domenica 26 agosto 2018

AFRICA Repubblica Centrafricana, una nazione sotto sequestro; Paese ingovernabile. Perché


Non si è mai scrollato di dosso le pastoie della Francia e non ha saputo dotarsi di una classe dirigente adeguata. E da quasi sei anni il paese si è avvitato in un conflitto di cui non vede la fine. La lettura di un sacerdote centrafricano. Che crede in una svolta.

Etienne Kotto-Wawe- Nigrizia
26 agosto 2018

Il paese possiede un sottosuolo molto ricco di materie prime (petrolio, uranio, ferro) e di minerali preziosi (oro, diamanti); dispone inoltre di un notevole patrimonio faunistico e forestale. Ricchezze che hanno sempre sollecitano molti appetiti.
Colonia francese fino al 1960, il Centrafrica era conosciuto con il nome di Oubangui-Chari. A battezzarla Repubblica Centrafricana fu, il 1° dicembre 1958, Barthélemy Boganda, primo prete diocesano, già deputato all’assemblea nazionale francese e poi primo presidente dell’Oubangui-Chari. In realtà Boganda aveva maturato un ideale panafricanista e avrebbe voluto creare uno stato che unisse più nazioni (Ciad, Camerun, Congo-Brazzaville, Gabon e Centrafrica) e quindi più popoli, culture, lingue e religioni.
Ma quel prete visionario, padre fondatore della nazione, dava non poco fastidio sia alla potenza coloniale sia ad alcuni paesi della regione. È così che il 29 marzo del 1959, pochi mesi prima dell’indipendenza ufficiale, morì in un misterioso incidente aereo. Scomparsa che ha avuto pesanti conseguenze. La classe dirigente, assai ristretta, che ha gestito l’indipendenza si è segnalata infatti per avidità, disprezzo dello stato di diritto, clientelismo, tribalismo… In breve, una élite mediocre e del tutto funzionale agli interessi dell’ex potenza coloniale.
E ciò ha impedito la costruzione di uno stato nazione fondato sull’uguaglianza, la giustizia e la competenza. Il modo inadeguato e improprio di guidare la nazione, in particolare l’amministrazione della cosa pubblica, ha ingenerato una spirale di instabilità permanente, alimentata dal malcontento prodotto dal sistema stesso.

Riserva di caccia di Parigi
In tale clima di diffidenza e sfiducia, buon gioco ha avuto la Francia che – tramite accordi tagliati su misura nei settori della difesa e della cooperazione – ha fatto del Centrafrica una sua “riserva di caccia”. Parigi ha svolto il suo ruolo di gendarme anche nell’impedire al Centrafrica di cooperare con altre nazioni. Non a caso la Francia ha sempre piazzato alla testa del paese uomini politici in linea con la sua volontà e ha scartato sistematicamente coloro che si opponevano alla sua politica.
Tramite questo meccanismo, il potere e i beni economici sono stati confiscati da un gruppo ristretto di persone, lasciando nella miseria la maggioranza della popolazione. Tutte le strutture e i simboli dello stato sono concentrati nella capitale Bangui. Il resto del paese è abbandonato, sprovvisto di quasi tutto il necessario: ospedali, strade, scuole, commerci… Tale situazione caotica sul piano politico, economico, sociale e securitario ha contribuito a nutrire tensioni intercomunitarie, spesso di carattere etnico, che taluni attori politici non esitano a sfruttare per manipolare la popolazione in gran parte senza istruzione e senza lavoro.
La confisca del potere e dei beni da parte di un pugno di persone, l’abbandono del paese profondo, la regionalizzazione dell’esercito e soprattutto l’incompetenza notoria di buona parte dei dirigenti pubblici hanno fortemente contribuito alla vulnerabilità del paese, così come lo conosciamo oggi. Le frontiere, ad esempio, non sono adeguatamente protette, il che facilita un crescente traffico di armi da guerra, di cui beneficiano i vari conflitti regionali.
La fragilità dello stato e soprattutto l’incapacità dell’esercito e delle forze di polizia di proteggere la popolazione civile hanno portato alla proliferazione di gruppi armati. E i leader di questi gruppi hanno trovato facilmente giovani da reclutare, o perché disoccupati o perché espulsi da un sistema educativo, anche universitario, inadeguato. Una responsabilità di quanto è accaduto è da attribuire anche a forze sindacali fortemente politicizzate e manipolate dai due maggiori partiti: il Movimento di liberazione del popolo centrafricano (Mlpc) e il Fronte operaio per il progresso e il lavoro (Fpopt). I sindacati hanno moltiplicato le proteste, specie attraverso gli scioperi detti ville-morte (città-morta), contribuendo così all’indebolimento degli strati sociali, politici, educativi, economici, culturali e anche religiosi, già fiaccati da ammutinamenti, colpi di stato, ribellioni…

La deriva
È in questo contesto di disfatta dello stato (che esiste solo sulla carta), che nasce la coalizione Seleka. All’inizio, i principali leader di questo movimento ribelle deplorano l’assenza totale di infrastrutture adeguate al benessere delle loro regioni (soprattutto nel nord). Presto, però, prevale la sete di potere e così ? siamo nel dicembre del 2012 ? decidono di marciare sulla capitale.
E per arrivare a Bangui i leader di Seleka – Michel Djotodia, Moussa Daffane, Abdoulaye Hissène, Noureddine Adam e altri – utilizzano anche mercenari stranieri (ciadiani, sudanesi, nigeriani, camerunesi e nigerini), pescando nello stesso bacino utilizzato da François Bozizé (presidente dal 2003 al marzo 2013) per scalzare Ange Félix Patassé (al potere dal 1993 al 2003).
Nella sua marcia su Bangui, Seleka si abbandona a saccheggi, distrugge edifici pubblici e religiosi, compie crimini di guerra e crimini contro l’umanità. E si erge a coalizione che protegge la minoranza musulmana marginalizzata dai differenti regimi che hanno governato il paese. Il che spiega la presenza massiccia nelle file Seleka di jihadisti arrivati da diversi paesi per sostenere i loro fratelli e portate al potere Michel Djotodia, il 24 marzo 2013.
I leader Seleka si illudevano di risolvere i problemi con le armi. Sono stati invece rapidamente sovrastati dagli avvenimenti, e non hanno risolto nulla. Hanno anzi provocato la reazione di gruppi sedicenti cristiani, gli anti-balaka, che si configurano come milizie dedite a violenze e razzie, che hanno commesso atrocità contro le comunità musulmane. I Seleka, scaricati da Djotodia dopo qualche mese dal colpo di stato, hanno fatto ritorno nei loro territori e da lì continuano a rendere ingovernabile il paese.
Nel gennaio del 2014, Djotodia è costretto alle dimissioni a vantaggio di un regime di transizione diretto da Catherine Samba-Panza che ha il compito di cercare di ricomporre il quadro politico attraverso una nuova Costituzione e di accompagnare il paese alle elezioni. Nel dicembre 2015, un referendum approva la nuova Costituzione. Le elezioni si svolgono nel gennaio 2016 e portano al potere l’attuale presidente Faustin-Archange Touadéra.
Non va dimenticato che nel dicembre del 2013 Parigi ha dispiegato in Centrafrica la missione militare Sangaris, terminatasi tre anni dopo senza aver contribuito a modificare le contrapposizioni esistenti sul terreno. Da rilevare anche che nel paese è operativa dall’aprile del 2014 la Missione di stabilizzazione delle Nazioni Unite (Minusca, forte di 12mila uomini), il cui mandato scade nel novembre prossimo: sul ruolo e l’effettiva efficacia della missione sono fiorite e fioriscono molte polemiche.

Come uscirne
La crisi centrafricana è profonda e multisettoriale. Certamente la più grave dalla fondazione dello stato. 14 delle 17 prefetture in cui è diviso il paese sono sotto il controllo dei diversi gruppi armati che fanno capo a Seleka. I processo politico si va impantanando sempre più e fa emergere altri gruppi armati, segno che anche questo gruppo dirigente non è in grado di avviare un cambiamento. Non ci si meravigli, dunque, se gli ambienti diplomatici e le organizzazioni che forniscono aiuti sono pessimisti sul futuro del paese.
Eppure, noi che conosciamo bene il paese e che non sottovalutiamo la portata della crisi, sappiamo anche che le difficoltà non sono insormontabili. Una via d’uscita possibile dalla crisi c’è, a condizione che le figlie e i figli del Centrafrica sappiano recidere il circolo vizioso della violenza. Per farlo, però, ci vuole una chiara volontà politica senza demagogie, ipocrisie, menzogne, clientelismo e regionalismo. E, sempre per cambiare direzione e modello di paese, lo stato deve trovare un adeguato credito, effettuando nei vari settori economici e sociali investimenti massicci, costanti e spalmati su più anni.
Urgente poi è intervenire sulle basi dei vari gruppi armati, situate in maggioranza nei paesi confinanti, ed evitare di legittimare i signori della guerra con la pratica dell’impunità. E ancora: è indispensabile formare un esercito e delle forze di sicurezza esenti da colorature tribali ed etniche; rifondare il sistema scolastico, educativo e universitario perché sia in linea con il tipo di sviluppo che si vuole ottenere. Infine, impegnare lo stato sulla via di una diplomazia che non sia balbuziente, capace invece di portare a casa equilibri e relazioni. In breve, uno stato forte con degli uomini integri, capaci e disponibili. Insomma, un rinascimento.

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