Chiara Spadaro- Altreconomie
31 Agosto 2018
31 Agosto 2018
Un “presidio pacifico” fisso, da
questa mattina fino a martedì 28 agosto davanti al Tribunale di Vicenza, per
fare “pressione nei confronti della Procura” e chiedere nuovamente “la chiusura
dell’azienda Miteni” di Trissino (VI) -responsabile dello sversamento
nell’acqua dei composti chimici perfluoroalchilici (Pfas)-, “il risarcimento
dei danni” e “la bonifica dell’area” inquinata. Lo organizza il movimento No
Pfas che anche quest’estate è stato attivo per tenere alta l’attenzione sul
grave inquinamento della falda tra le province di Vicenza, Verona e Padova.
“Ormai la Procura ha tutti gli
elementi per aprire un procedimento giudiziario nei confronti della Miteni e di
tutti coloro che a vari livelli di responsabilità hanno consentito per anni che
un inquinamento di immani dimensioni contaminasse tre Province della nostra
Regione”, sottolineano l’associazione Cillsa (Cittadini per il lavoro, la
legalità, la salute e l’ambiente) e il comitato Zero Pfas Agno Chiampo, che
saranno presenti al presidio. E chiedono “l’intervento immediato” dei ministeri
dell’Ambiente, della Sanità e della Giustizia, “affinché le indagini in corso
vengano portate a completamento entro il più breve tempo possibile”, siano
“individuati, puniti e rimossi i responsabili” e sia bonificato “tutto il
territorio”.
Proprio il ministero
dell’Ambiente si era pronunciato sulla vicenda a inizio agosto, annunciando la
volontà di “riesaminare i valori limite allo scarico per i Pfas e per altre
sostanze chimiche”. “Siamo di fronte a un’emergenza che va affrontata con tutti
gli strumenti a nostra disposizione, tra cui il tavolo esteso a tutte le
Regioni, le quali hanno competenza sui valori limite di queste sostanze negli
scarichi”, aveva affermato il ministro Sergio Costa.
Pochi giorni prima, i rappresentanti
di Legambiente nazionale, del circolo “Perla Blu” di Cologna Veneta (VR) e
della Rete dei Gruppi d’acquisto solidale vicentini erano stati ricevuti a Roma
dal capo della Segreteria tecnica del ministero della Salute, Giuseppe Amato,
dal direttore generale della Prevenzione sanitaria, Claudio D’Amario, e dal
direttore del reparto di Igiene delle acque interne dell’Istituto superiore di
sanità, Luca Lucentini. Ai tecnici hanno consegnato una relazione sulle
criticità sanitarie ancora irrisolte rispetto all’inquinamento dovuto ai Pfas.
“Durante l’incontro abbiamo
denunciato la mancanza di allacciamenti sicuri per gli acquedotti -racconta
Piergiorgio Boscagin, presidente del circolo ‘Perla blu’ di Legambiente-. Per
realizzare delle condotte sicure servono almeno quattro anni di lavori: se
iniziassero subito, a lavori finiti saranno passati nove anni dalla scoperta
dell’inquinamento. Non abbiamo ancora informazioni precise sul grado di
contaminazione delle acque superficiali e dei prodotti agricoli: abbiamo
chiesto che siano fatti maggiori controlli sulle fonti irrigue. E che sia
portato avanti un lavoro di sensibilizzazione della popolazione, ma anche dei
medici di base”. La delegazione ha anche chiesto l’appoggio del ministero per
la messa al bando della produzione e dell’uso di tutte le sostanze
perfluoroalchiliche e l’estensione dello screening sanitario alla “zona
arancio” (ne abbiamo scritto sul numero 206 di Altreconomia).
“Alla fine dell’incontro ho
lasciato un omaggio simbolico -dice Marzia della ReteGas vicentina-: un
pacchetto di farina di frumento coltivato in un campo dell’ovest vicentino,
inquinato da più di 40 anni. Ci hanno rubato l’acqua e ora anche il pane. Ma
noi continuiamo a fare pressione perché si raggiunga l’obiettivo ‘Pfas zero’, a
chiedere che chi è responsabile dell’inquinamento paghi e anche a proporre
delle alternative al consumo di prodotti contenenti Pfas da filiere pulite e
virtuose”, sottolinea. La delegazione No Pfas ricevuta al ministero della
Salute ha ottenuto la promessa di una nuova convocazione in settembre, in un
incontro congiunto con il ministero dell’Ambiente.
Anche la Regione Veneto si è
mossa a inizio agosto, quando la Commissione d’inchiesta sull’inquinamento da
Pfas -presieduta dal consigliere regionale del Movimento 5 Stelle, Manuel
Brusco- ha portato in Consiglio la relazione finale di 447 pagine, approvata a
maggioranza. Brusco è stato anche il primo firmatario della risoluzione 88
(“Inquinamento da sostanze perfluoroalchiliche (Pfas) in Veneto, contaminazione
da Pfas della popolazione, esposizione occupazionale e contaminazione dei
lavoratori di Miteni spa”), votata all’unanimità, che impegna la Giunta
regionale ad assumere un ruolo di coordinamento nel completamento dell’indagine
per la bonifica del sito industriale della Miteni spa, “valutando l’ipotesi di
chiusura del sito”. La risoluzione prevede anche la realizzazione di una nuova
rete di acquedotti “che garantisca l’approvvigionamento alternativo di acqua
destinata al consumo umano”; la predisposizione di un piano irriguo per
“garantire l’adeguata portata d’acqua priva di Pfas al settore agricolo”;
l’analisi sulla presenza di sostanze chimiche degli scarichi industriali e
delle discariche; la stesura di un piano industriale per sostituire i Pfas
nelle produzioni; l’estensione dello screening “ad ogni fascia d’età e a
particolari sottogruppi a rischio più elevato”; la salvaguardia “della salute e
del diritto sociale al lavoro dei lavoratori” della Miteni e un confronto con
il Governo per fissare i limiti normativi sulle sostanze perfluoroalchiliche
nell’acqua destinata al consumo umano.
Intanto, a fine luglio, era stato
pubblicato il sesto rapporto regionale sull’andamento del “Piano di
sorveglianza sanitaria sulla popolazione esposta a Pfas”, che elabora gli esiti
delle analisi del sangue di 13.856 residenti nella “zona rossa”, nati tra il
1973 e il 2002. Il Piano di sorveglianza, avviato nel dicembre 2016,
raggiungerà i residenti nati tra il 1951 e il 2002 dei 30 Comuni dell’area di
massima esposizione all’inquinamento da Pfas, “secondo un ordine di età
anagrafica crescente, ad esclusione dei soggetti nati tra il 2003 al 2014”, per
i quali si prevede una chiamata successiva.
“I soggetti già invitati sul
totale delle persone da invitare sono il 39,8%; quelli che hanno aderito alla
chiamata e si sono presentati alla visita sono il 60%”, si legge nel bollettino
regionale. E sono 7.716 (pari al 56%) “le persone alle quali è stato indicato
di iniziare un percorso di approfondimento (di secondo livello) prenotando una
visita presso l’ambulatorio internistico e quello cardiovascolare”.
“Mantenendo questa frequenza di
chiamata della popolazione per lo screening, a essere ottimisti servirà ancora
un anno e mezzo per concludere il monitoraggio e poi servirà un altro periodo
per l’elaborazione dei dati”, osserva Francesco Bertola, medico della sezione
Isde (International Society of Doctors for the Environment) di Vicenza. “Questa
variabile temporale ci interessa perché solo quando si avranno le conclusioni
del monitoraggio regionale “si potranno finalmente produrre conclusioni
scientificamente valide sulla responsabilità dei Pfas nel determinare le
patologie osservate. Attualmente il 56% della popolazione esaminata in questo
piano di monitoraggio (7.716 su 13.856), presenta delle alterazioni sotto il
profilo metabolico, endocrinologico o renale nelle analisi eseguite, e per
questo viene inviata ad un percorso sanitario di secondo livello, di
approfondimento. Questi numeri sono di gran lunga superiori a quelli che la
stessa Regione ipotizzava nella Dgr 851/2017, in cui istituiva gli ambulatori di
secondo livello, e questo ci può dare un’idea di quanto sia grave sul piano
sanitario questa contaminazione”.
Così i tempi si allungano e
l’inquinamento si aggrava. Sono 12 le sostanze Pfas monitorate, ma i composti
rinvenuti in più del 50% della popolazione sono quattro: Pfoa, Pfos, PfhxS e
Pfna. “Si confermano le differenze per genere (le donne hanno concentrazioni
mediane più basse rispetto ai maschi, ndr) e per zona di residenza -spiega
Bertola-. I residenti nell’area rossa A presentano concentrazioni più elevate
dei residenti nell’area rossa B”. Precisamente, come si legge nel report della
Regione, “le concentrazioni mediane di Pfoa e PfhxS nell’area rossa A (54,3
ng/ml e 4,5 ng/ml rispettivamente) risultano quasi doppie rispetto a quelle
dell’area rossa B (35,3 ng/ml e 2,8 ng/ml rispettivamente). Più contenuta la
differenza per quanto riguarda il Pfos (4,3 ng/ml nell’Area A e 3,3 ng/ml nella
B)”.
“La differenza è dovuta al fatto
che nella zona rossa A sia l’acquedotto che la falda sono inquinate; nella zona
rossa B, invece, l’inquinamento ha coinvolto solo la rete acquedottistica
-spiega Bertola-. Ma la novità più rilevante sta nel fatto che per la prima
volta abbiamo dei dati suddivisi per anni di residenza trascorsi nell’area
inquinata ed emerge chiaramente che le concentrazioni di Pfas nel sangue
aumentano con il passare del tempo nell’area contaminata, essendo sostanze
bioaccumulabili”. E in questo ultimo bollettino si accenna anche a un altro
grande tema: quello dell’inquinamento lungo la catena alimentare. Osservando i
dati sulla correlazione tra la concentrazione di Pfas nel sangue e l’uso di un
orto per la produzione di alimenti ad autoconsumo, si osserva un cambiamento a
seconda del tipo di irrigazione usata per gli ortaggi -tramite l’acquedotto o
il pozzo- e l’area di residenza. “I dati confermano i criteri di
classificazione delle aree rosse A e B, con valori maggiori nell’area rossa A
per chi consuma ortaggi irrigati con acqua di pozzo e viceversa per i residenti
nell’area rossa B, dove l’inquinamento coinvolgeva la sola rete
acquedottistica”, si legge.
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