Alberto Laggia – Famiglia
Cristiana
«State avvelenando i nostri
figli. Mamme no Pfas» si legge in grande sulle magliette bianche che indossano
durante le manifestazioni. Ma chi sono queste mamme? E cosa sono questi Pfas?
Prima che scoppiasse quella che oramai per tutti è l’ultima grande emergenza
ambientale del nostro Paese, questo oscuro acronimo era una sigla nota solo a
pochi addetti ai lavori. Identifica una famiglia di composti chimici: Sostanze
“perfluoroalchiliche”, usate in alcune produzioni industriali. Soprattutto,
sarebbe rimasto occulto chissà per quanto tempo ancora un disastro idrico
enorme che coinvolge trecentomila residenti di 21 Comuni italiani, in un’area
di 150 chilometri quadrati, nel cuore del Nord-Est, tra le province di Vicenza,
Padova e Verona. Sarebbe rimasto occulto se un gruppo di mamme, allarmate per
la salute dei propri figli, non avesse preso in mano la situazione e si fosse
messa a capo di un movimento per chiedere acqua pulita e garanzie per la
salute.
L’incubo della contaminazione si
è materializzato nella primavera scorsa, quando alle famiglie residenti nei
Comuni della cosiddetta “zona rossa”, cioè quella in cui si era riscontrata una
presenza altissima di sostanze “perfluorurate” nell’acqua potabile, sono giunti
a casa i risultati degli esami del sangue dei figli. Il monitoraggio sanitario
era stato richiesto dalle locali autorità sanitarie per verificare la presenza
di Pfas nell’organismo. «Tutti e cinque i miei figli avevano valori ben
superiori al massimo consentito di 8 nanogrammi per millilitro di sangue.
Alcuni avevano anche 40 volte oltre il consentito. Io e mio marito siamo stati
presi dalla paura. I miei figli erano contaminati da qualcosa di sconosciuto. A
quali rischi andavano incontro? E che fare? Il medico di base non aveva
risposte. Ci assalì lo sconforto», racconta Giovanna Dal Lago, madre,
lavoratrice e catechista di Lonigo, Comune vicentino di 17 mila abitanti, tra
le zone più colpite dell’intera “zona rossa”.
Come Giovanna, tantissime altre
mamme scoprono la medesima anomalia negli esami del sangue dei figli. Da qui,
dopo l’iniziale sgomento, la volontà di mettersi insieme per capire e per
provare a cambiare le cose.
Si inizia da un gruppo WhatsApp,
qualche riunione in casa, poi a scuola e in parrocchia. «Parte la
mobilitazione. E da pochi, spaventati e confusi», spiega un’altra mamma di
Lonigo, «siamo diventati tanti e continuiamo a crescere. La nostra forza è
l’amore per i nostri figli e per la nostra terra». A suon di petizioni per
acqua a “zero Pfas”, delegazioni e incontri pubblici con sindaci, autorità
sanitarie regionali, governatore del Veneto, sottosegretari, esperti e tecnici,
il gruppo di “madri coraggio”, che oggi conta oltre 700 iscritte, è riuscito a
portare all’attenzione di tutti i rischi di questa contaminazione che non
riguarda solo l’acqua del rubinetto, ma anche i prodotti agricoli della zona,
cioè l’intera catena alimentare. «Queste donne sono riuscite dove noi sindaci
stavamo fallendo», ammette Luca Restello, sindaco di Lonigo, uno dei primi
amministratori a lanciare l’allarme Pfas, ancora nel 2015. «Le mie 120 lettere
inviate a chiunque avesse autorità in merito non avrebbero sortito nulla senza
la voce di queste madri ». Già dal 2013 l’emergenza Pfas era conclamata: in
seguito a uno studio del Cnr che dimostrava l’inquinamento da sostanze
“perfluoroalchiliche” di questa che è una delle falde più importanti della
Pianura Padana, si decideva l’introduzione di filtri a carboni attivi per l’intercettazione
dei “perfluorurati”. Principale responsabile dell’inquinamento è considerata la
Miteni, un’azienda di Trissino (Vicenza) oggi appartenente al colosso chimico
Icig, che produce Pfas. La vicenda, di cui si occupa la magistratura di
Vicenza, è finita di recente anche sotto la lente della Commissione d’inchiesta
parlamentare per le ecomafie e di una Commissione speciale del Consiglio
regionale del Veneto.
Le mamme sono riuscite a portare
quasi diecimila persone al santuario della Madonna dei Miracoli per chiedere
acqua pulita e un nuovo acquedotto. Alla fine, invece dei discorsi delle
autorità, si è recitata una preghiera composta da una di loro, Annamaria, una
nonna di 62 anni. La stessa che in queste settimane si recita in tante
parrocchie della diocesi di Vicenza: «Guida tutti noi nel cammino verso la
bonifica di quest’acqua e di queste terre sofferenti. Illumina chi è causa di
questo inquinamento e tutti coloro che sono preposti alla soluzione di questo
disastro».
A sposare la causa di queste
mamme da subito il vescovo di Vicenza, monsignor Beniamino Pizziol, che è
andato ad ascoltarle a Lonigo e a pregare con loro. «La novità in questa
vicenda», afferma, «è il soggetto diventato leader della battaglia per l’acqua:
un gruppo di mamme, tra le quali molte appartenenti a comunità parrocchiali,
che hanno portato il loro stile, che è concretezza e perseveranza, passionalità
e insieme razionalità, mettendo il cuore oltre all’intelligenza. Un
bell’esempio di impegno sociale della comunità cristiana». E nel merito della
questione osserva: «Come rimanere indifferenti o muti, da cristiani, se vengono
minacciati beni fondamentali come l’acqua, che è vita, o la salute delle
giovani generazioni? Ora tutti devono fare la loro parte per rimediare a una
situazione grave».
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