Israele
vede la campagna internazionale di boicottaggio come una minaccia all’esistenza
allo Stato ebraico. I Palestinesi la considerano la loro ultima risorsa.
Nathan Thrall Inviucta Palestina
26 agosto 2018
Il movimento per il Boicottaggio,
Disinvestimento e Sanzioni contro Israele – noto come BDS – ha fatto un po’
ammattire il mondo. Sin dalla sua fondazione tredici anni fa, si è guadagnato
quasi lo stesso numero di nemici sia tra gli Israeliani che tra i Palestinesi.
Ha intralciato gli sforzi degli Stati arabi per interrompere il loro
pluridecennale boicottaggio a favore di una cooperazione sempre più aperta con
Israele. Ha svergognato il governo dell’Autorità Palestinese a Ramallah
denunciando la sua collaborazione sicuritaria ed economica con l’esercito e
l’amministrazione militare israeliana. Ha irritato l’Organizzazione per la
Liberazione della Palestina invadendo la sua posizione, riconosciuta a livello
internazionale, di difensore e rappresentante dei Palestinesi in tutto il
mondo.
Ha fatto infuriare il governo
israeliano cercando di trasformarlo in un lebbroso agli occhi dei liberali e
dei progressisti. Ha esasperato ciò che resta del partito della pace israeliano
allontanando i Palestinesi dalla lotta contro l’occupazione a favore di quella
contro l’apartheid. Ha provocato una campagna di contrasto così antidemocratica
da parte del governo israeliano da far temere ai liberali israeliani per il
futuro del loro Paese. E ha causato grossi grattacapi ai governi europei che
fanno donazioni ai Palestinesi, messi sotto pressione da Israele per non
collaborare con organizzazioni che sostengono il BDS nei territori palestinesi,
una richiesta impossibile dato che quasi tutti i principali gruppi della
società civile a Gaza e in Cisgiordania sostengono il movimento.
In un’epoca di responsabilità
sociale delle imprese, il BDS ha causato cattiva pubblicità a importanti
aziende legate all’occupazione israeliana (Airbnb, Re / Max, HP) e ha
contribuito a spingere altre grandi aziende fuori dalla Cisgiordania. Ha
ostacolato festival cinematografici, concerti e mostre in tutto il mondo. Ha
irritato organizzazioni accademiche e sportive politicizzandole, chiedendo loro
di prendere posizione rispetto al conflitto. Ha innervosito artisti e artiste
palestinesi che lavorano con le istituzioni israeliane, accusandoli di dare
copertura palestinese alle violazioni dei diritti umani di Israele.
Nel Regno Unito, il BDS ha
provocato subbuglio nei tribunali e nei consigli locali, coinvolgendoli in
dispute sulla legalità dei boicottaggi locali dei beni provenienti dagli
insediamenti. Negli Stati Uniti, ha
indotto due dozzine di Stati a elaborare progetti di legge o emettere ordinanze
che reprimono o penalizzano chi boicotta Israele o i suoi insediamenti,
scavando un solco tra gli alleati di Israele e i sostenitori della libertà di
parola come l’American Civil Liberties Union. Sempre negli USA ha acceso
dibattiti nelle chiese protestanti, alcune delle quali, anche molto grandi,
hanno disinvestito dalle società che traggono profitto dall’occupazione
israeliana. È diventato l’assillo degli amministratori dei college, costretti a
pronunciarsi sulle lamentele dei professori e degli studenti sostenitori del
BDS che denunciano come la loro libertà di parola sia stata soffocata, e sui
reclami della Facoltà Sionista, i cui donatori e studenti affermano che i loro
campus sono diventati spazi “non sicuri”. Ha attirato i liberali verso un
maggiore sostegno per i Palestinesi, rendendo Israele una questione sempre più
di parte, associata più a Trump, agli Evangelici e all’estrema destra che non
ai democratici e ai progressisti.
Nella diaspora ebraica, il BDS ha
creato nuove fratture nel centro-sinistra, stretto in una morsa tra i
sostenitori del governo israeliano di destra e degli insediamenti da una parte,
e dalla sinistra non-sionista dall’altra. Ha spinto i Sionisti liberali a
domandarsi perché accettano il boicottaggio dei prodotti dagli insediamenti, ma
non il boicottaggio dello Stato che li ha creati e che li sostiene. Ha
costretto i sostenitori più critici di Israele a dover giustificare la loro
opposizione a forme di pressione non violenta su Israele, quando l’assenza di
una pressione reale ha fatto si che nulla fosse fatto per porre fine
all’occupazione o all’espansione degli insediamenti. Ha addossato ai Sionisti
liberali l’onere di difendere il loro sostegno non all’ideale astratto di come
sperano Israele possa un giorno diventare, ma alle attuali e continue pratiche
dello Stato, compresi gli espropri della terra palestinese a favore degli
insediamenti ebraici; detenzione di centinaia di Palestinesi senza processo o
accusa; punizione collettiva di due milioni di abitanti di Gaza che vivono
sotto un assedio più che decennale; disuguaglianza istituzionalizzata tra
cittadini ebrei e cittadini palestinesi. Il BDS ha privato i sostenitori
liberali di Israele della scusa che le cause delle pratiche antidemocratiche
dello Stato sono un’occupazione aberrante o
governi di destra.
Forse la cosa più significativa è
che il BDS ha sfidato il consenso della comunità internazionale sulla soluzione
dei due Stati. In tal modo ha sconvolto l’intero settore presente all’interno
del processo di pace in Medio Oriente, a partire dalle organizzazioni senza
scopo di lucro, alle missioni diplomatiche e ai gruppi di esperti minando la
loro premessa centrale: che il conflitto possa essere risolto semplicemente
ponendo fine all’occupazione israeliana di Gaza, di Gerusalemme Est e della
West Bank, lasciando irrisolti i diritti dei cittadini palestinesi di Israele e
dei Rifugiati.
Per molti ebrei della diaspora,
il BDS è diventato un simbolo del male e un ricettacolo di terrore, una forza
nefanda che trasforma il dibattito israelo-palestinese da una negoziazione
sulla fine dell’occupazione e la divisione del territorio, in una discussione
sulle radici più antiche e profonde del conflitto: il dislocamento originario
della maggior parte dei Palestinesi e l’istituzione di uno Stato ebraico sulle
rovine dei loro villaggi conquistati. L’emergere del movimento BDS ha riacceso
vecchie domande sulla legittimità del Sionismo, su come giustificare il
privilegio dei diritti ebraici rispetto ai non ebrei, e sul perché in altri
conflitti, ma non in questo, i Rifugiati possano tornare alle loro case.
Soprattutto, ha evidenziato una questione imbarazzante che non può essere
trascurata indefinitamente: se Israele, anche nel caso dovesse cessare la sua
occupazione della Cisgiordania e di Gaza, possa essere sia una democrazia che
uno Stato ebraico.
Nella città vecchia di Betlemme,
lungo una via serpeggiante vicino al souk e a Piazza Manger, si erge un
secolare edificio in calcare che ora funge da quartier generale della Holy Land
Trust, un’organizzazione palestinese dedita alla resistenza non violenta
all’occupazione israeliana. Sami Awad, il fondatore del no-profit, ha un
ufficio all’ultimo piano; sui suoi scaffali si allineano libri d’importanti
teorici e attivisti della disobbedienza civile: Gene Sharp, Mahatma Gandhi,
Nelson Mandela e Martin Luther King Jr, tutte figure prominenti nei loro
insegnamenti, nella scrittura e persino nel linguaggio occasionale.
Awad s’incontra spesso con
delegazioni di Ebrei israeliani e americani; a differenza di molti attivisti
palestinesi, non esita a discutere il legame ebraico con questa terra: “Posso
negarlo finché il regno non verrà. Ma è molto profondo e molto emotivo”. Allo
stesso tempo, parla candidamente di occupazione e razzismo, e insiste sul fatto
che Israele non darà mai la libertà ai Palestinesi, salvo che non venga
forzato.
“Nessun gruppo di oppressori
decide volontariamente, solo per essere moralmente corretto, di cambiare il suo
comportamento”, mi ha detto. “Qualcosa deve accadere: attivismo, resistenza,
boicottaggio”.
Ebrei e Arabi si sono boicottati
gli uni gli altri sin dagli albori del Sionismo. Nei decenni che precedettero
la fondazione di Israele, il movimento sionista intraprese campagne per
boicottare i lavoratori arabi, rifiutare i prodotti arabi, escludere gli Arabi
dalle comunità residenziali ebraiche e proibire l’acquisto di terre di
proprietà ebraica da parte di Arabi. Il quinto Congresso arabo della Palestina
chiese un boicottaggio dei beni ebraici nel 1922. Dopo che Israele occupò la
Cisgiordania e Gaza nel 1967, gli avvocati palestinesi boicottarono le corti
israeliane e gli insegnanti scesero in sciopero con lo slogan “nessuna
istruzione sotto occupazione”. Israele rispose a questi e ad altri atti di
disobbedienza civile con arresti, multe, restrizioni di viaggio, chiusure di
negozi, coprifuoco e deportazione di insegnanti, avvocati, sindaci e presidi
universitari.
Lo zio di Sami, Mubarak Awad, fu
un pioniere della resistenza nonviolenta palestinese negli anni ’80: Mubarak
incoraggiò i Palestinesi a rispedire fatture scritte esclusivamente in ebraico,
a rifiutare le citazioni in tribunale e a sventolare la bandiera palestinese,
atto causa di arresto. Ispirato dal boicottaggio del cotone britannico da parte
di Gandhi, sollecitò la sostituzione dei prodotti israeliani con quelli
palestinesi.
Fu durante la prima intifada, la
sollevazione popolare contro l’occupazione iniziata nel 1987, che il programma
promosso da Mubarak e da altri ebbe la possibilità di esprimersi pienamente. Le
tattiche che aveva promosso in piccole aule e su riviste accademiche erano ora
ampiamente utilizzate da un movimento popolare sostenuto da importanti partiti
politici: i consumatori boicottavano beni e servizi israeliani, i lavoratori
delle industrie israeliane si rifiutavano di lavorare, i negozi chiusi
all’unisono, i clienti ritiravano i fondi dalle banche israeliane, i residenti
si rifiutavano di pagare le tasse e la maggior parte degli esattori delle tasse
palestinesi e membri della polizia si dimisero. La Banca di Israele riferì che
durante il primo anno della rivolta il boicottaggio palestinese costò a Israele
650 milioni di dollari ($ 1,4 miliardi oggi). Mubarak fu accusato di “fomentare
una ribellione contro lo Stato”; come dozzine di altri, fu deportato da Israele
durante il primo anno dell’intifada.
Sami Awad fu mandato dai suoi
genitori in Kansas per continuare i suoi studi. Quando tornò a Betlemme nel
1996, la città era stata trasformata dal processo di pace di Oslo. Decine di
migliaia di funzionari e combattenti dell’OLP erano tornati dall’esilio nei
Paesi Arabi e si erano trasferiti in Cisgiordania e a Gaza, e ora erano
funzionari della neonata amministrazione palestinese. La cultura della
resistenza era stata sostituita da quella della coesistenza. Fiorì un’industria
della pace, con fondi stranieri che scorrevano in abbondanza per finanziare i
gruppi di dialogo, le ONG e le iniziative dirette tra persone. Awad, come la
maggior parte dei Palestinesi, era ottimista sul fatto che la pace fosse
all’orizzonte.
Nel giro di due anni, il suo
ottimismo svanì. La nascente amministrazione palestinese istituita in seguito
agli accordi di Oslo del 1993 sembrava più un crescente Stato di polizia che
non una fiorente democrazia che avrebbe portato all’indipendenza della West
Bank e di Gaza riuniti in un unico Paese. Sentiva un’infinità di discorsi sulla
pace e sulla coesistenza, ma ciò che vedeva sul campo era una maggiore
segregazione e maggiori limitazioni alla sua libertà. Le aree autonome
palestinesi nella West Bank erano piccole isole sconnesse, 165 delle quali
erano circondate da un mare di territorio sotto il controllo israeliano.
All’interno di quel mare – il 60% della Cisgiordania è off limits per il
governo palestinese – Israele confiscava terreni per gli insediamenti, demoliva
edifici palestinesi e forniva incentivi finanziari per la crescita della
popolazione dei coloni. Se Oslo era la strada per una soluzione a due Stati,
Awad cominciava a chiedersi se quella fosse la destinazione che voleva
raggiungere.
Quando nel settembre del 2000
scoppiò la seconda intifada, con gli attentati suicidi dei Palestinesi e con
l’invasione e gli attacchi missilistici israeliani, le attività di dialogo e di
pacificazione di gruppi come l’Holy Land Trust s’interruppero. Per Awad,
l’attenzione era ora concentrata sulla resistenza nonviolenta, che non era né
popolare né semplice. Dopo la guerra del 1948, fu il periodo più sanguinoso dei
combattimenti israelo-palestinesi. Più di 3000 Palestinesi e 1.000 Israeliani
furono uccisi. La militarizzazione dell’Intifada aveva reso pericoloso
affrontare Israele in qualsiasi modo, anche pacificamente.
Eppure Awad e altri attivisti
riuscirono a ritagliarsi un piccolo spazio per la resistenza nonviolenta.
Manifestarono contro la confisca delle terre in Cisgiordania e, dopo il 2002,
contro la costruzione di quello che gli Israeliani definiscono una barriera di
sicurezza e i Palestinesi chiamano il muro dell’apartheid. La barriera – un mix
di lastre di cemento alte otto metri, recinzioni e filo spinato – taglia la
West Bank e Gerusalemme, dividendo i Palestinesi gli uni dagli altri e gli
abitanti dei villaggi dalle loro terre. Con la barriera, Israele si è
effettivamente annesso quasi il 10% della Cisgiordania. Nella parte occupata di
Gerusalemme Est, fino a un terzo dei residenti palestinesi è stato isolato
dalle scuole, dalle cliniche e dai luoghi di lavoro. Una densa folla di abitanti
di Gerusalemme e della Cisgiordania poteva essere vista alle quattro e alle
cinque del mattino, ammucchiata come bestiame, mentre avanzava a passo lento
attraverso i checkpoint ingabbiati per raggiungere l’altro lato del muro.
Betlemme, giugno 2015. Thomas
Coex / AFP / Getty Images
Mentre l’escalation della
violenza della seconda intifada continuava, crebbe una campagna di solidarietà
internazionale con i Palestinesi. Nei primi mesi della rivolta, gli studenti
dell’Università di Berkeley, in California, eressero finti checkpoint e
mostrarono striscioni che recitavano “Disinvestiamo dall’apartheid israeliano”.
La facoltà di Harvard firmò una petizione per il disinvestimento nel 2002. A
Durban, in Sudafrica, contemporaneamente a una controversa “Conferenza mondiale
contro il razzismo” sponsorizzata dall’ONU, rappresentanti di circa 3.000 ONG
invitarono la comunità internazionale a imporre verso Israele, come stato di
apartheid, una politica di completo e totale isolamento. Campagne di
boicottaggio e disinvestimento si diffusero nei campus statunitensi, britannici
ed europei, ottenendo il sostegno di numerosi accademici israeliani e di un
gran numero di Palestinesi.
In Cisgiordania e a Gaza
arrivarono attivisti internazionali e Israeliani offrendo il loro sostegno. La
loro presenza forniva protezione ai dimostranti palestinesi, poiché in loro
presenza l’esercito israeliano agiva in modo più cauto. Awad lavorava ancora
con gli Israeliani, ma ora insisteva sul fatto che qualsiasi cooperazione fosse
basata non sulla coesistenza, ma sulla co-resistenza, con i Palestinesi in
testa. Fu colpito da lacrimogeni, picchiato e detenuto insieme a membri di
gruppi di azione diretta come l’International Solidarity Movement, i Christian
Peacemaker Teams e gli Israeliani di Anarchici Contro Il Muro.
Dopo una settimana o più tra gli
abitanti dei villaggi palestinesi, gli attivisti stranieri sarebbero tornati
nei loro campus, nei gruppi parrocchiali e nei sindacati, spiegando che c’era
un movimento di resistenza nonviolenta palestinese, ancora poco conosciuto, che
poteva essere sostenuto attraverso il disinvestimento e il boicottaggio. Il
primo disinvestimento da parte di un’istituzione americana d’istruzione
superiore, l’Hampshire College – che già era stata la prima scuola americana a
disinvestire dal Sud Africa – fu capeggiato da uno studente israeliano di nome
Matan Cohen, che a 17 anni era stato colpito a un occhio da un proiettile
israeliano durante una dimostrazione contro la barriera di separazione.
L’attivismo nonviolento della seconda intifada fu il preludio di quella che
sarebbe diventata una campagna mondiale di boicottaggio.
Trad: Grazia Parolari “contro
ogni specismo, contro ogni schiavitù”
Invictapalestina.org
Fonte:
https://www.theguardian.com/news/2018/aug/14/bds-boycott-divestment-sanctions-movement-transformed-israeli-palestinian-debate
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