Andrea Colombo- Il manifesto
31 Agosto 2018
31 Agosto 2018
Mentre l’Eliseo e il Viminale si
scambiano bordate sempre più pesanti, palazzo Chigi si affanna per dimostrare
che il suo inquilino non è affatto quel comprimario che i media dipingono.
Certo l’ennesimo scambio al vetriolo tra un Macron ansioso di ripetere su scala
europea il gioco riuscitogli in Francia, e dunque di proporsi come campione
continentale dell’antipopulismo, e un Salvini che fa di mestiere il vicepremier
ma si comporta e parla come capo del governo costringe per l’ennesima volta
Giuseppe Conte nell’ombra.
Lo scambio di ieri, poi, è stato
particolarmente violento, con Salvini che definisce «ipocrita e chiacchierone»
Macron rinfacciandogli i 40mila profughi respinti sul confine italo-francese
nel corso dell’ultimo anno e monsieur le president che lo rimbecca accusando il
governo italiano di «prendersela con l’Europa, dimenticando quel che ci ha
dato, anche se cade un ponte o arrivano profughi dall’Africa». In un certo
senso è puro teatro, Salvini e Macron si accingono a spartirsi i resti dell’establishment
che ha sin qui retto e sostenuto l’Ue, il primo ponendosi come ruggente nemico
di Bruxelles, il secondo candidandosi al ruolo di nuovo paladino e soprattutto
leader dell’Europa stessa. E’ campagna elettorale, ma il premier italiano
inizia a soffrire sul serio per il ruolo almeno secondario al quale lo
costringono i suoi due vice, che sono anche purtroppo per lui azionisti di
maggioranza.
Irritatissimo per l’incontro tra
Orbán e Salvini che, nonostante i goffi tentativi di smentita di M5S, ha avuto
tutti i caratteri di un summit tra premier, indispettito dagli articoli che lo
dipingono come al limite della sopportazione in quanto ostaggio dei medesimi
due leader, ieri Conte ha ordinato a palazzo Chigi una controffensiva mediatica
su vasta scala. Ha smentito le indiscrezioni contenute in un articolo di
Repubblica su un vertice segreto del governo reclamato dallo stesso premier. Ha
annunciato la sua presenza, del resto ovvia, al prevertice europeo di
Salisburgo del 20 settembre, dove si parlerà soprattutto di migranti. Ha fatto
ripetere che sul suo tavolo passano tutti i dossier, da quello sulla missione
Sophia a quello sui migranti, tema sul quale un vertice si svolgerà davvero la
settimana prossima.
Conte, insomma, avrebbe uno stile
diverso da quello dei due superministri, ma nella sostanza non sarebbe affatto
una comparsa. La stessa voce sulla prossima istituzione di una cabina di regia,
che in questa cornice suonerebbe come derivata dalla necessità del premier di
aver maggior voce in capitolo, è stata smentita con fermezza.
In parte l’insofferenza di Conte
è giustificata. La campagna che per tutta l’estate lo ha dipinto come un
prestanome privo di qualsivoglia ruolo e potere è certamente esagerata e
tendenziosa. Nei limiti di un capo del governo scelto da altri e che quindi
deve rispondere a chi lo ha insediato il premier cerca e a volte riesce a
svolgere un ruolo centrale, ad esempio nel dirimere le tensioni latenti che ci
sono, e non sono neppure poche, tra i due partiti di maggioranza. Il problema
sono proprio quei limiti, che si rivelano particolarmente costrittivi in una
fase delicata come quella che il governo si accinge ad affrontare.
L’impennata di ieri dello spread,
che lambisce ormai quel confine dei 300 punti oltre il quale un attacco speculativo
in grande stile sarebbe quasi inevitabile, richiederebbe un capo del governo in
grado di rassicurare i mercati garantendo senza oscillazioni che il debito non
crescerà e mettendo sul tavolo un’agenda sicura sia sul fronte delle riforme
economiche promesse, sia, soprattutto, dei tempi di attuazione delle stesse.
Sarebbe responsabilità diretta del premier, eventualmente, decidere di dare la
priorità a un capitolo piuttosto che a un altro, per evitare forzature
eccessive sui conti pubblici. Ma questo Conte non può farlo: i suoi due vice lo
smentirebbero immediatamente. Se definirlo un comprimario è fuori luogo, di
certo è un premier a sovranità limitata.
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