Il
decreto dignità diventato legge reintroduce i voucher, un successo
confindustriale che determina un cambio di segno al provvedimento. La Cgil,
forte dei 3,3 milioni di firme per abrogarli, promette in autunno fulmini e
saette. Perché si tratta di una questione di fondo per il futuro del mondo del
lavoro.
Rachele Gonnelli– Sbilanciamoci
28 agosto 2018
Vanno e vengono, i voucher, un
po’ come le nuvole. Il decreto dignità, diventato legge lo scorso 6 agosto, li
reintroduce, con grande levata di scudi della Cgil che promette a settembre una
dura battaglia fino a prospettare un nuovo referendum per abrogarli. Su questo
strumento, in effetti, si è verificato negli anni un braccio di ferro tra
datori di lavoro e sindacati che sembra andare al di là della consistenza
numerica del fenomeno che i buoni lavoro vorrebbero, nelle migliori intenzioni,
rendere quanto meno tracciabile: il lavoro discontinuo.
La ragione per cui questa
questione è così dirimente – e non riguarda solo una quota assolutamente
marginale di lavori occasionali come attività di giardinaggio, pulizia di
cantine e colf a ore, lezioni private etc – è che ha a che fare con la soglia
tra legalità o illegalità della discrezionalità del datore di lavoro
nell’offrire un impiego nei tempi e nelle forme che ritiene di fare. Per questo
l’opposizione delle rappresentanze datoriali è stata così forte durante la
prima stesura del decreto che non li reintroduceva. E avendo avuto successo, a
ben vedere, ha in gran parte cambiato il segno, anche simbolico, della prima
legge che, dopo il Jobs act, intendeva arginare il fenomeno dilagante e
incontrollato della precarietà lavorativa nel nostro Paese.
Una recente ricerca dell’Istituto
Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche (INAPP), nuova veste
dell’Isfol sempre legata al ministero del Lavoro, studia le dinamiche del
lavoro discontinuo – attraverso le sue due versioni di lavoro intermittente o a
chiamata e lavoro accessorio con i voucher – negli ultimi dieci anni.
Il quadro normativo è stato molto
movimentato su questa questione fin dalla comparsa sulla scena pubblica della
denominazione di “lavoro accessorio” e “intermittente” nel 2003, con il
cosiddetto decreto Biagi. Allora, non è chiaro se in modo realmente naif come
sembra oggi, nella prima definizione si tentava di dare uno strumento di minima
tutela sia previdenziale sia assicurativa a colf e badanti e nello stesso tempo
di introdurre un contratto di lavoro subordinato ma per prestazioni del tutto
saltuarie a disposizione dei datori di lavoro. Il lavoro intermittente è stato
poi abrogato e quindi reintrodotto nell’arco di soli sei mesi nel 2008. Mentre
il lavoro accessorio è rimasto quasi inutilizzato, silente, fino al 2010 quando
ha iniziato un trend di crescita costante in rapporto a un rapido cambio
morfologico del mercato del lavoro italiano. Una vera esplosione dopo la legge
Fornero nel 2012.
Con la legge Fornero se da una
parte si riduce il campo di applicazione delle prestazioni intermittenti
introducendo l’obbligo di comunicazione preventiva della chiamata, per evitare
il ricorso ad un uso improprio, contemporaneamente però si svincola quasi
totalmente il lavoro accessorio, con i ticket lavoro reperibili facilmente
persino in tabaccheria, dalla regolamentazione sia per campi di attività (sono
ora inclusi servizi e esercizi a fini di lucro) sia rispetto ai limiti di
quantum annuale consentito (fino a 5 mila euro l’anno come soglia di utilizzo).
Nel 2013 con il decreto Lavoro del governo Letta si inaspriscono i limiti per
il lavoro intermittente, introducendo la soglia massima delle 400 giornate in
tre anni, e si liberalizza ancor più quello accessorio, eliminando addirittura
il requisito della occasionalità della prestazione lavorativa. Nel 2015 arriva
il Codice contratti, che innalza fino a 7 mila il tetto di utilizzo massimo. Quindi,
per volontà del presidente Inps Tito Boeri, con il decreto correttivo del Jobs
act nel 2016 si impone la comunicazione preventiva all’Inps dell’inizio
temporale della prestazione riferita al singolo voucher. Infine nel marzo 2017,
per disinnescare il referendum abrogativo per il quale la Cgil ha raccolto 3, 3
milioni di firme, un nuovo decreto legge abroga i voucher e a luglio li
sostituisce con il Libretto di famiglia e con un contratto di prestazione
occasionale, che però non riscuotono molto successo tra i datori di lavoro.
Dove sono finiti lavoratori prima pagati a voucher?
Nella ricerca dell’INAPP si cerca
di dare risposta a questa domanda e si mette in evidenza una trasmigrazione,
come per vasi comunicanti, tra lavori a chiamata e voucher ogni qual volta uno
dei due istituti viene normato più severamente. Nello stesso tempo i
ricercatori Marco Centra, Michelangelo Filippi, Manuel Marocco, Roberto
Quaranta e Stefano Sacchi fanno notare che “La reazione dei datori di lavoro
all’introduzione della tracciabilità della prestazione in entrambi gli istituti
potrebbe evidenziare una tendenza all’utilizzo del lavoro discontinuo anche per
nascondere quote di lavoro sommerso”.
Non è tutto lavoro nero
mascherato, la quota stimata è di circa un quarto del totale. Viene comunque
sottolineato l’impressionante boom dei contratti a chiamata dopo l’abolizione
del voucher nel marzo 2017: l’aumento tendenziale è del 98,2% e addirittura del
279,4% nel mese di aprile. Così nell’arco del secondo trimestre del 2017 il lavoro
a chiamata ha una progressione di oltre il 150%. Non solo. Nell’anno 2017 una
parte di ex voucheristi vengono contrattualizzati in forme più stabili, a tempo
determinato (dal 5,3% del 2016 al 21,1% del 2017) e a somministrazione (passa
dal 5,4% del 2016 al 25,9 % del 2017). E si stima che in un 40% dei casi si
tratti dello stesso committente, che evidentemente ha cercato un’altra forma di
rapporto per non perdere il lavoratore già utilizzato.
Quanto alla rilevanza della
questione sulla regolamentazione del lavoro discontinuo, bisogna ricordare come
sia ancora in corso una ristrutturazione silente dell’economia verso una
diffusione sempre più larga di quella che viene chiamata “quarta rivoluzione
industriale”, dominata dalle offerte di lavoro della Gig economy o economia dei
lavoretti, dei lavoratori on tap, a gettone. (Workers act, 2015, Sbilanciamoci)
Come scrive Roberto Ciccarelli
nel fondamentale libro Forza Lavoro (gennaio 2018, Derive-Approdi, 18 euro), la
“quarta rivoluzione industriale” serve “a intensificare lo sfruttamento sul
lavoro povero digitale e a concentrarlo nei flussi di produzione”. Anche se in
Italia esistono ancora 12 milioni di lavoratori dipendenti, tra il 2012 e il
2016 le professioni che sono cresciute di più sono state: commessi alla vendita
al dettaglio, addetti agli affari generali, facchini addetti allo spostamento
merci, addetti alla pulizia di negozi e uffici, segretari, autisti di camion,
autisti di taxi, addetti all’imballaggio, personale dei servizi di
ristorazione, progettisti di software, addetti all’accoglienza turistica.
(L’impatto della quarta rivoluzione industriale sulla domanda di professioni,
settembre 2017, Osservatorio dei consulenti del lavoro)
Se ne deduce una trasformazione
del tessuto produttivo, dove la crescita marginale dei nuovi posti di lavoro si
concentra nel settore dei servizi, e nel contempo una dinamica in cui crescono
gli impieghi nel back office e diminuiscono quelli del front office, a stretto
contatto con i clienti che dalle banche ai supermercati nel settore dei servizi
vedono i rapporti con la clientela sempre più automatizzati. In più, sempre
nella Gig economy, l’ormai innumerevole diffusione delle App vede il lavoro su
piattaforma interessato alla voucherizzazione.
Il ritorno della nuvola dei
voucher nella legge “dignità”, in autunno potrebbe portare una forte turbolenza
nel governo a trazione leghista.
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