Non
si è mai scrollato di dosso le pastoie della Francia e non ha saputo dotarsi di
una classe dirigente adeguata. E da quasi sei anni il paese si è avvitato in un
conflitto di cui non vede la fine. La lettura di un sacerdote centrafricano.
Che crede in una svolta.
Etienne Kotto-Wawe- Nigrizia
26 agosto 2018
Il paese possiede un sottosuolo
molto ricco di materie prime (petrolio, uranio, ferro) e di minerali preziosi
(oro, diamanti); dispone inoltre di un notevole patrimonio faunistico e
forestale. Ricchezze che hanno sempre sollecitano molti appetiti.
Colonia francese fino al 1960, il
Centrafrica era conosciuto con il nome di Oubangui-Chari. A battezzarla
Repubblica Centrafricana fu, il 1° dicembre 1958, Barthélemy Boganda, primo
prete diocesano, già deputato all’assemblea nazionale francese e poi primo
presidente dell’Oubangui-Chari. In realtà Boganda aveva maturato un ideale
panafricanista e avrebbe voluto creare uno stato che unisse più nazioni (Ciad,
Camerun, Congo-Brazzaville, Gabon e Centrafrica) e quindi più popoli, culture,
lingue e religioni.
Ma quel prete visionario, padre
fondatore della nazione, dava non poco fastidio sia alla potenza coloniale sia
ad alcuni paesi della regione. È così che il 29 marzo del 1959, pochi mesi
prima dell’indipendenza ufficiale, morì in un misterioso incidente aereo.
Scomparsa che ha avuto pesanti conseguenze. La classe dirigente, assai
ristretta, che ha gestito l’indipendenza si è segnalata infatti per avidità,
disprezzo dello stato di diritto, clientelismo, tribalismo… In breve, una élite
mediocre e del tutto funzionale agli interessi dell’ex potenza coloniale.
E ciò ha impedito la costruzione
di uno stato nazione fondato sull’uguaglianza, la giustizia e la competenza. Il
modo inadeguato e improprio di guidare la nazione, in particolare
l’amministrazione della cosa pubblica, ha ingenerato una spirale di instabilità
permanente, alimentata dal malcontento prodotto dal sistema stesso.
Riserva di caccia di Parigi
In tale clima di diffidenza e
sfiducia, buon gioco ha avuto la Francia che – tramite accordi tagliati su
misura nei settori della difesa e della cooperazione – ha fatto del Centrafrica
una sua “riserva di caccia”. Parigi ha svolto il suo ruolo di gendarme anche
nell’impedire al Centrafrica di cooperare con altre nazioni. Non a caso la
Francia ha sempre piazzato alla testa del paese uomini politici in linea con la
sua volontà e ha scartato sistematicamente coloro che si opponevano alla sua politica.
Tramite questo meccanismo, il
potere e i beni economici sono stati confiscati da un gruppo ristretto di
persone, lasciando nella miseria la maggioranza della popolazione. Tutte le
strutture e i simboli dello stato sono concentrati nella capitale Bangui. Il
resto del paese è abbandonato, sprovvisto di quasi tutto il necessario:
ospedali, strade, scuole, commerci… Tale situazione caotica sul piano politico,
economico, sociale e securitario ha contribuito a nutrire tensioni
intercomunitarie, spesso di carattere etnico, che taluni attori politici non
esitano a sfruttare per manipolare la popolazione in gran parte senza
istruzione e senza lavoro.
La confisca del potere e dei beni
da parte di un pugno di persone, l’abbandono del paese profondo, la regionalizzazione
dell’esercito e soprattutto l’incompetenza notoria di buona parte dei dirigenti
pubblici hanno fortemente contribuito alla vulnerabilità del paese, così come
lo conosciamo oggi. Le frontiere, ad esempio, non sono adeguatamente protette,
il che facilita un crescente traffico di armi da guerra, di cui beneficiano i
vari conflitti regionali.
La fragilità dello stato e
soprattutto l’incapacità dell’esercito e delle forze di polizia di proteggere
la popolazione civile hanno portato alla proliferazione di gruppi armati. E i
leader di questi gruppi hanno trovato facilmente giovani da reclutare, o perché
disoccupati o perché espulsi da un sistema educativo, anche universitario,
inadeguato. Una responsabilità di quanto è accaduto è da attribuire anche a forze
sindacali fortemente politicizzate e manipolate dai due maggiori partiti: il
Movimento di liberazione del popolo centrafricano (Mlpc) e il Fronte operaio
per il progresso e il lavoro (Fpopt). I sindacati hanno moltiplicato le
proteste, specie attraverso gli scioperi detti ville-morte (città-morta),
contribuendo così all’indebolimento degli strati sociali, politici, educativi,
economici, culturali e anche religiosi, già fiaccati da ammutinamenti, colpi di
stato, ribellioni…
La deriva
È in questo contesto di disfatta
dello stato (che esiste solo sulla carta), che nasce la coalizione Seleka.
All’inizio, i principali leader di questo movimento ribelle deplorano l’assenza
totale di infrastrutture adeguate al benessere delle loro regioni (soprattutto
nel nord). Presto, però, prevale la sete di potere e così ? siamo nel dicembre
del 2012 ? decidono di marciare sulla capitale.
E per arrivare a Bangui i leader
di Seleka – Michel Djotodia, Moussa Daffane, Abdoulaye Hissène, Noureddine Adam
e altri – utilizzano anche mercenari stranieri (ciadiani, sudanesi, nigeriani,
camerunesi e nigerini), pescando nello stesso bacino utilizzato da François
Bozizé (presidente dal 2003 al marzo 2013) per scalzare Ange Félix Patassé (al
potere dal 1993 al 2003).
Nella sua marcia su Bangui,
Seleka si abbandona a saccheggi, distrugge edifici pubblici e religiosi, compie
crimini di guerra e crimini contro l’umanità. E si erge a coalizione che
protegge la minoranza musulmana marginalizzata dai differenti regimi che hanno
governato il paese. Il che spiega la presenza massiccia nelle file Seleka di
jihadisti arrivati da diversi paesi per sostenere i loro fratelli e portate al
potere Michel Djotodia, il 24 marzo 2013.
I leader Seleka si illudevano di
risolvere i problemi con le armi. Sono stati invece rapidamente sovrastati
dagli avvenimenti, e non hanno risolto nulla. Hanno anzi provocato la reazione
di gruppi sedicenti cristiani, gli anti-balaka, che si configurano come milizie
dedite a violenze e razzie, che hanno commesso atrocità contro le comunità
musulmane. I Seleka, scaricati da Djotodia dopo qualche mese dal colpo di
stato, hanno fatto ritorno nei loro territori e da lì continuano a rendere
ingovernabile il paese.
Nel gennaio del 2014, Djotodia è
costretto alle dimissioni a vantaggio di un regime di transizione diretto da
Catherine Samba-Panza che ha il compito di cercare di ricomporre il quadro
politico attraverso una nuova Costituzione e di accompagnare il paese alle
elezioni. Nel dicembre 2015, un referendum approva la nuova Costituzione. Le
elezioni si svolgono nel gennaio 2016 e portano al potere l’attuale presidente
Faustin-Archange Touadéra.
Non va dimenticato che nel
dicembre del 2013 Parigi ha dispiegato in Centrafrica la missione militare
Sangaris, terminatasi tre anni dopo senza aver contribuito a modificare le
contrapposizioni esistenti sul terreno. Da rilevare anche che nel paese è
operativa dall’aprile del 2014 la Missione di stabilizzazione delle Nazioni
Unite (Minusca, forte di 12mila uomini), il cui mandato scade nel novembre
prossimo: sul ruolo e l’effettiva efficacia della missione sono fiorite e
fioriscono molte polemiche.
Come uscirne
La crisi centrafricana è profonda
e multisettoriale. Certamente la più grave dalla fondazione dello stato. 14
delle 17 prefetture in cui è diviso il paese sono sotto il controllo dei
diversi gruppi armati che fanno capo a Seleka. I processo politico si va impantanando
sempre più e fa emergere altri gruppi armati, segno che anche questo gruppo
dirigente non è in grado di avviare un cambiamento. Non ci si meravigli,
dunque, se gli ambienti diplomatici e le organizzazioni che forniscono aiuti
sono pessimisti sul futuro del paese.
Eppure, noi che conosciamo bene
il paese e che non sottovalutiamo la portata della crisi, sappiamo anche che le
difficoltà non sono insormontabili. Una via d’uscita possibile dalla crisi c’è,
a condizione che le figlie e i figli del Centrafrica sappiano recidere il
circolo vizioso della violenza. Per farlo, però, ci vuole una chiara volontà
politica senza demagogie, ipocrisie, menzogne, clientelismo e regionalismo. E,
sempre per cambiare direzione e modello di paese, lo stato deve trovare un
adeguato credito, effettuando nei vari settori economici e sociali investimenti
massicci, costanti e spalmati su più anni.
Urgente poi è intervenire sulle
basi dei vari gruppi armati, situate in maggioranza nei paesi confinanti, ed
evitare di legittimare i signori della guerra con la pratica dell’impunità. E
ancora: è indispensabile formare un esercito e delle forze di sicurezza esenti
da colorature tribali ed etniche; rifondare il sistema scolastico, educativo e
universitario perché sia in linea con il tipo di sviluppo che si vuole
ottenere. Infine, impegnare lo stato sulla via di una diplomazia che non sia
balbuziente, capace invece di portare a casa equilibri e relazioni. In breve,
uno stato forte con degli uomini integri, capaci e disponibili. Insomma, un
rinascimento.
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