Kuperwasser,
tuttavia, afferma che la minaccia posta dal BDS è molto reale e che ignorarla o
trattarla come una seccatura sarebbe un fallimento.
Nathan Thrall, Invicta Palestina
27 agosto 2018
Il movimento di Boicottaggio,
Disinvestimento e Sanzioni fu fondato con una dichiarazione di principi, nota
come BDS Call, il 9 luglio 2005. Rappresentava una sorta di ultima risorsa. I
Palestinesi erano stati schiacciati dalla sconfitta militare della seconda
intifada. L’incarnazione vivente del movimento nazionale palestinese, Yasser
Arafat, era morto. Il suo sostituto appena installato, Mahmoud Abbas, era
identificato più di ogni altro Palestinese con il processo di pace di Oslo.
Sebbene la leadership di Abbas sembrasse offrire una tregua dalla violenza, era
anche un ritorno alla strategia di diplomazia e cooperazione che aveva fatto
ben poco per porre fine all’occupazione. L’unica possibilità per far pressione
su Israele e dare ai palestinesi la libertà, doveva venire dal basso e
dall’esterno.
La chiamata al BDS è stata fatta
in occasione del primo anniversario di un parere consultivo storico della Corte
di Giustizia Internazionale. La Corte stabilì che la barriera di separazione di
Israele era illegale, che Israele doveva smantellarla “immediatamente” e
offrire risarcimenti a coloro che aveva danneggiato, e che ogni firmatario
della quarta convenzione di Ginevra – ovvero quasi tutti gli Stati del mondo –
avevano l’obbligo di assicurarsi che Israele si conformasse al diritto
umanitario internazionale. Ma Israele ignorò la sentenza, E né l’OLP né la
comunità internazionale fecero un vero tentativo di far rispettare la decisione
della Corte. Ingrid Jaradat, un membro fondatore della campagna BDS, mi ha
detto: “Se ci fosse stata un’azione da parte della comunità internazionale per
attuare la sentenza della Corte Internazionale di Giustizia, non ci sarebbe
stata una chiamata al BDS”.
Più di 170 organizzazioni
palestinesi dei territori occupati, di Israele e della diaspora appoggiarono
l’appello del BDS. Abbracciavano tutto lo spettro politico – sinistra e
islamisti, sostenitori dei due Stati e di uno. Vi era il Palestinian National and
Islamic Forces – l’organo di coordinamento per ogni partito politico
significativo – così come i principali sindacati, i gruppi di rifugiati, le
associazioni di prigionieri, i centri artistici e culturali e i gruppi di
resistenza nonviolenta, tra cui il Trust di Terra Santa di Sami Awad. Ventinove
di queste entità ora formano il Comitato Nazionale BDS, o BNC, il consiglio
direttivo.
La principale innovazione del BDS
non era nella tattica che sosteneva: le campagne di boicottaggio e
disinvestimento erano già intense nel 2005, e persino le sanzioni e gli
embarghi sulle armi erano stati proposti in precedenza, incluso all’assemblea
generale delle Nazioni Unite. La novità del BDS fu la messa in atto di campagne
diverse per fare pressioni su Israele unendole attorno a tre richieste chiare,
una per ogni componente principale del popolo palestinese.
In primo luogo, la libertà per i
residenti dei territori occupati;
secondo, l’uguaglianza per i
cittadini palestinesi di Israele;
e in terzo luogo, la giustizia
per i rifugiati palestinesi nella diaspora – il gruppo più numeroso – compreso
il diritto di tornare alle loro case.
L’appello del BDS fu una sfida
non solo per Israele, ma anche per la leadership palestinese. Rappresentava una
riprogettazione concettuale della lotta nazionale, più in linea con le
posizioni originarie dell’OLP prima che questa fosse stata forzata dalla
sconfitta militare, dalla pressione internazionale e dal pragmatismo politico
ad abbandonare l’obiettivo di un singolo Stato democratico e ad accettare
invece la soluzione dei due Stati. Le potenze mondiali avevano proposto ai
Palestinesi la soluzione dei due Stati come se fosse un dono. Ma per i
Palestinesi, il dono era chiaramente per Israele, giacché i Palestinesi, il
popolo indigeno, avrebbero dovuto cedere il 78% della sua terra. Alla fine del
XIX secolo, agli albori del Sionismo, gli Arabi costituivano oltre il 90% della
popolazione, e oltre i due terzi nel 1948, prima della Nakba. Quell’anno, il
territorio di quello che sarebbe diventato Israele fu svuotato dell’80% dei
suoi abitanti palestinesi, che furono quindi impossibilitati a tornare alle
loro case. L’OLP fu fondata circa sedici anni dopo, nel 1964, prima dell’occupazione israeliana della Cisgiordania
e di Gaza. L’obiettivo principale della lotta palestinese era quindi stato la
liberazione dell’intera patria e il ritorno dei suoi abitanti originari.
Tuttavia, con la prima intifada e
l’accordo di Oslo del 1993 che vi pose fine, molti Palestinesi erano pronti ad
accettare la formula dei due stati, non perché fosse considerata giusta, ma
perché era il massimo che potevano sperare di ottenere. Mentre emergevano i
dettagli delle varie proposte di pace, l’accordo sembrava sempre più
spregevole. I Palestinesi avrebbero dovuto rinunciare non solo al 78% della
loro terra natia, ma anche alla terra occupata illegalmente dai principali
insediamenti israeliani all’interno dei territori occupati. Avrebbero dovuto
rinunciare alla sovranità di gran parte della Gerusalemme Est occupata, la loro
futura capitale, e della Città Vecchia, che rientra interamente al suo interno.
Avrebbero dovuto acconsentire al fatto che qualsiasi trattato di pace non
avrebbe mai permesso il ritorno della maggior parte dei Rifugiati nelle loro
case. Avrebbero dovuto rinunciare a qualsiasi richiesta nei confronti di
Israele – inclusa quella per ottenere uguali diritti per i suoi cittadini
palestinesi, che erano oltre un quinto della popolazione. E in cambio avrebbero
ottenuto uno Stato formato dalla Cisgiordania e da Gaza che i primi ministri
israeliani, da Yitzhak Rabin a Benjamin Netanyahu, hanno sempre descritto come
uno “stato-minus” o “un’entità che è meno di uno stato”.
Durante i negoziati con Israele,
l’OLP aveva acconsentito a ciascuna di queste condizioni, anche se poche, anzi
nessuna di esse era sostenuta dal diritto internazionale. Quando anche questi
accordi alla fine si rivelarono insufficienti per ottenere la fine
dell’occupazione, un numero crescente di Palestinesi iniziò a inasprirsi
rispetto all’idea dei due Stati. Non solo gli accordi originali erano stati
erosi a tal punto da diventare irriconoscibili, ma anche la versione ridotta
era diventata un miraggio.
All’epoca della chiamata al BDS,
l’occupazione israeliana della Cisgiordania e di Gaza aveva quasi quarant’anni
e non mostrava segni di scomparsa. Da Oslo, il numero di coloni nel 2005 era
quasi raddoppiato. Molti di loro non abitavano in roulotte in collina, ma in
città con centri commerciali, parchi, piscine pubbliche e autostrade a più
corsie che li collegavano senza problemi a Israele. L’idea di eliminare persino
un terzo di questa popolazione in costante crescita non era considerata
plausibile. Gli Stati Uniti e altre potenze fecero poco più che rilasciare
qualche ammonizione. Promisero ai Palestinesi che la situazione si sarebbe
presto conclusa con la fondazione di uno Stato indipendente.
Nel tempo, la soluzione dei due
Stati divenne uno slogan svuotato di
significato. Quanto meno sembrava realizzabile, tanto più forte era
declamata. Come si poteva immaginare, le
maggiori potenze mondiali rifiutarono di esigere da Israele la concessione
della cittadinanza e la parità di diritti ai Palestinesi residenti al suo
interno. Il concetto dei due Stati fu così trasformato da una possibile
soluzione all’occupazione israeliana al principale pretesto per privare i
Palestinesi dell’uguaglianza. Costituiva anche la scusa di base per lasciare in
esilio la maggioranza dei Palestinesi: al fine di preservare la maggioranza
ebraica di Israele, i Rifugiati avrebbero dovuto languire nei campi al di fuori
dei suoi confini finché non ci fosse stata una nazione palestinese in grado di
assorbirli.
Il movimento BDS offrì un’alternativa.
Si rifiutava di parlare di soluzioni fittizie, sia di due Stati sia di uno. Il
problema fondamentale, a suo avviso, non era nel decidere quale tipo di accordo
dovesse sostituire il sistema attuale; il problema era costringere Israele a
cambiarlo del tutto. Discutere di uno o di due Stati equivaleva a contare gli
angeli sulla punta di uno spillo, fintanto che Israele era troppo a suo agio
nell’occupazione perpetua per pronunciarsi a favore di uno dei due.
La risposta di Israele al BDS è
stata lenta ad arrivare, ma potente. Yossi Kuperwasser, soprannominato Kuper,
guidò gli sforzi del governo israeliano contro il movimento BDS fino al 2014.
Ora lavora per il Jerusalem Center for Public Affairs, un gruppo di esperti
conservatori diretto da Dore Gold, un ex ambasciatore israeliano all’ONU e
confidente di lunga data del primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu.
Kuperwasser, capelli corti, voce roca e l’abitudine israeliana di riempire le
pause con un brutto “ehh”, è un interlocutore coinvolgente ed enfatico. Parla
un buon arabo, così come sua moglie Tsionit (“sionista” in ebraico), nata in
Israele da genitori Ebrei iracheni. Kuper è stato a capo della prestigiosa
divisione di ricerca dell’intelligence militare durante la seconda intifada e
nel 2009 è stato nominato direttore generale del Ministero degli affari
strategici.
È stato Kuperwasser a trasformare
il ministero nel centro di comando israeliano per quella che chiama la
battaglia contro il BDS. Iniziò il lavoro subito dopo la guerra di Gaza del 2008-2009,
che uccise 13 Israeliani e circa 1.400 Palestinesi, portando l’attività del BDS
a nuovi livelli. Nel settembre 2009, l’immagine internazionale di Israele
ricevette un duro colpo dal rapporto dell’ONU sulla guerra, elaborato da una
missione d’inchiesta guidata dall’eminente giurista sudafricano Richard
Goldstone. Il rapporto denunciò che Israele e gruppi armati palestinesi avevano
commesso crimini di guerra e che Israele aveva condotto “attacchi deliberati
contro i civili” con “l’intenzione di diffondere il terrore”. Affermò anche che il blocco di Gaza – “la
serie di atti che privano i Palestinesi … dei loro mezzi di sussistenza,
occupazione, alloggio e acqua, che negano loro la libertà di movimento e il loro
diritto di uscire ed entrare nel proprio Paese” – costituivano un possibile
crimine contro l’umanità.
Kuperwasser disse che fu il
rapporto Goldstone a mettere in allarme Israele sulla natura grave della
minaccia rappresentata da quella che definì “delegittimazione”. Alla fine del
2009, Netanyahu identificò la delegittimazione come una delle tre gravi minacce
a Israele, insieme al programma nucleare iraniano e alla proliferazione di
missili e razzi a Gaza e in Libano. Da allora, è diventato normale sentire che
alti politici israeliani descrivono il BDS e la delegittimazione come una
minaccia “esistenziale” o “strategica”.
Alcuni dei commentatori
israeliani di centrosinistra che si oppongono al BDS, hanno una visione
piuttosto cinica della campagna internazionale del governo contro il BDS.
Credono che sia guidato principalmente dalla politica interna. Sottolineano
che, dalla fondazione del BDS, 13 anni fa, il commercio estero di Israele è in
realtà aumentato e i suoi rapporti diplomatici con l’India, la Cina, gli Stati
africani e persino con il mondo arabo sono cresciuti. Molti commentatori
israeliani affermano che il movimento BDS e i politici israeliani sia di
sinistra che di destra lavorano in simbiosi: la sinistra israeliana avverte che
il BDS e la delegittimazione causeranno uno “tsunami diplomatico”
internazionale contro Israele; la destra israeliana fa il suo solito allarmismo
sulle minacce esterne al fine di aumentare il sostegno in patria e all’estero.
Il movimento BDS, nel frattempo, evidenza con entusiasmo ogni affermazione
iperbolica israeliana come prova del suo successo.
Kuperwasser, tuttavia, afferma
che la minaccia posta dal BDS è molto reale e che ignorarla o trattarla come
una seccatura sarebbe un fallimento: “Fino al 2010, abbiamo seguito questa
politica, e i risultati non sono stati buoni.” L’errore fondamentale, ha
aggiunto, è stato misurare l’impatto del BDS in termini di commercio
israeliano. La questione centrale non è se ci boicotteranno o non ci
boicotteranno”, ha detto Kuperwasser. “La questione centrale è se avranno
successo nell’introdurre nel dibattito internazionale la tesi che Israele è
illegittimo come stato ebraico”.
Trad: Grazia Parolari “contro
ogni specismo, contro ogni schiavitù”
Invictapalestina.org
Fonte:
https://www.theguardian.com/news/2018/aug/14/bds-boycott-divestment-sanctions-movement-transformed-israeli-palestinian-debate
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