Felice Roberto Pizzuti– Sbiulanciamoci
29 Agosto 2018
Il dibattito economico e politico
riporta l’attenzione sulla previdenza, sui suoi bilanci e sulle connessioni con
le tendenze demografiche e i flussi migratori.
Poiché il compito dei sistemi
pensionistici è trasferire agli anziani parte del reddito prodotto dagli
attivi, è normale che l’aumento del rapporto numerico tra i primi e i secondi
connesso all’invecchiamento della popolazione faccia crescere l’onerosità di
questo trasferimento. Lo stesso accade se la quota di popolazione occupata e la
produttività diminuiscono. Il fatto è che nell’ultimo quarto di secolo,
specialmente in Italia, le politiche economico-sociali improntate alla piena
libertà dei mercati e all’austerità dei conti pubblici hanno contribuito a
tenere bassi sia il tasso di occupazione sia la dinamica della produttività.
Per quanto riguarda le tendenze
demografiche, le nascite degli italiani, che negli anni Sessanta avevano
superato il milione annuo, attualmente sono scese fino a meno della metà.
Questo forte calo è stato parzialmente attenuato dal flusso degli immigrati
che, peraltro, non è tra i più elevati in Europa: in base agli ultimi dati
Eurostat riferiti al gennaio 2016, l’incidenza della popolazione straniera su
quella totale è dell’8,3% in Italia, del 10,5% in Germania, del 9,5% in Spagna,
dell’8,6% in Gran Bretagna e del 6,6% in Francia.
Fino al 2014, l’ingresso di
stranieri è riuscito a impedire la decrescita della nostra popolazione, ma
successivamente è iniziato il declino dei residenti, alimentato anche dalla
ripresa delle nostre emigrazioni che includono molti giovani laureati. Il
complessivo calo demografico contribuisce ad accentuare l’aumento del rapporto
tra anziani e occupati e riduce le potenzialità della crescita economica. Le
prospettive sono ulteriormente appesantite dal fatto che le previsioni
economiche e previdenziali, finora basate sull’attesa – tra il 2015 e il 2020 –
di un flusso annuo di immigrati oscillante tra i 270.000 e i 240.000, dovranno
essere riviste in peggio se diventeranno permanenti le nuove barriere
all’entrata che vanno affermandosi anche nel nostro Paese.
L’offerta di lavoro degli
stranieri entra poco in concorrenza con quella degli italiani poiché
corrisponde a mansioni, specialmente nei servizi, per le quali c’è poca
disponibilità nella nostra popolazione attiva. Il calo degli immigrati potrebbe
lasciare scoperte quelle funzioni con conseguenze negative sia per il sistema
produttivo sia per le esigenze domestico-assistenziali delle nostre famiglie.
Effetti negativi sulla finanza
pubblica e sulla qualità degli equilibri nel mercato del lavoro possono invece
derivare dall’impiego irregolare dei lavoratori stranieri: per il venir meno
dei contributi sociali e per il rischio che si diffondano un più generale
degrado delle condizioni lavorative e un peggioramento delle relazioni
contrattuali. Per contrastare questi rischi che interessano l’intero sistema
economico-sociale, si rende necessario un forte e lungimirante impegno non solo
da parte delle organizzazioni delle forze produttive, ma anche e soprattutto da
parte delle istituzioni pubbliche tramite incentivi, regolamentazioni e
controlli.
Sul piano specifico degli
equilibri previdenziali, va tenuto presente che gli immigrati (regolarizzati)
al momento versano contributi ben superiori alle prestazioni ricevute e il
saldo netto positivo, intorno ai cinque miliardi di euro annui, è utilizzato
per finanziare le pensioni degli italiani.
Data la loro composizione per
età, che si concentra nella fascia lavorativa, gli immigrati pensionati
attualmente sono pochissimi e se quelli attivi rimarranno nel nostro Paese fino
all’età della pensione, in base alle regole vigenti, la riceveranno solo se
riusciranno ad accumulare contributi lavorativi per almeno 20 anni e per un
ammontare complessivo sufficiente a maturare una prestazione pari ad almeno 1,5
volte l’assegno sociale.
Oltre a quella tra lavoratori
italiani e immigrati, un’altra falsa e deleteria contrapposizione costantemente
riproposta nel dibattito economico e politico è quella tra giovani e anziani,
fondata sull’idea che le pensioni ricevute dai primi sarebbero un ostacolo alle
prospettive di vita dei secondi. Questo contrasto d’interessi sarebbe
evidenziato dagli squilibri finanziari attribuiti al sistema pensionistico e
dai costi che richiederebbero alcune modifiche proposte per migliorare il suo
attuale assetto. Questa contrapposizione non c’è; invece, avrebbe effetti
negativi se fosse ritenuta vera.
Nell’ultimo quarto di secolo, la
torta del PIL prodotto annualmente è cresciuta poco e specialmente nell’ultimo
decennio, dominato dalla Grande recessione, è diminuita a causa
dell’affermazione di tendenze (globalizzazione non regolamentata) e politiche
(funzionali all’autonomizzazione dei mercati) che hanno penalizzato l’intera
collettività a prescindere dall’età.
Ma specialmente quando il PIL
cresce poco o addirittura si riduce, il mantenimento della coesione sociale e
le politiche per la ripresa economica richiederebbero che il reddito
disponibile fosse distribuito meglio (non peggio come invece sta accadendo).
Meno che mai andrebbe penalizzata (come invece sta avvenendo) larga parte delle
giovani generazioni entrate in età da lavoro già da un paio di decenni, alle
quali non solo si è riservata la “sorpresa” di poter accedere solo a lavori
precari e mal retributivi (pensavano che sarebbero stati meglio, non peggio,
dei genitori), ma si prospetta loro per la vecchiaia un tenore di vita
corrispondentemente compromesso.
Il rapporto tra pensione media
IVS e salario medio è previsto in calo di circa dodici punti nel prossimo
ventennio rispetto al valore attuale che, in base ai dati ufficiali convalidati
dall’Istat per il 2013, è pari a circa il 50%.
Va notato che questo valore è
molto inferiore all’85% indicato nella recente Relazione del Presidente
dell’Inps alla presentazione del XII Rapporto annuale dell’Ente; peraltro,
anche utilizzando i dati di base del Rapporto Inps, riferiti al 2017, il
rapporto tra il valore medio delle pensioni IVS e la retribuzione media dei
lavoratori di imprese private e pubbliche extra agricole risulta pari al 57%.
In ogni caso, si continuano a sostenere politiche restrittive per il sistema
pubblico (ma incentivando la previdenza privata), millantando una condizione
deficitaria del suo bilancio (che, invece, dal 1996 presenta stabilmente un
saldo tra contributi e prestazioni nette consistentemente attivo, pari a 39
miliardi di euro nel 2016).
Contemporaneamente vengono
sopravvalutati i costi di possibili interventi che avrebbero effetti
migliorativi sia per gli anziani che per l’occupazione dei giovani. Ad esempio,
l’onere finanziario immediato derivante dall’abbassamento a 64 anni dell’età di
pensionamento viene valutato in 18 miliardi nella Relazione INPS; tuttavia, in
base alle proiezioni del Centro di Politica Economica e Sociale operante in
“Sapienza”, anche se tutti gli aventi diritto decidessero di anticipare il
pensionamento, quell’onere si attesterebbe intorno alla metà di quella cifra;
comunque, il costo immediato derivante dall’anticipo di spesa sarebbe
compensato negli anni successivi dal minor importo della prestazione liquidata
ad un’età inferiore.
Le posizioni restrittive vengono
giustificate nell’interesse dei giovani quando invece sarebbe necessario
riformare le parti dell’assetto attuale da cui dipendono le (loro) pensioni
future. Ad esempio, riconoscere contributi figurativi per gli anni di
disoccupazione involontaria sperimentati nella vita lavorativa attenuerebbe la
condizione di precarietà oramai proiettata sull’intera esistenza. Peraltro, ciò avverrebbe senza gravare sulle
attuali problematiche di bilancio pubblico e fornirebbe stimoli alla crescita.
Circa la metà di coloro che sono entrati nel mercato del lavoro a metà degli
anni ’90 hanno accumulato contributi pensionistici corrispondenti a
retribuzioni inferiori alla soglia di povertà e, conseguentemente, riceveranno
pensioni “povere”.
L’introiezione dello “status” di
precari a tempo indeterminato da parte dei giovani (e di molti, oramai, ex
giovani) sta corrodendo non solo le loro vite, ma le prospettive dell’intera
collettività. Rimuovere questo “status” personale è un presupposto cruciale per
la coesione sociale e lo sviluppo economico, sociale e civile del nostro Paese.
Nessun commento:
Posta un commento