Manlio Dinucci – Comitato
promotore della campagna #NO GUERRA #NO NATO
31 Agosto 2018
31 Agosto 2018
«L’immagine è davvero apocalittica, sembra che una
bomba sia caduta sopra questa importantissima arteria»: così un giornalista ha
descritto il ponte Morandi appena crollato a Genova, stroncando la vita di
decine di persone.
Parole che richiamano alla mente altre immagini,
quelle dei circa 40 ponti serbi distrutti dai bombardamenti Nato del 1999, tra
cui il ponte sulla Morava meridionale dove due missili colpirono un treno
facendo strage dei passeggeri.
Per 78 giorni, decollando soprattutto dalle basi
italiane fornite dal governo D’Alema, 1100 aerei effettuarono 38 mila sortite,
sganciando 23 mila bombe e missili. Furono sistematicamente smantellate le
strutture e infrastrutture della Serbia, provocando migliaia di vittime tra i
civili.
Ai bombardamenti parteciparono 54 aerei italiani,
che effettuarono 1378 sortite, attaccando gli obiettivi stabiliti dal comando
statunitense. «Per numero di aerei siamo stati secondi solo agli Usa. L’Italia
è un grande paese e non ci si deve stupire dell’impegno dimostrato in questa
guerra», dichiarò D’Alema.
Nello stesso anno in cui partecipava alla
demolizione finale dello Stato jugoslavo, il governo D’Alema demoliva la
proprietà pubblica della Società Autostrade (gestore anche del ponte Morandi),
cedendone una parte a un gruppo di azionisti privati e quotando il resto in
Borsa.
Il ponte Morandi è crollato fondamentalmente per
responsabilità di un sistema incentrato sul profitto, lo stesso alla base dei
potenti interessi rappresentati dalla Nato.
L’accostamento tra le immagini del ponte Morandi
crollato e dei ponti serbi bombardati, che a prima vista può apparire forzato,
è invece fondato. Anzitutto, la scena straziante delle vittime sepolte dal
crollo ci dovrebbe far riflettere sulla orrenda realtà della guerra, fatta
apparire dai grandi media ai nostri occhi come una sorta di wargame, con il
pilota che inquadra il ponte e la bomba teleguidata che lo fa saltare in aria.
In secondo luogo ci dovremmo ricordare che la
Commissione europea ha presentato il 28 marzo un piano d’azione che prevede il
potenziamento delle infrastrutture della Ue, ponti compresi, non però per
renderle più sicure per la mobilità civile ma più idonee alla mobilità militare
(v. il manifesto, 3 aprile 2018).
Il piano è stato deciso in realtà dal Pentagono e
dalla Nato, che hanno richiesto alla Ue di «migliorare le infrastrutture civili
così che siano adattate alle esigenze militari», in modo da poter muovere con
la massima rapidità carri armati, cannoni semoventi e altri mezzi militari
pesanti da un paese europeo all’altro per fronteggiare «l’aggressione russa».
Ad esempio, se un ponte non è in grado di reggere il
peso di una colonna di carrarmati, dovrà essere rafforzato o ricostruito.
Qualcuno dirà che in tal modo il ponte diverrà più sicuro anche per i mezzi
civili. La questione non è però così semplice. Tali modifiche verranno
effettuate solo sulle tratte più importanti per la mobilità militare e l’enorme
spesa sarà a carico dei singoli paesi, che dovranno sottrarre risorse al
miglioramento generale delle infrastrutture.
È previsto un contributo finanziario Ue per
l’ammontare di 6,5 miliardi di euro, ma – ha precisato Federica Mogherini,
responsabile della «politica di sicurezza» della Ue – solo per «assicurare che
infrastrutture di importanza strategica siano adatte alle esigenze militari».
I tempi stringono: entro settembre il Consiglio
europeo dovrà specificare (su indicazione Nato) quali sono le infrastrutture da
potenziare per la mobilità militare. Ci sarà anche il ponte Morandi,
ricostruito in modo che i carri armati Usa/Nato possano transitare sicuri sulla
testa dei genovesi?
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