mercoledì 29 agosto 2018

MIGRANTI Rapporto sul IV viaggio in Bosnia nei campi profughi di Velika Kladuša e Bihac


Lorena Fornasir e Gian Andrea Franchi - Progetto melting pot Europa

Noi siamo dei volontari indipendenti che vanno in Bosnia, portando fondi raccolti attraverso una rete di relazioni. 
Abbiamo scelto di andare con denaro liquido, da spendere in loco, non solo per evitare possibili controlli al confine croato, ma anche per acquistare i beni necessari assieme alle operatrici attive sul campo, bravissime e competenti, rendicontando poi al centesimo tutte le spese. Nel caso in cui sul posto manchino alcuni generi necessari, li acquistiamo nel luogo più vicino: nell’ultimo viaggio, le operatrici di No Name Kitchen hanno ritenuto opportuno farlo in un grande magazzino di Zagabria (un’ora e mezzo di auto da Kladuša), soprattutto per tende e scarpe. In certi casi, come quello di materiale medico, più difficile da trovare nelle sprovviste farmacie bosniache, provvediamo a rifornirci direttamente in Italia.
Abbiamo constatato più volte che l’indipendenza ci permette un’agilità conoscitiva in grado di vedere e capire quello che le associazioni, talvolta, non possono o, soprattutto nel caso di quelle più istituzionalizzate, anche non vogliono vedere.
Gli aiuti tuttavia sono solo il mezzo concreto per andare là; il fine è politico.
Andiamo là, certo per dare un aiuto concreto, ma soprattutto per:
1. conoscere e informare con tutte le fonti possibili
2. incontrare i migranti, conoscere le loro condizioni reali, ascoltare le loro storie di viaggi, di sopravvivenza nei campi, di respingimenti violenti e anche feroci
3. creare reti e flussi di relazioni fra loro e noi, ritornati al di qua dal confine.
4. Capire quali forme di azione politica siano agibili, almeno in prospettiva.
Così abbiamo pensato che sarebbe importante organizzare una marcia noborders, una marcia contro i confini, portando i nostri corpi da Trieste alla Bosnia: una marcia, ovviamente in numero politicamente significativo, che attraversi i confini con striscioni, cartelli, facendosi vedere dalla gente, insomma manifestando nel senso più preciso e forte della parola, fino in Bosnia (naturalmente non è necessario fare tutto il percorso a piedi, ma solo nei passaggi e zone simbolicamente più significative). Non sarà facile, ma non ci sembra un’impresa impossibile, coinvolgendo anche persone dai paesi vicini come l’Austria, la Slovenia, la Germania…
Concepiamo il nostro impegno come una forma di resistenza, secondo il motto che abbiamo letto nel 2014 sui muri del villaggio palestinese di Atwani: “RESISTERE E’ ESISTERE e ESISTERE E’ RESISTERE”
La parola rapporto implica una dimensione di freddezza descrittiva molto difficile per chi si trova, sia pure per pochi giorni a scadenze fisse, immerso in una situazione che appare inafferrabile in termini descrittivi e atroce dal punto di vista umano. Il sentimento è quello di sempre: inadeguatezza totale per quello che facciamo. Rimane forte il desiderio di continuare a stare dentro questa situazione, accettandone gli inevitabili limiti, mantenendo però, malgrado tutto, una tensione politica necessaria.
Anche i dati numerici sono incerti, variabili secondo gli interessi delle fonti. Sul Piccolo di Trieste del 20 agosto è uscito un trafiletto che dà i numeri del ministro bosniaco della sicurezza: 10.800 migranti di passaggio da gennaio 2018 al 15 agosto; oggi 2.300 in forte diminuzione rispetto a luglio.
Questi numeri sono contestati da una volontaria che collabora con la Croce rossa di Bihac, che abbiamo interpellato in proposito: “parlare di numeri qui è sempre pericoloso perché i dati sono poco attendibili… io penso che quelle 10.800 entrate… le calcolino in base ai fogli bianchi consegnati per stare in Bosnia 14 giorni ‘regolarmente’. Ma un sacco di gente l’ha fatto due e anche tre volte con nomi diversi, quindi i numeri sono più alti rispetto alla realtà. Al DOM in questo momento abbiamo tra le 700 e le 800 persone e questo è l’unico numero certo per Bihac… si suppone che a Bihac ci siano circa 3.000 persone Dom compreso. Ma non sono numeri così attendibili”.
Ci viene riferito da fonti attendibili che nel nuovo centro dell’ex hotel Sedra di Cazin, allestito recentemente dall’IOM per le famiglie, dove pare siano state alloggiate 100 persone, la struttura sia carente e presenti gravi problemi di approvvigionamento idrico.

Nel campo profughi di Velika Kladuša
Al campo di Kladuša ci sono dalle 300 alle 400 persone, più altre in numero piccolo e molto variabile al cosiddetto ‘hangar’, una cupa struttura metallica che alloggia una piccola macchina volante, dove però i pasti sono dati solo se avanzano dal campo. Nell’hangar manca l’acqua che viene portata ogni giorno da No Name Kitchen con bidoni per circa 800 litri. E’ possibile che ci siano altri rifugiati al di fuori di queste due postazioni.
In questo nostro quarto viaggio, ci siamo fermati a Kladuša venerdì pomeriggio e tutto il sabato. A Bihac siamo andati domenica mattina.
Al campo di Kladuša la situazione sanitaria presenta apparentemente i ‘soliti’ problemi di scabbia, piccole e medie ferite; ma danni più gravi per coloro che ritornano respinti dal ‘game’ oltre frontiera. Intervengono medici bosniaci di MSF 3 giorni alla settimana dalle ore 10 alle 15. Riportiamo un passo del rapporto (datato 15 agosto) di un medico locale, il dottor Dimitar Anakiev, che sta monitorando attentamente la situazione:
“Sito inadeguato, livello igienico molto basso e situazioni di violenza mostrano un rischio sanitario molto elevato, specialmente durante l’estate. L’alta percentuale relativa di visite mediche è una dimostrazione della gravità della situazione sanitaria. In base ai rischi per la salute e ai dati sanitari disponibili, il campo profughi di Trnovi ha bisogno di 5 giorni di assistenza sanitaria di base permanente con 6-8 ore di controllo sanitario e aiuto (medico più infermiere) e di un cambiamento immediato della situazione idrica”.

A Kladuša è endemica la borreliosi di Lyme, di cui sono portatrici le zecche.
Il cibo è offerto da Emmaus, una volta al giorno. I rifugiati, nella misura in cui se lo possono permettere, cucinano per conto loro, invitando volentieri chi passa a condividere e consumare il pasto insieme. C’è inoltre un ristorante che pare offra un pasto gratuito a un centinaio di rifugiati, della cui gestione cui però non abbiamo conoscenza diretta. Sappiamo tuttavia da fonti dirette, che SOS Team Kladuša sta ricevendo dei contributi economici dallo IOM per la gestione di questa “mensa”.
Come abbiamo già detto nei precedenti rapporti, a Kladuša intervengono No name kitchen, i cui otto volontari si alternano nel giro di qualche mese sotto il coordinamento di una volontaria che rimane più a lungo, e SOS team Kladuša, associazione locale, che si dividono i compiti di gestione del campo, in cui c’è sempre un custode del comune e una macchina della polizia, peraltro tranquilla.
No name kitchen raccoglie inoltre le testimonianze dei feriti che ritornano respinti dalla polizia della Croazia e compila rapporti regolari, che invia ad Are You Syrious.
Rispetto alle nostre precedenti visite, il campo appare più strutturato, con tende più grandi e numerose, costruite con grandi teli. Ci sono più fonti d’acqua, con sei gabinetti chimici le cui condizioni è facile immaginare, non essendo puliti regolarmente: le donne infatti preferiscono andare nel bosco. Il campo è illuminato tramite un generatore che ora funziona solo per un’ora e talora anche meno, mentre prima garantiva elettricità per più ore. Ci sono sempre poi, poco distanti, nel recinto dell’ex macello, le tre docce in cui vanno a giorni alterni dalle 10 alle 14 le donne e i bambini (tre giorni) e gli uomini. Per le donne è stata predisposta una bombola di gas che riscalda l’acqua.

Per quest’inverno si pensa di ottenere sempre acqua calda con una bombola di gas. 
Sul capitolo inverno, però, assai duro a Kladuša e in tutta la Bosnia, il destino di questo campo improvvisato è tutto da vedere.
Al di là di questi dati sommari, nel campo incontriamo persone: donne, bambini, famiglie - storie. Abbiamo assistito, venerdì sera, alla partenza per il ‘game’ di due famiglie iraniane con bambini piccoli. C’è la tensione di una difficile eppur forte speranza. Si legge nei volti, nell’atteggiamento dei corpi - quelli maschili gravati da zaini pesanti: devono sopravvivere, infatti, almeno per 14 giorni (è questo il tempo medio per arrivare in Italia). Sono tutti lì per partire, pur sapendo che diventa sempre più difficile valicare tre confini; e oggi anche in Italia si può essere respinti, magari con il trucco dei due chilometri dalla frontiera.
Abbiamo ritrovato una di queste famiglie il giorno dopo di nuovo al campo: la donna, madre di una bimba di pochi anni, ci ha mostrato il piede piagato che l’ ha costretta a desistere. Per ora.
Domenica a Bihac, un’altra donna, non tanto giovane, reduce dal ‘game’, ci ha mostrato le vistose tracce delle manganellate croate sulle sue braccia. 
Su questa storia delle violenze e non solo, anche dei furti di denaro e di cellulari, da parte della polizia croata, cioè su abusi gravissimi rispetto alle leggi esistenti, bisognerebbe fare qualcosa coinvolgendo settori responsabili dell’avvocatura. La questione legale è molto complicata perché riguarda almeno due paesi: Croazia e Bosnia. Conosciamo un rifugiato iraniano a Bihac che vuole fare denuncia esponendosi in prima persona. Lui ci ha descritto con precisione la tecnica croata dei pestaggi, con il passaggio dai poliziotti che li hanno arrestati, che presumibilmente firmeranno i verbali dell’arresto, a un altro gruppo, in un altro luogo più remoto. E’ questo secondo che esegue il pestaggio (che sia ormai un metodo della polizia croata ci è confermato anche da un rapporto di Ospiti in arrivo di Udine, che lo ha raccolto da altra fonte).

Una donna colpita dalla polizia croata vicino al cosiddetto Dom di Bihac
Questa volta abbiamo deciso di investire la quasi totalità del denaro raccolto a Kladusha, essendo la situazione a Bihac ormai controllata dall’IOM. Abbiamo acquistato in Italia parafarmaci, disinfettanti, bende, che abbiamo consegnato a No name kitchen, perché in Bosnia difficilmente si trovano in una certa quantità. Sabato, con due loro volontari, siamo andati in un grande magazzino di Zagabria per comprare tende, scarpe (che sono state date a SOS team Kladusha, in base alla divisione dei compiti fra le due associazioni operanti a Kladusha), biancheria e simili. Il viaggio con i due volontari spagnoli di No name ha consentito uno scambio più disteso sulle nostre diverse esperienze. Dialogando con loro, abbiamo avuto la viva impressione dell’esistenza nel mondo di una diffusa società solidale, certo estremamente minoritaria, ma viva e desiderosa di vivere, dispersa però in mille rivoli, con limitate possibilità di scambio e d’incontro. Manca soprattutto un coordinamento stabile che tenga conto anche delle differenze, capace di collegare senza omologare. Ci sembra questo il grande problema politico e sociale dei nostri tempi. In queste condizioni, l’impegno di tanta gente tende a declinare nell’assistenzialismo, mentre, forse, contiene la potenzialità di embrioni di società alternativa a questa in cui viviamo, che cerca il denaro come le zecche il sangue.

Sabato mattina e nel primo pomeriggio, al campo di Kladuša è intervenuto un piccolo gruppo, anzi una famiglia di 4 persone, di operatori artistici romani. Hanno dipinto, insieme ai rifugiati, piccoli e grandi, un lunghissimo striscione colorato su cui campeggiava la scritta in inglese: tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali. Il senso dell’intervento sta ovviamente nel creare un momento di comunicazione collettiva attraverso il fare-insieme, attraente soprattutto per i bambini, ma alla fine per tutti. Alcuni giorni prima c’era stata al campo un’esperienza analoga con la Carovana artistica di Udine.
Sarebbe essenziale creare molti momenti di scambio collettivo come questi per togliere i rifugiati da un‘inattività che può essere a lungo molto pericolosa, anche perché tende a rinchiudere nelle divisioni etniche e religiose. A Kladuša, nel nostro secondo viaggio, abbiamo incontrato un ragazzo pakistano, cattolico, che era veramente preoccupato per essere il solo cattolico in un campo di musulmani: per fortuna lo abbiamo ritrovato qualche giorno fa a Trieste dopo un viaggio di 25 giorni!
Stando nel campo, si capisce anche come il desiderio di tentare il pericoloso ‘game’ con la feroce polizia croata abbia una presa così forte, anche su famiglie con bambini piccoli: è comunque un profondo desiderio di vivere, il solo che può dar senso al sopravvivere in un campo. Molti riescono ancora a passare.

Al di là delle singole storie, questo è un messaggio politico per tutti noi.
A Bihac, la città sullo splendido fiume Una, che trova la sua voce nel bel libro di Faruk Sehic (Il mio fiume), la situazione è gestita, come ormai è noto, dall’IOM e in subordine dalla Croce rossa. Nel Dom, dove ci dicono che attualmente sopravvivono circa 800 persone, non si può entrare senza permesso. L’altro grande edificio in rovina, vicino al fiume, che era stato sgomberato dalla polizia, dopo gravi incidenti, dovuti alla pericolosità della struttura, sta poco a poco ripopolandosi.
Parlando con i rifugiati in giro nei dintorni, la situazione non appare diversa dall’ultima volta che vi siamo entrati: si lamentano del cibo e dell’assistenza medica inadeguata. L’impressione è che vi sia un atteggiamento burocratico e poco attivo da parte di chi dovrebbe occuparsene. Ne abbiamo due esempi diversi.
Il primo: in una casa abbandonata vicino al Dom vivono una famiglia irachena con quattro figli, di cui uno di circa un anno, e due o tre africani. Costoro sono abbandonati a se stessi, malgrado siano a due passi dal Dom. Ad es., il bambino piccolo è nudo perché non ha pannolini. La madre ha esibito una ricetta medica greca (!), chiedendo un medicamento per qualcosa che non abbiamo capito. La casetta è sulla strada, visibile a tutti: possibile che nessuno si sia accorto? Sono stati loro stessi a chiamarci…

Una bambina dentro il Dom di Bihac
Temiamo che l’arrivo dell’IOM, se può garantire una maggior continuità dell’intervento, assuma tuttavia una caratteristica burocratica, più preoccupata delle carte in regola che delle persone.
L’altro esempio riguarda un iraniano che ormai conosciamo bene, che ha tentato il ‘game’ ben 17 volte, venendo sempre respinto, anche perché, più che badare a se stesso, si era fatto carico di aiutare famiglie e gruppi. L’ultima volta, dopo la cattura della polizia croata anche per l’inadempienza o l’insufficienza del passeur cui si era rivolto, sono stati ricacciati in Bosnia lui e due amici, con gravi ematomi e ferite per le percosse della polizia. Il tentativo di farsi curare, anche all’ospedale, era rimasto senza risultato. Infine, con l’aiuto di una persona di Bihac, il giovane che conosciamo era riuscito a farsi curare privatamente, dunque a pagamento. E’ questo l’uomo che ha ora deciso di sporgere regolare denuncia nei confronti della polizia croata. 
Abbiamo appena conosciuto indirettamente un altro caso in cui un rifugiato ha dovuto ricorrere all’impegno di un abitante di Bihac, che lo ha accompagnato al pronto soccorso, pagando di tasca propria. Sembra che l’arrivo dell’IOM come gestore principale della situazione a Bihac non abbia minimamente migliorato la situazione sanitaria.
Il 15 agosto è uscito uscito un duro rapporto di Medici senza frontiere sulla disastrosa situazione sanitaria di Bihac e Kladuša, intitolato: Bosnia: respingimenti, violenze e pessime condizioni umanitarie alla nuova frontiera della rotta balcanica, in cui si paventa un inverno terribile dal punto di vista sanitario (e non solo sanitario, ovviamente!). “La mancanza di una pianificazione coordinata e di una risposta tempestiva in Bosnia-Erzegovina ha creato condizioni inadeguate per migranti e rifugiati, rischiando di peggiorare seriamente la loro sicurezza e la loro salute. Non solo non hanno accesso alle cure mediche, ma non hanno neanche assistenza di base come cibo, riparo, vestiti e servizi igienici”. Se un’organizzazione istituzionale come Medici senza frontiere dice questo vuol dire che la situazione rischia veramente di finire fuori controllo.
Quando, il primo giugno, siamo andati per la prima volta in Bosnia, si parlava pochissimo di questa situazione, eppure ci dicono che c’era più gente di oggi a premere sul confine bosniaco-croato. Adesso la stampa, a partire soprattutto dall’articolo del Guardian del 15 agosto, ha cominciato a parlarne e comincerà anche la televisione. Quando siamo partiti da Bihac, domenica 19, c’erano due giornaliste del fatto quotidiano che intervistavano proprio la famiglia e il rifugiato iraniano che vuol fare denuncia, citati prima; ed era annunciata per lunedì un’inviata dell’Espresso e anche inviati della RAI. Benissimo! Tuttavia, crediamo che questo possa avere un duplice effetto: informare, certamente, ma nello stesso tempo rimuovere in base al noto effetto dei media - a meno che non accada qualcosa d’altro sul piano di una mobilitazione sociale.
A Bihac abbiamo anche incontrato una famigliola iraniana con una bambina di un anno, che seguiamo da tempo. Hanno tentato più volte il ‘game’, anche recentemente.
Ci allontaniamo da Bihac con il ricordo di questa bimbetta graziosa e vivace, che sembra anche serena tra i due genitori affettuosi, nei cui occhi si concentra un’angoscia che sembra non arrivare ancora alla bimba. Vogliono tentare il passaggio un’altra volta.

Good luck!

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