Vincenzo Comito– Sbiulanciamoci
29 Agosto 2018
Con queste brevi note non
vogliamo entrare nei dettagli della vicenda del crollo del ponte, peraltro il
decimo che precipita in Italia in dieci anni, simbolo sin troppo facile da
richiamare per un paese che sembra ormai arrivato al capolinea. Sulla vicenda
specifica sono usciti in questi giorni molti articoli anche significativi (si
veda quello di Anna Donati in questo stesso sito), mentre il comportamento sia
del gruppo che del governo ci è apparso nel merito del tutto esecrabile.
Vogliamo invece ricordare la vicende per così dire “imprenditoriali” della
famiglia Benetton dagli inizi ad oggi.
Avvio e crisi della Benetton
Ricordo che nella seconda metà
degli anni sessanta in diversi venimmo a conoscenza dell’esistenza di una
fabbrica di maglioni dal nome Benetton, azienda fondata nel 1965 da tre
fratelli veneti, attraverso una serie di modesti annunci pubblicitari
dell’azienda che comparivano sulla rivista per giovani “Linus”.
Quella piccola realtà crescerà
poi rapidamente secondo una formula imprenditoriale abbastanza nuova ed
originale e sembrava destinata a grandi successi; molto presto comincia
l’espansione anche all’estero in Europa e nella Americhe. Il fenomeno Benetton
darà adito, ad un certo punto, per la sua apparente novità e rilevanza, anche a
diversi studi e ricerche e verrà discusso nelle università.
Ma ad un certo punto, abbastanza
presto, la macchina si blocca e non gira più. Uno dei primi segnali che
ricordiamo a tale riguardo fu la rivolta di molti concessionari americani che
smisero di vendere i prodotti Benetton protestando.
La Benetton diventerà così una
dei più clamorosi fallimenti strategici della storia economica italiana
recente, per alcuni aspetti anche il simbolo di un’Italia imprenditoriale che
non ce la fa a reggere il mercato internazionale e le grandi dimensioni
relative. I proprietari tenteranno apparentemente di tutto per farla
riprendere, dal decentramento produttivo all’estero, con la chiusura anche di
qualche impianto in Italia, a programmi di riduzione dei costi, alla delega dei
poteri di gestione a dei manager esterni, a processi di scorporo e scissione
delle varie attività, ma con risultati sempre molto scarsi.
A dimostrazione che si trattava
in effetti solo di incapacità a stare dignitosamente il un business specifico sta
il fatto che nel frattempo altri due gruppi europei, la spagnola Zara e la
svedese H&M, portando avanti una strategia di mercato non molto dissimile
da quella dei Benetton, crescevano e prosperavano a dismisura. Oggi, mentre
l’impresa veneta, che aveva raggiunto diversi anni fa, se ricordiamo bene, un
fatturato intorno ai 2,0 miliardi di euro, arranca intorno al 1,3 miliardi, il
gruppo Zara è sui 17 miliardi di dollari (dati 2017) e il gruppo H&M
fattura addirittura intorno ai 25 miliardi sempre di dollari (dati 2016).
In questi mesi dovrebbe essere in
atto l’ennesima stanca ristrutturazione del complesso.
Le privatizzazioni
Ma, ad un certo punto, il
fallimento strategico delle compagnia si incrocerà con un altro clamoroso
fallimento, questa volta politico, quello dei processi di privatizzazione
portati avanti dai governi di centro-sinistra.
Ci raccontavano allora che
bisognava privatizzare per contribuire a risanare il bilancio pubblico, per
immettere nuova linfa imprenditoriale in un corpo economico debilitato, perché
i privati avrebbero gestito meglio del pubblico e così via.
Sostanzialmente falliti come
imprenditori privati, i Benetton riannodano così con i fasti di una tempo
facendo il loro ingresso nel tranquillo mondo delle concessioni e della riscossione
dei pedaggi, una gallina dalle uova d’oro che non richiederà grandi fatiche
imprenditoriali. E i Benetton non saranno poi i soli a farlo.
Così nel 1999 le autostrade del
gruppo Iri vengono privatizzate ed esse verranno assegnate per una modica cifra
all’unico gruppo che parteciperà alla contesa, gruppo guidato dalla famiglia.
Inoltre, se ricordiamo bene, i debiti fatti per l’acquisizione verranno poi
scaricati nelle capaci casse dell’azienda acquisita.
Seguiranno così molti tranquilli
anni di rendita, resi anche più tranquilli dalla benevolenza dei vari governi
che si sono succeduti al comando del paese e come viene documentato con
precisione nell’articolo di Anna Donati già citato. Così i pedaggi aumentavano
ogni anno anche ad un livello superiore a quello dell’inflazione, mentre gli
adempimenti cui il gruppo si era impegnato venivano spesso disattesi o
ritardati e mentre comunque gli accordi erano molto favorevoli al gruppo come
indica ora, ad esempio, la lettura delle pagine che riguardano l’eventuale
revoca della concessione.
Tra l’altro le convenzioni tra
l’Anas e Benetton vengono tenute segrete, non si capisce perché; forse soltanto
perché i vari governi si vergognano di far sapere cosa c’è scritto dentro. In
ogni caso nel 1997 la scadenza della concessione viene allungata di 20 anni,
passando dal 2018 al 2038 e nell’aprile del 2018 viene allungata ulteriormente
di quattro anni, sino al 2042.
La generazione di cassa
dell’azienda sarà così negli anni imponente, parallelamente ad un’alta redditività
operativa.
Noblesse oblige, il gruppo
Benetton parteciperà poi, insieme ad un altro eroe delle privatizzazioni, il
signor Colaninno, con il gentile inserimento nella locandina di altri
illuminati imprenditori – tutti con il solo scopo di salvare un simbolo del
made in Italy e sotto l’ala benedicente di Berlusconi-, al grande esperimento
dei “capitani coraggiosi” per salvare l’Alitalia; si sa come è poi andata a
finire. Oggi siamo ancora in trepida attesa dei nuovi salvatori, che ahimè
tardano a venire, non si riesce a capire perché. Che Benetton non sia di nuovo
della partita? E perché non fare lo stesso con l’Ilva?
Ma già prima la famiglia aveva
partecipato alla madre di tutte le privatizzazioni, quella di Telecom Italia,
avviata nel 1997 e alla quale avevano preso parte con il successo che sappiamo
prima la famiglia Agnelli, poi il solito Colaninno, poi ancora un altro geniale
imprenditore dei nostri, Tronchetti Provera, con corteo di manager tutti
illuminati. L’operazione è così riuscita che oggi l’azienda è sotto le grinfie
di un fondo avvoltoio statunitense e per giunta con il plauso del precedente
governo e dei soliti media.
Atlantia e Autogrill
Comunque il gruppo Benetton non è
oggi soltanto tessile-abbigliamento ed autostrade nazionali.
Così, per quanto riguarda le
autostrade il nome attuale della sub-holding relativa è Atlantia, che nel
frattempo è cresciuta e si è diversificata. Oltre a controllare oggi circa 3000
chilometri di autostrade in Italia, più o meno la metà del totale del nostro
paese, la società opera anche all’estero, mentre si è inserita anche nel campo
della gestione degli aeroporti, un comparto la cui gestione presenta molte
caratteristiche simili a quella delle autostrade. Così nel 2017 il fatturato,
che era complessivamente pari a circa 6,0 miliardi di euro, si suddivideva in
un 65% relativo alle autostrade italiane, un 11% relativo alle autostrade
estere, un 15% agli aeroporti italiani, un 5% a quelli esteri, un 4 % infine
alle attività residue.
Ma intanto dentro la gallina
dalle uova d’oro Autostrade era anche inserito un comparto di ristorazione
autostradale, con la società Autogrill, comparto anch’esso basato sulla formula
dei contratti di concessione. Anche in questo caso si tratta nella sostanza di
riscuotere dei pedaggi abbastanza sostenuti dagli assetati ed affamati
viaggiatori di passaggio e il gioco è fatto.
Le attività di ristorazione
vengono privatizzate anche prima di quelle autostradali, nel 1996, ed oggi esse
sono la base su cui oggi poggia un gruppo importante nel settore, forse il più
importante al mondo, operante in tutti i continenti, con un fatturato nel 2017
di circa 4,6 miliardi di euro e un utile di pressoché 100 milioni, occupando
circa 63.000 persone.
La vicenda Abertis e la struttura
del gruppo
Nel marzo del 2018, dopo una
lunga battaglia a colpi di rilanci tra Atlantia e la spagnola ACS per prendere
il controllo di Abertis, azienda spagnola operante grosso modo nello stesso
perimetro di attività di Atlantia e con le stesse dimensioni (il fatturato del
2017 si è aggirato sui 6 miliardi di euro e l’utile sugli 1,1 miliardi di euro,
con sedicimila dipendenti), i due contendenti hanno capito che era meglio
mettersi d’accordo per spartirsi una preda molto appetibile; in ogni caso,
Atlantia avrà il 50,1% del capitale ed entrerà anche in posizione di minoranza,
con il 25%, nel capitale della tedesca Hochthief, grande impresa di costruzioni
controllata da ACS. Le due società insieme controlleranno circa 14.000
chilometri di autostrade nel mondo. Che bella avventura!
Se la citata acquisizione venisse
consolidata nei bilanci del gruppo, quest’ultimo farebbe un salto dimensionale
non irrilevante, passando dai circa 12 miliardi di euro di fatturato nel 2017
ai circa 18 miliardi.
Nel frattempo, sempre Atlantis ha
acquisito una quota rilevante ( il 15,5%) nel capitale di Eurotunnel, la
società concessionaria del tunnel sotto la Manica, sborsando 1,1 miliardi di
euro e diventandone così il socio più importante. La quota potrebbe crescere
nel tempo. Ma chissà se la Brexit rovinerà un poco il sogno.
Oggi in cima al gruppo sta una
holding, la Edizione srl, posseduta pariteticamente con il 25% ciascuno dai
quattro rami della famiglia. Tale struttura controlla poi il 100% di Benetton
Group (tessile-abbigliamento), il 50,1% di Autogrill, che a sua volta possiede
il 100% della HMS Host Corporation, il 30,25% di Atlantia, che controlla oggi
anche, tra l’altro, il 50,1% di Abertis; ci sono poi delle partecipazioni più o
meno di maggioranza nel settore immobiliare ed agricolo in giro per il mondo.
Vanno ricordati infine, oltre
all’importante quota in Eurotunnel, le partecipazioni del 3,5% in Generali, del
2,1% in Mediobanca, del 4,7% nella Pirelli, del 5,1% nella RCS, del 2,24 nel
gruppo Caltagirone. Questi investimenti sono evidentemente finalizzati a stare
nel giro dove si decidono molte delle cose importanti del nostro paese,
comprese, almeno in parte, le concessioni più appetibili.
Conclusioni
Il gruppo se ne stava tranquillo
a riscuotere pedaggi su pedaggi nel suo vasto impero; molto di recente tale
attività, relativamente poco faticosa, prometteva di allargarsi molto con
l’acquisizione della spagnola Abertis e l’ottenimento di altri futuri premi con
Eurotunnel. L’unico cruccio in questo sereno orizzonte era rappresentato dal
non felice andamento di una provincia dell’impero, il tessile-abbigliamento; ma
tale cruccio era ormai relativo, visto il suo scarso peso nel gruppo.
Ma ecco che il crollo del ponte
di Genova viene a turbare l’armonia del tutto.
Peraltro noi pensiamo, anche se
ovviamente potremmo sbagliarci, che alla fine i Benetton, dopo vicende un poco
travagliate, ne usciranno con relativamente pochi danni e qualche scalfittura,
vista la pochezza anche degli attuali governanti, oltre che di quelli
precedenti che hanno contribuito a redigere i contratti di concessione; così
essi potranno tra qualche tempo tornare alle loro tranquille operazioni, anche
alla ricerca di qualche nuova importante preda nel mondo così interessante
delle concessioni, area prediletta di tanta audace imprenditoria nostrana.
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