Paolo Cacciari – Comune info
24 agosto 2018
La costruzione del viadotto
spezzato di Genova cominciava nel 1963, l’anno del Vajont. Il crollo della diga
più alta del mondo, fece 1910 morti, ma le tragedie italiane provocate dal
collasso di infrastrutture e grandi impianti di produzione industriale sono
state centinaia. C’è chi ancora sostiene che sia il prezzo inevitabile da
pagare all’avanzare del progresso, e naturalmente per ogni lutto ci sono
responsabilità precise e soggettive (quasi mai perseguite), ma c’è una logica
comune che segna il modus operandi di chi investe, dei proprietari, dei gestori
e di chi ha costruito il pensiero moderno dello sviluppo. Mi è stato detto –
scrive Paolo Cacciari – che per una grande impresa risarcire i danni dei
disastri è spesso più conveniente che modificare i piani produttivi. Non a caso
uno dei motori di questo “sviluppo” sono le società di assicurazione. La logica
che guida l’economia capitalistica è sempre quella della remuneratività a breve
degli investimenti. Che sia venuto davvero il tempo di fare un bilancio “laico”
delle privatizzazioni?
Mi è parso strano, in questi
giorni, che quasi nessuno si sia ricordato del disastro del Vajont (9 ottobre
1963; 1.910 morti). Anche quella era una meraviglia dell’italica genialità dell’ingegneria
del cemento armato: la diga più alta del mondo, inaugurata pochi anni prima.
Anche allora la società privata che la gestiva (la Sade) – e con lei tutte le
autorità statali e le principali fonti di informazione – preferì ignorare gli
allarmi pur di non interrompere la produzione e deprezzare i propri capitali.
Ma potremmo citare centinaia di altri casi di tragedie provocate dal collasso
di infrastrutture e impianti produttivi industriali.
Per non andare lontano da Genova
pensiamo all’incendio della petroliera Haven (11 aprile 1991, 5 morti) e alla
ThyssenKrupp (5 dicembre 2007; 5 morti). Certo, per ogni evento ci sono colpe
soggettive rilevanti (anche se quasi mai davvero perseguite), ma c’è anche una
logica comune che sottende il modus operandi di investitori, proprietari,
gestori, autorità regolative e, più in generale, il pensiero moderno di
sviluppo, progresso e prosperità. Pensiamoci per un istante. E’ stato detto da
un allievo dell’ing. Morandi, progettista del viadotto Polcevera, (intervista
al docente Sylos Labini dell’Università La Sapienza, “Il ponte Morandi è arte”,
il manifesto 17 agosto) che il ponte è stato costruito in cemento armato
tenendo conto “anche al rapporto costi-benefici (…). L’acciaio per l’economia
italiana del periodo era proibitivo, i costi non avrebbero reso possibile la
costruzione dei ponti”. Ho letto e ascoltato basito che opere pubbliche come
quelle in questione sono programmate per un tempo di vita predefinito di 50-60
anni. Ho pensato agli acquedotti romani e al ponte di Rialto e ho capito i
differenti modi di concepire le attività umane delle diverse civiltà. Ma pure
ammettendo che la nostra civiltà super-accelerata, iperconsumistica e priva di
senso del limite sia la più moderna e desiderata possibile, perché i suoi
progettisti e i loro committenti e finanziatori non programmano anche le
manutenzioni e il fine ciclo dell’opera preferendo invece spremere il limone
fino a bucare la scorza?
Mi è stato detto che per una
grande impresa risarcire i danni di disastri è spesso più economico che
modificare i propri piani produttivi. Non a caso uno dei motori di questo
“sviluppo” sono le società di assicurazione. La logica che guida l’economia
capitalistica è stata sempre quella della remuneratività a breve degli
investimenti. Peccato che questi “utili” siano stati garantiti ai Benetton e
agli altri “capitani coraggiosi” dell’imprenditoria italiana dalle generose
privatizzazioni e svendita del demanio dello Stato avviate dai governi dell’era
iperliberista.
Genova, 2018
Permettetemi una antipatica
autocitazione (Liberazione, 15 giugno 2006), quando Rifondazione Comunista
tentò di bloccare le proroghe concesse dal ministro Di Pietro alle concessioni
autostradali: «E’ del tutto evidente che le autostrade costituiscono un bene-servizio
monopolistico naturale. Nessuno è libero di scegliere quale autostrada
percorrere. Non è possibile creare alcuna concorrenza tra beni o servizi unici.
Affidare a privati la loro gestione significa regalare una rendita di
posizione. Per “controllarla” servirebbero regole, autorità di vigilanza,
controlli… costosi, mai efficaci e, soprattutto, assolutamente inutili, solo se
la loro proprietà rientrasse in uno schema di regole pubbliciste.
E’ tempo di fare un bilancio
“laico” delle privatizzazioni. E’ tempo di riproporre la ri-pubblicizzazione
della proprietà di quei beni e di qui servizi che per ragioni di accessibilità
universale garantita (quali l’acqua e l’energia) o per ragioni banalmente
materiali, quali la scarsità e il posizionamento dei suoli, non potranno mai
essere merce scambiabile in mercati davvero aperti e liberi. Se ne stanno
accorgendo anche gli imprenditori veri. I balzelli che servono a realizzare i
facili arricchimenti dei gruppi oligopolisti ricadono non solo sui cittadini,
ma anche sulle imprese.
L’ottimo Massimo Mucchetti sul
Corriere Economia ci segnala che in Florida “la proprietà delle autostrade è
pubblica e dunque non ci sono soci da remunerare e azioni da sostenere” e che
in tutti gli Stati Uniti le “Public Authorities (vere aziende pubbliche di
gestione dei beni comunali, statali, federali) sono un numero così grande che è
difficile addirittura fare un censimento”. Se l’obiettivo deve essere il
servizio, non il profitto, è bene scegliere le forme di gestione davvero più efficienti
e meno costose».
L’articolo che ci ha inviato
Paolo Cacciari è stato pubblicato anche da il manifesto
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