Annalisa Camilli- Internazionale
La sua giornata comincia molto
presto, alle 4.30 di mattina. “La mungitura è intorno alle 5, poi c’è da
portare le capre al pascolo, per poi tornare a fare il formaggio nel
caseificio”, spiega Agitu Idea Gudeta, 37 anni, occhi di un marrone brillante,
sorriso smagliante e contagioso. “Le capre hanno il nome delle mie amiche e
delle mie clienti, ognuna ha il suo carattere: Marta, Melissa, Rachele,
Francesca, Ribes, Trilli”. Agitu Idea Gudeta è nata ad Addis Abeba, in Etiopia.
Quando aveva 18 anni è venuta in
Italia per studiare sociologia all’università di Trento. Poi è tornata nel suo
paese, da dove nel 2010 è stata costretta a scappare perché aveva ricevuto
minacce da parte del governo guidato dal Fronte di liberazione del Tigrè
(Tplf), al potere dal 1991. In Trentino, nella valle dei Mocheni, gestisce da
cinque anni un allevamento di capre e un caseificio: undici ettari di pascoli e
ottanta capre da latte. “L’idea era recuperare le razze caprine autoctone e
valorizzare i terreni del demanio, abbandonati dagli allevatori locali nel
corso degli ultimi decenni”, racconta.
Agitu ci tiene a raccontare la
sua storia, che è simile a quella di tanti ragazzi costretti ancora oggi a
lasciare l’Etiopia a causa della repressione del governo contro contadini e
dissidenti. “Ero impegnata con un gruppo di studenti contro il land grabbing,
denunciavamo l’illegalità degli espropri forzati dei terreni agricoli, voluti
dal governo a spese dei contadini locali per favorire le multinazionali che li
usano per coltivare cereali e monocolture destinate all’esportazione”,
racconta. “L’Etiopia è un paese ancora agricolo e queste politiche del governo
riducono alla fame i contadini che sono costretti a lavorare per le
multinazionali per 85 centesimi di dollari al giorno”.
Agitu aveva partecipato ad alcune
manifestazioni pacifiche con un gruppo di studenti universitari di Addis Abeba:
denunciavano le condizioni di sfruttamento nell’Oromia, una regione
centromeridionale dell’Etiopia dove vive un terzo della popolazione di etnia
oromo. Le prime manifestazioni sono cominciate nel 2005, e la reazione del
governo non ha tardato ad arrivare.
“Alcuni miei compagni sono stati
arrestati, altri sono spariti e di loro non se ne sa ancora niente. A un certo
punto ho capito che per me era venuto il momento di andarmene”, racconta Agitu
in un perfetto italiano. La sua famiglia aveva già lasciato il paese nel 2000
per andare negli Stati Uniti. “Mio padre era un professore all’università e
aveva capito che anche per lui era pericoloso rimanere nel paese”, racconta.
Nel giugno del 2016, l’ong Human
rights watch ha denunciato la repressione “senza precedenti” nei confronti
degli oromo e il silenzio degli alleati stranieri di Addis Abeba, a cominciare
dall’Unione europea, che finora si è limitata a semplici dichiarazioni.
Nell’ottobre del 2016 in Etiopia è stato dichiarato lo stato di emergenza, i
militari sono scesi in strada e hanno represso duramente le manifestazioni
contro il governo.
Secondo il rapporto di Human
rights watch (Hrw), più di 500 persone sono state uccise nelle proteste
dell’ultimo anno, ma il governo non ha confermato queste cifre. In due giorni,
il 6 e 7 agosto 2016, nelle manifestazioni scoppiate nella regione di Oromia e
di Amhara sono state uccise un centinaio di persone. Internet è stato bloccato
per due giorni. “Molti sono in prigione, tanti attivisti sono stati uccisi,
altri continuano a scappare”, racconta Agitu. Ma la comunità internazionale
guarda in silenzio quello che succede in Etiopia. “L’importanza dell’Etiopia è
strategica, con tutti i campi profughi che ci sono nessuno vuole rischiare di
perdere il controllo del paese”, spiega Agitu, che nel frattempo ha scelto il
Trentino per cominciare la sua seconda vita.
Quando sono arrivata a Trento,
avevo duecento euro in tasca, niente di più
“In Italia avevo degli amici che
avrebbero potuto aiutarmi e sapevo la lingua, così non ho avuto dubbi”,
racconta. “Quando sono arrivata a Trento, avevo duecento euro in tasca, niente
di più. Ho trovato lavoro in un bar, per mantenermi, ma nel frattempo ho
cominciato a pensare all’allevamento delle capre. In Etiopia avevo lavorato in
alcuni progetti con i pastori nomadi del deserto e avevo imparato ad allevare
le capre. Ho pensato che con tutti questi pascoli non sarebbe stato difficile
fare del buon latte, visto che sappiamo produrlo nel deserto”, dice Agitu, con
una risata fragorosa e spontanea.
“L’idea è stata quella di
recuperare alcune razze autoctone che hanno bisogno di mangiare poco per
produrre molto latte, senza doverle nutrire con dei mangimi. Delle capre molto
resistenti che non hanno bisogno di nulla, come la razza Mochena. Volevo un
progetto che fosse sostenibile”, racconta. E così è cominciata l’avventura: è
nata l’azienda biologica che produce formaggi e yogurt La capra felice.
“All’inizio continuavo a lavorare al bar, ma poi pian piano sono diventata
autonoma e adesso molti ragazzi trentini salgono al pascolo, vogliono imparare
a curare e ad allevare le capre”, racconta.
Poi sono arrivati anche i
riconoscimenti come quello per la Resistenza casearia di Slow Food e il Miglior
prodotto per il Trentino. Nel 2015 Agitu e i suoi formaggi hanno rappresentato
la regione all’Expo di Milano. “La soddisfazione più grande è quando le persone
mi dicono che amano i miei formaggi perché sono buoni e hanno un sapore
diverso. Mi ripaga di tutta la fatica e di tutti i pregiudizi che ho dovuto
superare per farmi accettare come donna e come immigrata”.
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