Lorena Fornasir e Gian Andrea
Franchi - Progetto melting pot Europa
Noi siamo dei volontari
indipendenti che vanno in Bosnia, portando fondi raccolti attraverso una rete
di relazioni.
Abbiamo scelto di andare con
denaro liquido, da spendere in loco, non solo per evitare possibili controlli
al confine croato, ma anche per acquistare i beni necessari assieme alle
operatrici attive sul campo, bravissime e competenti, rendicontando poi al centesimo
tutte le spese. Nel caso in cui sul posto manchino alcuni generi necessari, li
acquistiamo nel luogo più vicino: nell’ultimo viaggio, le operatrici di No Name
Kitchen hanno ritenuto opportuno farlo in un grande magazzino di Zagabria
(un’ora e mezzo di auto da Kladuša), soprattutto per tende e scarpe. In certi
casi, come quello di materiale medico, più difficile da trovare nelle
sprovviste farmacie bosniache, provvediamo a rifornirci direttamente in Italia.
Abbiamo constatato più volte che
l’indipendenza ci permette un’agilità conoscitiva in grado di vedere e capire
quello che le associazioni, talvolta, non possono o, soprattutto nel caso di
quelle più istituzionalizzate, anche non vogliono vedere.
Gli aiuti tuttavia sono solo il
mezzo concreto per andare là; il fine è politico.
Andiamo là, certo per dare un
aiuto concreto, ma soprattutto per:
1. conoscere e informare con
tutte le fonti possibili
2. incontrare i migranti,
conoscere le loro condizioni reali, ascoltare le loro storie di viaggi, di
sopravvivenza nei campi, di respingimenti violenti e anche feroci
3. creare reti e flussi di
relazioni fra loro e noi, ritornati al di qua dal confine.
4. Capire quali forme di azione
politica siano agibili, almeno in prospettiva.
Così abbiamo pensato che sarebbe
importante organizzare una marcia noborders, una marcia contro i confini,
portando i nostri corpi da Trieste alla Bosnia: una marcia, ovviamente in
numero politicamente significativo, che attraversi i confini con striscioni,
cartelli, facendosi vedere dalla gente, insomma manifestando nel senso più
preciso e forte della parola, fino in Bosnia (naturalmente non è necessario
fare tutto il percorso a piedi, ma solo nei passaggi e zone simbolicamente più
significative). Non sarà facile, ma non ci sembra un’impresa impossibile,
coinvolgendo anche persone dai paesi vicini come l’Austria, la Slovenia, la
Germania…
Concepiamo il nostro impegno come
una forma di resistenza, secondo il motto che abbiamo letto nel 2014 sui muri
del villaggio palestinese di Atwani: “RESISTERE E’ ESISTERE e ESISTERE E’
RESISTERE”
La parola rapporto implica una
dimensione di freddezza descrittiva molto difficile per chi si trova, sia pure
per pochi giorni a scadenze fisse, immerso in una situazione che appare
inafferrabile in termini descrittivi e atroce dal punto di vista umano. Il
sentimento è quello di sempre: inadeguatezza totale per quello che facciamo.
Rimane forte il desiderio di continuare a stare dentro questa situazione,
accettandone gli inevitabili limiti, mantenendo però, malgrado tutto, una
tensione politica necessaria.
Anche i dati numerici sono
incerti, variabili secondo gli interessi delle fonti. Sul Piccolo di Trieste
del 20 agosto è uscito un trafiletto che dà i numeri del ministro bosniaco
della sicurezza: 10.800 migranti di passaggio da gennaio 2018 al 15 agosto;
oggi 2.300 in forte diminuzione rispetto a luglio.
Questi numeri sono contestati da
una volontaria che collabora con la Croce rossa di Bihac, che abbiamo
interpellato in proposito: “parlare di numeri qui è sempre pericoloso perché i
dati sono poco attendibili… io penso che quelle 10.800 entrate… le calcolino in
base ai fogli bianchi consegnati per stare in Bosnia 14 giorni ‘regolarmente’.
Ma un sacco di gente l’ha fatto due e anche tre volte con nomi diversi, quindi
i numeri sono più alti rispetto alla realtà. Al DOM in questo momento abbiamo
tra le 700 e le 800 persone e questo è l’unico numero certo per Bihac… si
suppone che a Bihac ci siano circa 3.000 persone Dom compreso. Ma non sono
numeri così attendibili”.
Ci viene riferito da fonti
attendibili che nel nuovo centro dell’ex hotel Sedra di Cazin, allestito
recentemente dall’IOM per le famiglie, dove pare siano state alloggiate 100
persone, la struttura sia carente e presenti gravi problemi di approvvigionamento
idrico.
Nel campo profughi di Velika
Kladuša
Al campo di Kladuša ci sono dalle
300 alle 400 persone, più altre in numero piccolo e molto variabile al
cosiddetto ‘hangar’, una cupa struttura metallica che alloggia una piccola
macchina volante, dove però i pasti sono dati solo se avanzano dal campo.
Nell’hangar manca l’acqua che viene portata ogni giorno da No Name Kitchen con
bidoni per circa 800 litri. E’ possibile che ci siano altri rifugiati al di
fuori di queste due postazioni.
In questo nostro quarto viaggio,
ci siamo fermati a Kladuša venerdì pomeriggio e tutto il sabato. A Bihac siamo
andati domenica mattina.
Al campo di Kladuša la situazione
sanitaria presenta apparentemente i ‘soliti’ problemi di scabbia, piccole e
medie ferite; ma danni più gravi per coloro che ritornano respinti dal ‘game’
oltre frontiera. Intervengono medici bosniaci di MSF 3 giorni alla settimana
dalle ore 10 alle 15. Riportiamo un passo del rapporto (datato 15 agosto) di un
medico locale, il dottor Dimitar Anakiev, che sta monitorando attentamente la
situazione:
“Sito inadeguato, livello
igienico molto basso e situazioni di violenza mostrano un rischio sanitario
molto elevato, specialmente durante l’estate. L’alta percentuale relativa di
visite mediche è una dimostrazione della gravità della situazione sanitaria. In
base ai rischi per la salute e ai dati sanitari disponibili, il campo profughi
di Trnovi ha bisogno di 5 giorni di assistenza sanitaria di base permanente con
6-8 ore di controllo sanitario e aiuto (medico più infermiere) e di un
cambiamento immediato della situazione idrica”.
A Kladuša è endemica la
borreliosi di Lyme, di cui sono portatrici le zecche.
Il cibo è offerto da Emmaus, una
volta al giorno. I rifugiati, nella misura in cui se lo possono permettere,
cucinano per conto loro, invitando volentieri chi passa a condividere e
consumare il pasto insieme. C’è inoltre un ristorante che pare offra un pasto
gratuito a un centinaio di rifugiati, della cui gestione cui però non abbiamo
conoscenza diretta. Sappiamo tuttavia da fonti dirette, che SOS Team Kladuša
sta ricevendo dei contributi economici dallo IOM per la gestione di questa
“mensa”.
Come abbiamo già detto nei
precedenti rapporti, a Kladuša intervengono No name kitchen, i cui otto
volontari si alternano nel giro di qualche mese sotto il coordinamento di una
volontaria che rimane più a lungo, e SOS team Kladuša, associazione locale, che
si dividono i compiti di gestione del campo, in cui c’è sempre un custode del
comune e una macchina della polizia, peraltro tranquilla.
No name kitchen raccoglie inoltre
le testimonianze dei feriti che ritornano respinti dalla polizia della Croazia
e compila rapporti regolari, che invia ad Are You Syrious.
Rispetto alle nostre precedenti
visite, il campo appare più strutturato, con tende più grandi e numerose,
costruite con grandi teli. Ci sono più fonti d’acqua, con sei gabinetti chimici
le cui condizioni è facile immaginare, non essendo puliti regolarmente: le
donne infatti preferiscono andare nel bosco. Il campo è illuminato tramite un
generatore che ora funziona solo per un’ora e talora anche meno, mentre prima
garantiva elettricità per più ore. Ci sono sempre poi, poco distanti, nel
recinto dell’ex macello, le tre docce in cui vanno a giorni alterni dalle 10
alle 14 le donne e i bambini (tre giorni) e gli uomini. Per le donne è stata
predisposta una bombola di gas che riscalda l’acqua.
Per quest’inverno si pensa di
ottenere sempre acqua calda con una bombola di gas.
Sul capitolo inverno, però, assai
duro a Kladuša e in tutta la Bosnia, il destino di questo campo improvvisato è
tutto da vedere.
Al di là di questi dati sommari,
nel campo incontriamo persone: donne, bambini, famiglie - storie. Abbiamo
assistito, venerdì sera, alla partenza per il ‘game’ di due famiglie iraniane
con bambini piccoli. C’è la tensione di una difficile eppur forte speranza. Si
legge nei volti, nell’atteggiamento dei corpi - quelli maschili gravati da
zaini pesanti: devono sopravvivere, infatti, almeno per 14 giorni (è questo il
tempo medio per arrivare in Italia). Sono tutti lì per partire, pur sapendo che
diventa sempre più difficile valicare tre confini; e oggi anche in Italia si
può essere respinti, magari con il trucco dei due chilometri dalla frontiera.
Abbiamo ritrovato una di queste
famiglie il giorno dopo di nuovo al campo: la donna, madre di una bimba di
pochi anni, ci ha mostrato il piede piagato che l’ ha costretta a desistere.
Per ora.
Domenica a Bihac, un’altra donna,
non tanto giovane, reduce dal ‘game’, ci ha mostrato le vistose tracce delle
manganellate croate sulle sue braccia.
Su questa storia delle violenze e
non solo, anche dei furti di denaro e di cellulari, da parte della polizia
croata, cioè su abusi gravissimi rispetto alle leggi esistenti, bisognerebbe
fare qualcosa coinvolgendo settori responsabili dell’avvocatura. La questione
legale è molto complicata perché riguarda almeno due paesi: Croazia e Bosnia.
Conosciamo un rifugiato iraniano a Bihac che vuole fare denuncia esponendosi in
prima persona. Lui ci ha descritto con precisione la tecnica croata dei
pestaggi, con il passaggio dai poliziotti che li hanno arrestati, che
presumibilmente firmeranno i verbali dell’arresto, a un altro gruppo, in un
altro luogo più remoto. E’ questo secondo che esegue il pestaggio (che sia
ormai un metodo della polizia croata ci è confermato anche da un rapporto di
Ospiti in arrivo di Udine, che lo ha raccolto da altra fonte).
Una donna colpita dalla polizia
croata vicino al cosiddetto Dom di Bihac
Questa volta abbiamo deciso di
investire la quasi totalità del denaro raccolto a Kladusha, essendo la
situazione a Bihac ormai controllata dall’IOM. Abbiamo acquistato in Italia
parafarmaci, disinfettanti, bende, che abbiamo consegnato a No name kitchen,
perché in Bosnia difficilmente si trovano in una certa quantità. Sabato, con due loro volontari,
siamo andati in un grande magazzino di Zagabria per comprare tende, scarpe (che
sono state date a SOS team Kladusha, in base alla divisione dei compiti fra le
due associazioni operanti a Kladusha), biancheria e simili. Il viaggio con i due volontari
spagnoli di No name ha consentito uno scambio più disteso sulle nostre diverse
esperienze. Dialogando con loro, abbiamo avuto la viva impressione
dell’esistenza nel mondo di una diffusa società solidale, certo estremamente
minoritaria, ma viva e desiderosa di vivere, dispersa però in mille rivoli, con
limitate possibilità di scambio e d’incontro. Manca soprattutto un
coordinamento stabile che tenga conto anche delle differenze, capace di
collegare senza omologare. Ci sembra questo il grande problema politico e
sociale dei nostri tempi. In queste condizioni, l’impegno di tanta gente tende
a declinare nell’assistenzialismo, mentre, forse, contiene la potenzialità di
embrioni di società alternativa a questa in cui viviamo, che cerca il denaro
come le zecche il sangue.
Sabato mattina e nel primo
pomeriggio, al campo di Kladuša è intervenuto un piccolo gruppo, anzi una
famiglia di 4 persone, di operatori artistici romani. Hanno dipinto, insieme ai
rifugiati, piccoli e grandi, un lunghissimo striscione colorato su cui
campeggiava la scritta in inglese: tutti gli esseri umani nascono liberi e
uguali. Il senso dell’intervento sta ovviamente nel creare un momento di
comunicazione collettiva attraverso il fare-insieme, attraente soprattutto per
i bambini, ma alla fine per tutti. Alcuni giorni prima c’era stata al campo
un’esperienza analoga con la Carovana artistica di Udine.
Sarebbe essenziale creare molti
momenti di scambio collettivo come questi per togliere i rifugiati da
un‘inattività che può essere a lungo molto pericolosa, anche perché tende a
rinchiudere nelle divisioni etniche e religiose. A Kladuša, nel nostro secondo
viaggio, abbiamo incontrato un ragazzo pakistano, cattolico, che era veramente
preoccupato per essere il solo cattolico in un campo di musulmani: per fortuna
lo abbiamo ritrovato qualche giorno fa a Trieste dopo un viaggio di 25 giorni!
Stando nel campo, si capisce
anche come il desiderio di tentare il pericoloso ‘game’ con la feroce polizia
croata abbia una presa così forte, anche su famiglie con bambini piccoli: è
comunque un profondo desiderio di vivere, il solo che può dar senso al
sopravvivere in un campo. Molti riescono ancora a passare.
Al di là delle singole storie,
questo è un messaggio politico per tutti noi.
A Bihac, la città sullo splendido
fiume Una, che trova la sua voce nel bel libro di Faruk Sehic (Il mio fiume),
la situazione è gestita, come ormai è noto, dall’IOM e in subordine dalla Croce
rossa. Nel Dom, dove ci dicono che attualmente sopravvivono circa 800 persone,
non si può entrare senza permesso. L’altro grande edificio in rovina, vicino al
fiume, che era stato sgomberato dalla polizia, dopo gravi incidenti, dovuti
alla pericolosità della struttura, sta poco a poco ripopolandosi.
Parlando con i rifugiati in giro
nei dintorni, la situazione non appare diversa dall’ultima volta che vi siamo
entrati: si lamentano del cibo e dell’assistenza medica inadeguata.
L’impressione è che vi sia un atteggiamento burocratico e poco attivo da parte
di chi dovrebbe occuparsene. Ne abbiamo due esempi diversi.
Il primo: in una casa abbandonata
vicino al Dom vivono una famiglia irachena con quattro figli, di cui uno di
circa un anno, e due o tre africani. Costoro sono abbandonati a se stessi,
malgrado siano a due passi dal Dom. Ad es., il bambino piccolo è nudo perché
non ha pannolini. La madre ha esibito una ricetta medica greca (!), chiedendo
un medicamento per qualcosa che non abbiamo capito. La casetta è sulla strada,
visibile a tutti: possibile che nessuno si sia accorto? Sono stati loro stessi
a chiamarci…
Una bambina dentro il Dom di
Bihac
Temiamo che l’arrivo dell’IOM, se
può garantire una maggior continuità dell’intervento, assuma tuttavia una
caratteristica burocratica, più preoccupata delle carte in regola che delle
persone.
L’altro esempio riguarda un
iraniano che ormai conosciamo bene, che ha tentato il ‘game’ ben 17 volte,
venendo sempre respinto, anche perché, più che badare a se stesso, si era fatto
carico di aiutare famiglie e gruppi. L’ultima volta, dopo la cattura della
polizia croata anche per l’inadempienza o l’insufficienza del passeur cui si
era rivolto, sono stati ricacciati in Bosnia lui e due amici, con gravi ematomi
e ferite per le percosse della polizia. Il tentativo di farsi curare, anche
all’ospedale, era rimasto senza risultato. Infine, con l’aiuto di una persona
di Bihac, il giovane che conosciamo era riuscito a farsi curare privatamente,
dunque a pagamento. E’ questo l’uomo che ha ora deciso di sporgere regolare
denuncia nei confronti della polizia croata.
Abbiamo appena conosciuto
indirettamente un altro caso in cui un rifugiato ha dovuto ricorrere
all’impegno di un abitante di Bihac, che lo ha accompagnato al pronto soccorso,
pagando di tasca propria. Sembra che l’arrivo dell’IOM come gestore principale
della situazione a Bihac non abbia minimamente migliorato la situazione
sanitaria.
Il 15 agosto è uscito uscito un
duro rapporto di Medici senza frontiere sulla disastrosa situazione sanitaria
di Bihac e Kladuša, intitolato: Bosnia: respingimenti, violenze e pessime
condizioni umanitarie alla nuova frontiera della rotta balcanica, in cui si
paventa un inverno terribile dal punto di vista sanitario (e non solo
sanitario, ovviamente!). “La mancanza di una pianificazione coordinata e di una
risposta tempestiva in Bosnia-Erzegovina ha creato condizioni inadeguate per
migranti e rifugiati, rischiando di peggiorare seriamente la loro sicurezza e
la loro salute. Non solo non hanno accesso alle cure mediche, ma non hanno
neanche assistenza di base come cibo, riparo, vestiti e servizi igienici”. Se
un’organizzazione istituzionale come Medici senza frontiere dice questo vuol
dire che la situazione rischia veramente di finire fuori controllo.
Quando, il primo giugno, siamo
andati per la prima volta in Bosnia, si parlava pochissimo di questa
situazione, eppure ci dicono che c’era più gente di oggi a premere sul confine
bosniaco-croato. Adesso la stampa, a partire soprattutto dall’articolo del
Guardian del 15 agosto, ha cominciato a parlarne e comincerà anche la
televisione. Quando siamo partiti da Bihac, domenica 19, c’erano due
giornaliste del fatto quotidiano che intervistavano proprio la famiglia e il
rifugiato iraniano che vuol fare denuncia, citati prima; ed era annunciata per
lunedì un’inviata dell’Espresso e anche inviati della RAI. Benissimo! Tuttavia,
crediamo che questo possa avere un duplice effetto: informare, certamente, ma
nello stesso tempo rimuovere in base al noto effetto dei media - a meno che non
accada qualcosa d’altro sul piano di una mobilitazione sociale.
A Bihac abbiamo anche incontrato
una famigliola iraniana con una bambina di un anno, che seguiamo da tempo.
Hanno tentato più volte il ‘game’, anche recentemente.
Ci allontaniamo da Bihac con il
ricordo di questa bimbetta graziosa e vivace, che sembra anche serena tra i due
genitori affettuosi, nei cui occhi si concentra un’angoscia che sembra non
arrivare ancora alla bimba. Vogliono tentare il passaggio un’altra volta.
Good luck!
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