La
scoperta di una grave sindrome degenerativa. Le cure, costose ma gratuite
grazie alla Sanità pubblica. Messe a rischio da scelte politiche come la flat
tax. Il racconto di una giornalista
Francesca Mannocchi- L’Espresso
26 agosto 2018
La settimana scorsa ero in coda alla
farmacia territoriale del quartiere in cui vivo, a Roma.
La farmacia territoriale è quel
posto in cui le persone affette da malattie che prevedono una terapia coperta
del tutto o in parte dal sistema sanitario nazionale si recano per ricevere i
farmaci previsti dal proprio piano terapeutico.
La farmacia territoriale è un
luogo tristemente democratico. Ci sono giovani e anziani, professionisti e
operai, uomini e donne. Ci sono credenti e atei. C’è chi
ha votato a destra, chi a sinistra, chi cinquestelle. Purtroppo a volte ci sono
genitori con i propri figli. E i figli sono i malati.
La farmacia territoriale del
quartiere in cui vivo, a Roma, è un sottoscala di un ospedale. C’è poca luce,
fatta eccezione per quelle artificiali, al neon. Si accede attraverso una scala
laterale dell’ospedale in una stanza al piano menouno, che ha una sola
finestra, in alto sulla parete, da cui filtra una luce appena accennata.
C’è una sala d’aspetto, di solito
molto affollata già dalle prime ore del mattino.
Qualcuno si lamenta, qualcuno
parla del calcio o del tempo, qualcuno parla di politica, qualcuno cammina
lungo il corridoio con il catetere vescicale.
Qualcuno non cammina, e si muove
con la sedia a rotelle.
Qualcuno parla della propria
malattia, altri invece no. Hanno pudore. Come se volessero dimenticare la
propria condizione di malati. Qualcuno vive quel luogo come una catarsi, a
guardarci intorno siamo tutti uguali, siamo malati.
Qualcuno esce dalla stanza dopo
aver ricevuto i farmaci con il sorriso sulle labbra, portando le scatole di
medicine come fossero normali oggetti che costruiscono il mosaico della vita
quotidiana.
Qualcuno invece i farmaci li
nasconde, in una borsa, uno zaino, qualcuno usa le buste del pane, per
camuffare la cura, per camuffare una condizione vissuta come invalidante, o
peggio, vergognosa. La condizione di malato.
C’è chi deve prendere l’ossigeno
liquido, chi le sacche nutrizionali, c’è chi ha la fibrosi cistica, chi la
talassemia, chi le nefropatie.
Io devo prendere i farmaci per la
sclerosi multipla. Per questo ero in coda alla farmacia territoriale del mio
quartiere, a Roma.
Poco più di un anno fa mi sono
svegliata una mattina con la parte destra del corpo addormentata. Poi la parte
sinistra del corpo ha cominciato a sovrareagire agli stimoli nervosi. Sono
seguite visite specialistiche, risonanze magnetiche, una rachicentesi, cioè il
prelievo del midollo spinale. E infine, la diagnosi: sclerosi multipla
recidivante remittente.
È una malattia cronica del
sistema nervoso centrale, cervello, nervi ottici, midollo spinale. «Ho il
sospetto che tu abbia una sindrome demielinizzante», mi disse il medico di
famiglia dopo i primi sintomi. Demielinizzante? E che vuol dire?
Vuol dire che le fratture create
dalla malattia alterano la trasmissione dei messaggi nervosi dal cervello alle
altre parti del corpo. Significa che quando hai ricadute cammini male, oppure
rischi di avere disturbi della vista, oppure non riesci a deglutire, oppure peggio
ti svegli e non ci vedi. Oppure ti svegli e non cammini.
È una malattia di cui non si
conoscono precisamente le cause, ma su cui la ricerca, cioè la ricerca sulle
terapie che ne bloccano il peggioramento, la ricerca che doma la bestia che può
diventare la malattia, ha fatto progressi incredibili.
Sono i progressi che fanno sì che
da quando ho iniziato a curarmi, da quando ho iniziato il mio piano terapeutico
convivo con Lei, con la malattia, come se fosse un ospite non gradito. Nessuno
l’ha invitata, certo. Ma lei è entrata nella mia vita
dalla porta principale e senza bussare. Si è sistemata in casa mia, nel mio
corpo, per ora convivo con lei, come con un fastidio.
Un mese fa quando sono andata a
prendere le medicine l’ultima volta, uno degli addetti della farmacia
territoriale mi ha detto: «Ne è rimasta ancora una scatola, sei fortunata, le
ho ordinate ma ancora non arrivano, e se non mandano i soldi per i prossimi
mesi non arriveranno le medicine, speriamo bene», ha detto e ha sorriso.
Speriamo bene ha detto, con il
sorriso obliquo, per metà rassicurante e per metà rassegnato, che ho visto
tante volte in questi mesi.
L’ho visto nelle ore di
anticamera del reparto di neurologia dell’ospedale presso cui sono in cura, tra
stampelle e carrozzelle e persone che stanno male ma non lo diresti mai.
Speriamo bene, ha detto. E quando
sono uscita dalla farmacia territoriale, con le mie punture sotto il braccio,
le punture di interferone che mi faccio da sola sulle gambe o sulla pancia una
volta ogni due settimane, mentre intorno a noi la Lega e i Cinque Stelle ancora
guerreggiavano tra loro e con il Quirinale per la formazione del governo, per
la prima volta ho avuto paura.
E se tutto questo salta? - mi
sono chiesta - se salta questo patto che permette a me e alle migliaia come me
di prendere il numeretto alla farmacia territoriale, una volta al mese un
mercoledì mattina, e ritirare le medicine che costano più di mille euro al mese
e che non pago, perché sono coperte interamente dal sistema sanitario nazionale
- mi sono detta - se salta questo patto, che succede?
Ho 36 anni, lavoro a partita Iva,
pago le tasse regolarmente, ho un figlio di quasi due anni. E ho una malattia
neurologica degenerativa.
Ma sono fortunata, mi sono detta,
uscendo un mese fa dalla farmacia territoriale, insieme ad altri uomini e
donne, malati di altre malattie ma malati come me.
Sono fortunata perché vivo in un
paese che partecipa oppure copre le mie spese sanitarie. Un paese in cui - in
linea di principio - tutti abbiamo accesso alle cure. In cui possiamo entrare
in un pronto soccorso, e aspettare otto ore certo per una lastra, e correre il
rischio di finire degenti in un corridoio su una barella anziché in un letto,
certo - ma entriamo in un pronto soccorso, pubblico, senza alcuna assicurazione
sanitaria, uomini e donne, italiani e non italiani, anziani, giovani e bambini
e veniamo curati. Tutti allo stesso modo.
Su cosa si tiene questo patto?
Questo patto si tiene
sull’articolo 53 della Costituzione: «tutti sono tenuti a concorrere alle spese
pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è
informato a criteri di progressività».
Progressività significa che chi
ha di più deve contribuire di più alla spesa pubblica, per garantire a chi ha
di meno di potere accedere ai servizi, che devono essere uguali, per tutti.
Progressività significa che chi
guadagna di più contribuisce alle spese pubbliche anche per me, che senza
ospedali e piani terapeutici e farmacie territoriali coperte dal sistema
sanitario nazionale, non potrei permettermi una terapia costosa ed efficace
come quella che sto seguendo.
Progressività significa che posso
fare una risonanza magnetica per controllare se la bestia della mia malattia è
domata oppure no, e lo Stato, cioè le tasse di tutti noi, coprono le spese.
Progressività significa che chi
ha di più, chi guadagna di più, aiuta la comunità ad avere i medesimi diritti
che ha lui, affinché restino diritti, e non diventino privilegi.
È un patto sociale quello della
progressività delle imposte, un patto che rischia di dissolversi nella
propaganda della flat tax.
In Italia i malati di sclerosi
multipla sono 118 mila. 3400 casi ogni anno. Uomini e donne che convivono con
una disabilità progressiva. Il costo medio per un paziente è di circa 45 mila
euro l’anno, che moltiplicato per 118 mila fa cinque miliardi di euro. A cui va
aggiunto il peso per le famiglie, la perdita della qualità della vita, la necessità
crescente di assegni e pensioni di invalidità e indennità di accompagnamento. I
centri per la riabilitazione ricevono fondi insufficienti, un solo neurologo in
Italia gestisce un numero di pazienti che varia dai 141 nei centri più piccoli
agli 837 nei centri più grandi.
Come si sostengono i numeri del
Sistema sanitario nazionale?
Con le tasse. Con l’apporto della
comunità alla comunità. Con il sostegno degli uni verso gli altri, «informato a
criteri di progressività», come dice la Costituzione. Su cui i ministri
giurano, entrando nell’esercizio delle proprie funzioni.
Lo scorso 6 giugno il Censis ha
pubblicato un rapporto in cui si calcola che il valore complessivo della spesa
sanitaria privata degli italiani arriverà a fine anno a 40 miliardi di euro contro
i 37,3 dello scorso anno.
Nel periodo 2013-2017 la spesa
sanitaria privata è aumentata del 9,6%, e nell’ultimo anno 44 milioni di
italiani hanno speso soldi di tasca propria per pagare prestazioni sanitarie.
Scrive Repubblica che «per gli operai l’intera tredicesima se ne va per pagare
cure sanitarie familiari: quasi 1.100 euro all’anno. Per 7 famiglie a basso
reddito su 10 la spesa privata per la salute incide pesantemente sulle risorse
familiari. E c’è chi si indebita per pagare la sanità. Nell’ultimo anno, per
pagare le spese per la salute 7 milioni di italiani si sono indebitati e 2,8
milioni hanno dovuto usare il ricavato della vendita di una casa o svincolare
risparmi».
Lo stesso giorno, il 6 giugno, il
vicepresidente del Consiglio e ministro dell’Interno Matteo Salvini rispondendo
alle critiche sull’iniquità di una flat tax ha risposto: «Io spero che ci
guadagnino tutti, il nostro obiettivo è che tutti riescano ad avere qualche
lira in più nelle tasche da spendere».
La flat tax è giusta, dice il
vicepresidente del Consiglio, e poco importa se i ricchi pagano meno tasse,
poco importa se chi ha di più contribuisce meno di prima alla spesa pubblica,
perché se gli lasciamo - ai più ricchi - più soldi in tasca, magari si rimette
in modo l’economia.
Escono a cena, mangiano una
pizza, comprano una macchina in più. Insomma, consumano.
Ma se chi guadagna di più paga di
meno, alle spese pubbliche, ai diritti di tutti, chi ci pensa?
Se si rompe quel patto che è
sociale ma è anche generazionale, come si garantiranno i diritti?
Me lo chiedevo e me lo chiedo
anche oggi, in sala d’aspetto di un ospedale qualunque di questo paese, un
ospedale di anticamere affollate e nervose, di barelle nei corridoi, ma anche
un ospedale di eccellenze, di medici che hanno deciso di restare a fare ricerca
in Italia, nonostante l’Italia.
Di giovani uomini e giovani
donne, mie coetanee, madri e dottoresse, che instancabilmente e pazientemente
si prendono cura di tutti. Che cercano per tutti la terapia giusta, coperta dal
sistema sanitario nazionale.
Cioè dal contributo che tutti noi
diamo ai diritti degli altri.
Il 20 giugno il Ministro
dell’Interno ha proposto di chiudere le cartelle esattoriali sotto i 100 mila
euro, l’ha chiamata pace fiscale ma è ben più appropriato definirlo condono
tombale, l’ennesimo.
In un paese in cui i grandi
evasori sottraggono alle casse dello Stato - cioè a tutti noi - 2,3 miliardi di
euro l’anno e i piccoli sono per esempio quelli che hanno chiesto e ricevuto
rimborsi non dovuti per il terremoto del 2016: mezzo milione di euro. I 120
furbetti del rimborso, li hanno definiti i giornali locali. Forse quegli stessi
furbetti del rimborso si lamentano delle attese al pronto soccorso, o
protestano per l’assenza di asili nido, oppure sono sdegnati dalla mancata
manutenzione delle strade. Dalla poca cura della cosa pubblica.
Di nuovo: come si tiene il patto
sociale che garantisce i servizi?
Con le tasse. E con la responsabilità
di ognuno di noi.
Perché se c’è una cosa che è
davvero democratica, davvero flat sono i bisogni.
Il governo Conte è in carica da
un mese, il Ministro dell’Interno in queste quattro settimane ha indicato
chiaramente i suoi nemici: le Ong, le persone in fuga dalla fame, i vaccini, e
l’Europa che «ci ha lasciati soli».
Forse il ministro Salvini
dovrebbe - con la medesima forza con cui chiede solidarietà per una emergenza
migratoria che non esiste nei numeri - chiedere all’Europa un processo di
armonizzazione fiscale. Cioè fare sì che non esista un’Unione in cui in uno
stato si paga il 40% di tasse e in quello confinante il 15%.
Anche questo significa non essere
lasciati soli.
Perché - di nuovo - le tasse
pagano le nostre strade, le scuole, gli ospedali. Il diritto alla cura.
Ci pensavo meno, prima della
diagnosi, prima di scoprire e di scoprirmi nello stato di malata, altra condizione
tristemente democratica.
Pensavo agli ospedali e alla
sanità più per le sue lacune e i suoi scandali e i suoi malfunzionamenti, la
corruzione, le commesse truccate che per la sua eccellenza.
Poi nella mia vita è arrivata Lei,
la sclerosi multipla.
E piano piano, nelle ore passate
alla farmacia territoriale, o al terzo piano del reparto di neurologia
dell’ospedale, nel tempo di attesa in mezzo agli altri diversi da me ma come me
perché malati, ho capito cosa significhi la parola comunità, e quale sia il rischio
spaventoso di perderla.
Comunità significa pensare
all’altro. Pensare l’Altro. Tutelarlo oggi e tutelare i suoi bisogni di domani.
Perché di fronte ai bisogni dovremmo poter essere tutti uguali.
Questo significa comunità.
Non lasciare più soldi - da
consumare - nelle tasche di chi ha di più.
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