fine anno, con nessun attore che potesse procedere allo sminamento
se non i militari o alcune ditte private. Una città distrutta, completamente
bombardata. C’è stato un rapporto molto interessante di Amnesty sul
bombardamento di Raqqa, che è simile a quello di Berlino: c’è stato un numero
di bombe superiore a moltissime guerre simili, non battaglie singole”.
Tra
l’altro ho notato che anche tra le file del dibattito curdo ci sono segnali
della disillusione e del rammarico per come è stata distrutta Raqqa anche nelle
file interne dei vincitori.
“Il problema è proprio questo. La
distruzione non facilita la ricostruzione. Noi abbiamo messo su questo piccolo
centro sanitario, ce ne sono tre in tutta la città in questo momento e 147mila
persone sono rientrate. Noi ci occupiamo anche di servizi di maternità e molto
altro e abbiamo ambulanze che portano le persone in ospedali più attrezzati,
però c’è il deserto intorno. Anche dal nostro centro sanitario si vede una
città distrutta e ogni giorno ci vengono a chiedere servizi sanitari di base
fino a 200-300 persone. Accanto al centro sanitario che abbiamo già stiamo
cercando di costruire un vero e proprio reparto di maternità nel compound
dell’ospedale di Raqqa, che è stato anche quello raso al suolo completamente.
Noi con fondi italiani stiamo cercando di ricostruire proprio il reparto di
maternità di quell’ospedale, ma intanto abbiamo una clinica fuori. Quello che
dicevi è che il problema rimane questo: c’è un livello di tensione altissimo in
città. Una tensione sia endogena che esogena. Ci sono stati dall’inizio di
luglio scontri fortissimi e attentati contro le forze dell’Esercito che unisce
curdi e arabi e la milizia locale “Brigata Rivoluzionaria di Raqqa” finché non
sono stati arrestati quasi tutti i capi militari di questa milizia. Poi c’è
stata anche una protesta delle mogli di questi miliziani arrestati. Insomma,
c’è fortissima tensione sia di una città araba che si vede governata da una
maggioranza curda – quindi ci sono una serie di poteri locali che non
gradiscono nonostante lo sforzo enorme da parte dei curdi, che prima erano il
10% della popolazione, di creare un sistema democratico e partecipativo – poi
ci sono forze esterne che minano la stabilizzazione. Ci sono sia una parte del
vecchio governo di Raqqa o interessi da parte di Damasco o ancora pezzi di ISIS
ancora in giro. La città, insomma, oltre ad essere distrutta e a non avere
servizi, è anche il centro di una conflittualità che rispecchia la situazione
siriana in generale. È estremamente difficile operare a Raqqa, gli allarmi di
sicurezza sono continui, noi le nostre distribuzioni le abbiamo dovute
rimandare quattro volte nonostante fossero state concordate coi capi quartiere
e con tutta la popolazione”.
Immaginiamo
interventi molto complessi quindi. Dal vostro osservatorio quali sono i punti
più dolenti in questo momento e qual è il segnale di speranza, se c’è?
“Noi siamo un po’ più avanti con
un lavoro di riconnessione della società nella zona di Mosul, più che di Raqqa.
Raqqa è troppo distrutta ora per poter andare oltre i servizi di base, però
l’idea nel nostro piccolo è lavorare sia sul dialogo tra le varie comunità – è
necessario perchè vivevano insieme prima e dovranno vivere insieme anche domani
– e ristabilire un livello minimo di servizi di base e lavorare sui traumi che
sono enormi. Le tre cose insieme vanno seguiti non soltanto da noi, ma da tutte
quelle che sono le organizzazioni e le forze vive della società civile locale
che vanno rafforzate nelle loro capacità, così da provare a riconnettere un
tessuto di coesistenza civile, è l’unica strada che hanno davanti. In più, nel
caso di Raqqa, è necessario anche facilitare tutte quelle che sono le istanze
di convivenza e dialogo tra le varie popolazione, in questo caso tra curdi e
arabi. I curdi sono i primi che stanno cercando di farlo, ma la questione è molto
complessa perchè c’è una guerra in corso e ci sono delle forze in campo che
sono anche internazionali e che minano un po’ il discorso di riconciliazione”.
Intervista tratta da Radio
Popolare, 23 luglio 2018.
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