Per
l’ex presidente Consip «la nazionalizzazione va bene, ma il nodo è un
controllore terzo e imparziale». «Noi keynesiani abbiamo combattuto
l’austerità, ma oggi dire “più stato, meno mercato” non basta più. E il governo
fa pasticci mettendo pochi soldi per gli investimenti».
#Intervista a Gustavo Piga di
Massimo Franchi, Nuova Atlantide
27 agosto 2018
Professor Gustavo Piga, dopo il
crollo del ponte Morandi a Genova anche il governo pensa a nazionalizzare o
ripubblicizzare la gestione di Autostrade. Lei è d’accordo?
Io sono a favore di uno Stato
capace di controllare le sue infrastrutture. Perché il problema di fondo in
questa tragedia di Genova non è la proprietà, ma il mancato controllo. Punto
strettamente connesso alla presenza di una pubblica amministrazione efficiente
ed adeguatamente finanziata e gestita, vera mancanza di oggi in Italia. Se
vogliamo rifare l’Iri io sono d’accordo ma mi dovete dire chi finanzia l’Iri,
chi la controlla. Serve un controllore terzo, indipendente di grande qualità.
Se così fosse non avrei problemi ad avere ad Autostrade un Benetton
competente».
Si è portati a pensare però che
la mancata manutenzione – specie sapendo che il ponte fosse a rischio – non ci
sarebbe stata se la proprietà fosse pubblica – di qui la rabbia verso i
Benetton. O che la causa della mancata manutenzione del patrimonio pubblico in
generale sia dovuta all’austerity imposta dall’Unione europea…
Non è assolutamente vero che la
nazionalizzazione di Autostrade debba passare da un intervento di finanza
pubblica con problemi di vincoli di bilancio. L’idea di fondo con cui si misero
a pedaggio le autostrade era proprio quella di utilizzare i proventi per fare
manutenzione. C’è poi il modello tedesco nel quale le autostrade sono gratuite:
lì è la fiscalità generale che supporta il tutto.
Lei per quale modello propende o
utilizzerebbe in Italia?
L’idea della fiscalità generale è
meno regressiva perché in teoria chi è povero non pagherebbe. Ma in Italia
abbiamo un grado di evasione fiscale così alto che il metodo a pedaggio sarebbe
il più adatto: rapportando il pedaggio al tipo di macchina anche l’evasore in
Mercedes pagherebbe.
Torniamo alla fine dell’austerity,
suo grande cavallo di battaglia. Lei non collega l’attuale dibattitto sulla
possibile nazionalizzazione – non solo di autostrade ma ad esempio di Alitalia
– alla presa d’atto generale che la stessa austerità ha fallito in tutta
Europa?
Basta ascoltare l’audizione
parlamentare del capo dipartimento del ministero delle Infrastrutture per
capire come l’enorme mancanza di risorse che ha chi lavora per lo stato in tema
di trasporti è da addebitare all’austerità imposta in questi anni. L’austerità
è un paradigma da rivoltare come un calzino ma il tema vero è la qualità della
spesa pubblica. Perché a noi italiani l’Europa ha detto: «Spendi male, allora
devi spendere di meno». Se ora dimostrassimo di spendere bene i soldi pubblici,
potremmo ribaltare il dogma. Le privatizzazioni negli anni ’90 sono state fatte
solo per fare cassa: si è passati da monopoli pubblici o oligopoli privati.
Senza passare per le liberalizzazioni.
Lei insiste sul concetto di
qualità della spesa in chiave pragmatica, ma qui parliamo di una questione
anche ideologica: l’austerità è figlia del trionfo della teoria neoliberista.
Certamente e noi keynesiani
l’abbiamo combattuta, però oggi dire: “Più stato, meno mercato” non basta. Sono
convinto che se Keynes fosse nato oggi non chiederebbe di fare buche ma
interventi pubblici per sostenere il settore privato. L’austerità ha fallito ma
oggi a vincere gli appalti pubblici sono imprenditori con la villa in Svizzera
grazie alle mazzette. Quello che manca è la competenza nella pubblica
amministrazione e una vera spending review per tagliare le inefficenze che vi
si annidano, una battaglia che dovrebbe accomunare chi è per il “pubblico”.
La tragedia di Genova ha portato
molti a convincersi di un altro suo cavallo di battaglia: un piano di opere
pubbliche per la cura del territorio da finanziare in deficit, fuori dai
vincoli europei di bilancio.
Era ora, sono sette anni che lo
propongo. Deve avere alcuni paletti: non si può sforare il 3 per cento nel
rapporto debito/pil perché Ue e mercati non ce lo consentirebbero. Ma
basterebbe un punto di pil – 15 miliardi – per poterlo implementare ridando
lavoro a chi lo ha perso in questi anni facendo leva sul settore costruzioni:
ci sono da rifare scuole, abitazioni antisismiche, carceri. Una cifra del
genere creerebbe quello shock positivo, quel circolo virtuoso per far ripartire
la domanda interna, vero nostro tallone d’Achille. Ma sono pessimista perché
vedo un governo orientato a spacchettare questi 15 miliardi in tre: 5 per la
flat tax, 5 per il reddito di cittadinanza e solo 5 per gli investimenti. E
così il risultato sarebbe nullo.
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