La
discussione relativa al decreto Dignità è monca. Anche la la relazione tecnica
si è concentrata soltanto su effetti marginali come 8 mila posti su 2 milioni
di contratti a tempo determinato.
Roberto Romano– Sbilanciamoci
28 agosto 2018
Il decreto Dignità solleva delle
dispute che rasentano la stupidità. Innanzitutto l’effetto discutibile di meno
8.000 lavorati, su oltre 2 milioni di lavoratori coinvolti dai contratti a
tempo determinato, è molto più che residuale. A ruota segue l’incredibile
discussione sugli effetti finanziari del decreto pari a 151 milioni di minori
entrate fiscali per il triennio 2018-19-20 (relazione tecnica del decreto
Dignità).
La prima e la seconda
considerazione tradiscono una profonda e non banale malafede e/o “ignoranza”
(nel senso di non conoscenza) delle teorie economiche del benessere e ancor di
più dei principi ispiratori dell’economia classica (Smith e Ricardo).
Il primo e non banale aspetto da
sottolineare è il seguente: la crescita sconsiderata del lavoro a tempo
determinato ha concorso in misura considerevole a
1) ridurre la produttività per
addetto e capitale,
2) ridurre il valore aggiunto per
addetto,
3) consolidare e approfondire la
de-specializzazione del tessuto produttivo e dei servizi del Paese.
Più precisamente, i fautori degli
effetti negativi del decreto non hanno conoscenza né dell’effetto Ricardo –
quando aumentano i salari si rafforzano gli investimenti -, né dell’effetto
Smith – al crescere dei salari aumenta la domanda e quindi i mercati da
soddisfare.
Se l’economia nazionale cresce
meno della media europea (meno 13 punti di PIL tra il 2007 e il 2016) vuol dire
che qualcosa non ha funzionato nella politica economica e nella politica del
lavoro del Paese.
Sebbene l’industria italiana sia
ormai ai margini della specializzazione europea, e gli incentivi fiscali del
2015-16-17-18, pari a 55 miliardi di euro di cui 12,5 miliardi strutturali (C.
Perniciano), non hanno prodotto nessun effetto di struttura, se non quella non
meno grave di minori entrate fiscali pari a 12 miliardi (e qualcuno si lamenta
per 151 milioni di minori entrate fiscali), la discussione relativa al decreto
Dignità è almeno monca degli effetti (marginali) sul sistema produttivo.
Ovviamente non commetto lo stesso
errore di del presidente dell’INPS (sempre fuori posto nelle considerazioni
svolte) e Confindustria nel considerare grave meno 8.000 posti di lavoro e meno
151 milioni di minori entrate, ma possiamo almeno considerare l’effetto
potenziale di maggiore valore aggiunto sotteso alla riduzione minimale del
lavoro a tempo determinato? Quante entrate aggiuntive produrrebbero? Si tratta
di decimali e molto a margine del sistema economico; per questa ragione,
probabilmente, non sono state considerate nella relazione tecnica, ma almeno la
relazione tecnica doveva (poteva) anche prendere in esame la potenziale
trasformazione del lavoro a tempo determinato in tempo indeterminato visto che
sono così importanti secondo Confindustria e il presidente dell’INPS.
Qualora non siano importanti,
hanno ragione sia l’INPS che Confindustria, così come la relazione tecnica, ma
a questo punto abbiamo un problema ancor più drammatico: la creazione di lavoro
in Italia è possibile solo ai margini dello stesso, con poco valore aggiunto
incorporato e, peggio ancora, con un profitto atteso delle imprese che
traguarda il margine del costo del lavoro e non le aspettative di crescita.
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