Rinaldo Gianola – La striscia
rossa
31 Agosto 2018
31 Agosto 2018
Ci volevano il crollo di un ponte, 43 morti,
centinaia di sfollati, una città spezzata in due perché si tornasse a parlare
del ruolo dello Stato in economia, delle privatizzazioni realizzate, delle
liberalizzazioni, della concorrenza, del mercato. Dispiace dirlo, ma sono stati
i grillini, con tutto il loro carico di demagogia, strumentalizzazioni e
incompetenza, a riaprire la questione dello Stato-padrone e imprenditore, del
passaggio di enormi ricchezze pubbliche in mani private, della voracità di un
capitalismo privato straccione e predatore. Forse i Cinque Stelle vogliono solo
alzare un gran polverone perché non hanno idea di cosa stanno parlando, ma è
ora che il Paese faccia i conti con trent’anni di privatizzazioni e di retorica
sul mercato e la prevalenza dei privati come motore di sviluppo.
La concessione Autostrade è uno scandalo: non si può
garantire a un privato che gestisce un’infrastruttura di interesse pubblico un
rendimento del 7%, dividendi per miliardi generati dagli aumenti delle tariffe,
senza imporre controlli severi con opportune sanzioni in caso di errori e
negligenze su mancati investimenti e sicurezza. E adesso qualcuno si offende
perché lo Stato, che ha grandi responsabilità, vuole togliere la concessione e
nazionalizzare le Autostrade. Allora diteci: qual è il prezzo minimo che devono
pagare i Benetton e i loro soci che hanno intascato profitti giganteschi per la
strage di Genova?
La presenza dello Stato in economia, anzi il ritorno
deciso della mano pubblica nella proprietà e nella conduzione di parti
rilevanti dell’industria, dei servizi, delle infrastrutture, è un tema tornato
di moda, oggetto di discussioni politiche, di progetti, di studi accademici
negli ultimi anni, in coincidenza con gli effetti più gravi della crisi. In
America è stato Obama a mettere mano al portafogli e a organizzare salvataggi
pubblici di grandi imprese. In Francia e in Germania la presenza pubblica ha
mantenuto una rilevanza preponderante nelle attività strategiche. In Germania
la presenza delle regioni nel capitale dei grandi gruppi, dalla Volkswagen in
giù, è garanzia di stabilità proprietaria, di successo e di rispetto dei
diritti dei lavoratori i quali sono rappresentati nei consigli di sorveglianza.
Quando Sergio Marchionne si presentò con lo zainetto in spalla davanti alla
cancelliera Merkel per chiedere il permesso di comprare la Opel, fu messo alla
porta perché in Germania nessuno poteva accettare un sistema di relazioni
industriali come quello di Pomigliano d’Arco o Melfi. Da noi invece Fassino e
Chiamparino dicevano che Marchionne era un “socialdemocratico”. E ancora:
l’economista Mariana Mazzucato ha avuto un buon successo con il suo libro “Lo
Stato imprenditore” in cui riabilita e valorizza il ruolo del pubblico
spiegando che senza lo Stato non ci sarebbero oggi Internet, il Gps, la ricerca
più avanzata, gli algoritmi di Google e così via.
Pur avendo storicamente basato il nostro sviluppo
economico sulla combinazione di pubblico e privato, con un ruolo guida,
decisivo dello Stato, siamo diventati campioni delle privatizzazioni. A noi
italiani anche Margaret Thatcher ci fa un baffo, abbiamo venduto tutto, nessuno
può darci lezioni. Le prime privatizzazioni vere sono degli anni Ottanta, con
la Cementir venduta al gruppo Caltagirone (governo Andreotti) e poi con il
passaggio dell’Alfa Romeo alla Fiat nel 1986 (governo Craxi, Prodi presidente
dell’Iri). Stendiamo un velo pietoso sull’Alfa Romeo, ricordiamo solo che
persino Luca di Montezemolo e lo stesso Prodi in anni successivi dissero che
sarebbe stato meglio venderla a un produttore straniero.
Ma è con gli anni Novanta che l’Italia diventa il
campione delle privatizzazioni. Siamo costretti a vendere: il debito pubblico
galoppa, l’economia è in caduta, la prima Repubblica è sull’orlo del collasso,
Mani pulite trionfa. L’Europa ci impone i sacrifici, cedere banche e industrie
pubbliche per restare aggrappati al percorso comunitario. Sono i leader
progressisti, del centrosinistra Amato, Ciampi, Prodi a mettere mano alle
privatizzazioni. Si parte con il Credito Italiano, poi la Banca Commerciale,
l’Ina e l’Imi. E ancora l’industria agroalimentare Sme, Autogrill, e anche
Mediobanca. Viene privatizzato l’acciaio di Stato, l’Ilva passa al gruppo di
Emilio Riva che da Taranto spremerà tanti di quei profitti da essere costretto
a nasconderli in Svizzera, ma dimenticando di investire in bonifiche e
aggiornamento tecnologico. A fine decennio lo Stato vende pure Telecom Italia,
un gioiello, la più bella impresa italiana. Fallito il “nocciolino” di
controllo degli Agnelli, Generali e soci la compagnia è scalata dall’Olivetti
di Roberto Colaninno e dalla “cordata padana” (governo D’Alema) che si scioglie
nel 2001 (governo Berlusconi) per passare la mano alla Pirelli di Tronchetti
Provera e ai Benetton, sempre loro. Oggi Telecom è contesa tra un bullo
francese, Vincent Bollorè, e un fondo avvoltoio americano, Elliott. Ci sarebbe
da ricordare Alitalia, quante volte è stata venduta ai privati e poi salvata
dai soldi pubblici?
Negli ultimi vent’anni quelli di sinistra
“innovatori”, infatuati di Blair e vittime inconsapevoli del trionfo del
neoliberismo, spiegavano che una modernizzazione era necessaria, che le
privatizzazioni servivano a tagliare il debito pubblico, a stimolare la nascita
e la competizione di nuovi gruppi industriali, rendendo così il mercato più
democratico e aperto. Bisognerebbe chiamarli uno a uno a rendere conto di
questi obiettivi (mancati). Il debito non è mai stato così alto, lo Stato ha in
larga misura trasferito i settori “tariffati”, quindi sicuri come una rendita,
ai privati senza pretendere nulla, solo nelle banche come nel caso di Intesa
Sanpaolo sono stati creati dei campioni nazionali anche se la maggioranza del
capitale, è bene ricordarlo, è in mano a fondi internazionali.
In Inghilterra il laburista Jeremy Corbyn, su cui
ironizzava Matteo Renzi, ha nel suo programma la statalizzazione dell’energia
elettrica, delle ferrovie, della gestione dell’acqua. In America il democratico
Bernie Sanders teorizza un intervento organico della mano pubblica
nell’assistenza, nella sanità, propone investimenti pubblici nelle
infrastrutture. In Italia? I leader Pd – Renzi, Letta e Gentiloni e vedremo i
prossimi – a quanto si capisce restano sulla vecchia strada. Restano convinti
che lo Stato deve uscire dall’economia. E così capita che finanziamo l’Alta
Velocità ferroviaria e in nome del progresso economico consentiamo ai privati
di gestire i treni. E loro cosa fanno? Alla prima occasione vendono Italo agli
americani, così i leggendari Montezemolo, Della Valle, Bombassei, Cattaneo e
compagnia si spartiscono centinaia di milioni di profitti. Fenomeni
dell’imprenditoria, benefattori del Paese. Avanti così.
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