Il
decreto Dignità ha un segno opposto al “Jobs act” anche se non introduce che
correttivi minimi. Le critiche di Confindustria però non hanno ragione se non
politica. E sui contratti a termine, servono soluzioni per limitare il
turn-over.
Natalia Paci– Sbiulanciamoci
29 Agosto 2018
Con il decreto legge 12 luglio
2018, n. 87, battezzato “decreto dignità”, il nuovo governo interviene con
urgenza in materia di lavoro, limitando l’utilizzo dei contratti a termine
(compresa la somministrazione a termine) e aumentando le sanzioni contro il
licenziamento illegittimo.
In merito al primo punto, si
reintroduce, solo per i contratti superiori a 12 mesi o nel caso di rinnovi,
l’obbligo di giustificare l’assunzione a termine per “esigenze temporanee e
oggettive, estranee all’ordinaria attività, ovvero esigenze sostitutive di
altri lavoratori” oppure per “esigenze connesse a incrementi temporanei,
significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria”. Inoltre, la
durata massima del contratto a termine con lo stesso lavoratore si abbassa da
36 a 24 mesi. Tali novità non valgono per le attività stagionali, né per le
start up innovative che continuano a godere di maggiori margini di operatività.
La novità ha sollevato polemiche
a seguito dei dati Inps, pubblicati nella relazione tecnica al decreto,
relativi ad un possibile impatto negativo sull’occupazione per 8 mila
lavoratori (0,4% di tutti i lavoratori a termine) a cui forse non verrà
rinnovato il contratto arrivati alla soglia dei 24 mesi. Ma le critiche sono
arrivate anche da parte di Confindustria per l’incertezza applicativa derivante
dalla reintroduzione della causali e per il conseguente rischio di contenzioso.
Le imprese chiedono sempre certezza e riduzione del contenzioso, che significa,
in altri termini, libertà di gestire le risorse umane senza vincoli. Sarebbe
una richiesta legittima se le imprese non abusassero di questa libertà, sulla
pelle del lavoratori, costringendo il legislatore a compiere la scelta tra
libertà e dignità.
L’obiettivo dichiarato del
decreto non è né quello di compiacere Confindustria, né quello di aumentare
l’occupazione. Il titolo del decreto è “Disposizioni urgenti per la dignità dei
lavoratori e delle imprese”, quindi è sul piano della dignità e della qualità
del lavoro che va giudicato.
In materia di contratti a
termine, la novità è volta a ridurre le ipotesi di abuso nel ricorso al
contratto a termine, cioè l’utilizzo oltre le effettive esigenze temporanee.
Abuso reso possibile in seguito alla liberalizzazione intervenuta col Jobs act.
L’altra faccia della medaglia
della liberalizzazione è la precarietà: è diventato sempre più difficile per i
lavoratori affrancarsene e si è sempre più allontanata l’agognata stabilità.
Nell’ultimo anno (maggio 2017-maggio 2018) addirittura il 95%, delle nuove
assunzioni è a termine, mentre solo l’1% è a tempo indeterminato (dati
ministero del Lavoro). Questa trappola della precarietà coinvolge 2 milioni di
lavoratori a termine ogni anno, secondo i dati del ministero del Lavoro.
Reintroducendo le causali, oltre
i 12 mesi, si rafforza la posizione contrattuale del lavoratore, che potrà
attivare un contenzioso nel caso in cui si renda conto che l’azienda avrebbe
potuto assumerlo stabilmente. D’altra parte, le imprese godono sempre di 12
mesi di assunzione a termine, senza causali, quindi hanno comunque tutto il
tempo di ponderare le proprie scelte. Sulla mancanza di un regime transitorio,
in merito al destino dei contratti che superano i 24 mesi, si potrà certamente
trovare una soluzione in sede di conversione, magari con incentivi mirati alle
stabilizzazioni.
Venendo alle novità sul
licenziamento, sul regime sanzionatorio nell’area del contratto a tutele
crescenti, si è provveduto ad alzare l’ammontare minimo dell’indennizzo a
favore del lavoratore da 4 a 6 mensilità e quello massimo da 24 a 36 mensilità,
rendendo più oneroso per le imprese il cd. “costo di separazione” in caso di
licenziamento ingiustificato, quindi illegittimo. Anche qui si tratta di un
provvedimento che scoraggia gli abusi. Nulla hanno da temere, anche in questo
caso, le aziende che licenziano con giusta causa o giustificato motivo.
Il segnale che viene dato con il
decreto dignità è quindi opposto a quello che diede Renzi col “Jobs act”:
allora si strizzò l’occhio alle imprese, con la liberalizzazione dei contratti
a termine e il licenziamento facile. Il decreto dignità, invece, introduce
interventi significativi, ancorché minimi, per ridurre gli abusi, sia in
materia di contratti a termine che di licenziamento illegittimo.
Tuttavia, la strada da percorrere
è ancora lunga ed insidiosa. Innanzitutto, sempre in materia di contratti a termine,
le novità introdotte dovrebbero andare di pari passo con soluzioni per
limitare, oltre un certo periodo di tempo, il turn-over, altrimenti allo
scadere dei 12-24 mesi, le imprese si limiterebbero, invece di stabilizzare i
lavoratori a termine, a sostituirli con nuovi lavoratori a termine.
Inoltre, il precariato non è solo
quello dei lavoratori a termine, quindi se il governo pensa di ri-liberalizzare
i voucher non farebbe altro che spostare i lavoratori da una tipologia
contrattuale a termine, ma più protetta, ad una decisamente peggiore, che ha
rappresentato l’emblema della mercificazione dei rapporti di lavoro e della
lesione della dignità dei lavoratori.
A tale intervento urgente ne
dovranno quindi seguire altri, come quelli già in discussione, con nuovi
incentivi alla stabilizzazione e un taglio del cuneo fiscale, almeno per alcuni
settori produttivi, cercando di aiutare l’occupazione di qualità e, con essa,
lo sviluppo delle aziende. Il rispetto della dignità dei lavoratori è infatti
anche rispetto della dignità delle imprese, di quelle che operano correttamente
nel mercato, di quelle che sanno che la qualità dell’impresa si fonda sulla
qualità dell’occupazione. Se si parla di dignità dei lavoratori, infine, non va
trascurata la dignità di chi lavora in nero, di chi lavora in ambiente dannoso
per la sicurezza e la salute, di chi lavora sottoposto al controllo a distanza,
di chi lavora con la minaccia di essere demansionato, col timore di iscriversi
al sindacato o col timore di avere figli.
Anche se si è partiti col piede
giusto, c’è ancora molto da camminare per ridare dignità ai lavoratori.
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