Luca Billi, Nuova Atlantide
27 agosto 2018
Nel limite delle sempre più
ridotte possibilità di scelta concesse a noi consumatori, faccio attenzione
quando acquisto una bottiglia di passata di pomodoro. Anche perché vivo nella
provincia in cui è stato inventata, alla fine dell’Ottocento, l’industria del
pomodoro, vedo i campi in cui queste piante vengono coltivate e incrocio i
camion carichi dei frutti che diventeranno la passata che acquisterò. E poi so
che in Emilia-Romagna la raccolta del pomodoro è quasi del tutto meccanizzata e
che ogni anno, entro il mese di febbraio, i rappresentanti degli agricoltori e
quelli degli industriali determinano superfici da coltivare, quantità di frutti
da ritirare, prezzi di vendita e premi legati alla maggior qualità. Questo mi
offre una serie di garanzie, che considero importanti.
Solo da qualche anno posso
scegliere che passata acquistare: sono fortunato. Pochi anni fa non avevo
questa opportunità: andavo in un discount e sceglievo la passata che costava
meno. Per produrre quella passata che io pagavo così poco venivano usati
pomodori raccolti da schiavi? Certamente, ma non avevo davvero altra
possibilità e me lo dovevo far andare bene.
Possiamo scrivere belle leggi
contro il fenomeno del caporalato in agricoltura, possiamo perfino provare ad
applicarle e magari garantire nelle zone dove non esistono dei servizi di
trasporto pubblico decenti – senza i camioncini dei caporali i campi di intere
regioni del paese sarebbero semplicemente irraggiungibili – ma nulla di queste
buone pratiche – così come quelle attuate nella mia regione – affronta il vero
problema: siamo noi, tutti noi e specialmente i più poveri di noi, che abbiamo
bisogno di schiavi. Quelli che raccolgono i pomodori ci danno “fastidio” perché
in qualche modo siamo costretti a vederli, anche se facciamo di tutto per
girarci dall’altra parte, e, nonostante questi nostri sforzi per ignorarli,
veniamo a sapere quando muoiono, come è successo a causa di due drammatici
incidenti in Puglia. Ma quelli che in Cina e in India producono i nostri
vestiti di tutti i giorni, quelli che vogliamo costino sempre meno? Quelli non
li vediamo e certo non ci accorgiamo quando muoiono, vittime di queste stesso
sfruttamento.
Se ci pensiamo bene, questa è
l’essenza – e anche la forza – del capitalismo che domina le nostre vite: più
siamo sfruttati, più siamo poveri, più abbiamo bisogno che altri nostri
fratelli siano sfruttati più di noi. Probabilmente quelli che raccolgono da
schiavi i pomodori comprano la passata “fatta” da loro, perché è una delle cose
più economiche che trovano nei discount, una delle pochissime che possono
permettersi con quello che guadagnano. E così diventano gli sfruttatori di se
stessi e ridanno ai loro padroni i pochi soldi dei loro salari.
Il comunismo – o come vogliamo
chiamare un mondo diverso non più dominato dal capitalismo – deve avere prima
di tutto questo obiettivo: spezzare questo circolo vizioso, per cui più siamo
sfruttati, più ci mettiamo nelle condizioni di esserlo, come un laccio che ci
stringe sempre più forte, quando proviamo a liberarci. E finisce per
strozzarci.
Per questo dobbiamo essere in
grado di innescare un processo completamente diverso: chi raccoglie i pomodori
– come ogni altro lavoratore – deve essere retribuito in maniera equa per il
suo lavoro, questo farà inevitabilmente salire il prezzo della passata, ma un
lavoratore pagato in maniera equa può acquistare una passata che costa di più.
Smetteranno di guadagnarci così sfacciatamente i padroni dei campi, delle
fabbriche di trasformazione, degli hard-discount, ossia quelli che ora lucrano
sullo sfruttamento dei braccianti, degli operai, dei commessi. In fondo la
guerra di classe – come ogni guerra – non può essere a somma zero: per stare
meglio noi, devono star peggio e soffrire loro. I padroni non hanno certo
scrupoli, adesso tocca a noi cominciare a tirar loro in faccia i pomodori
marci.
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