Tommaso Di Francesco - Il
manifesto
26 agosto 2018
Parafrasando Ennio Flaiano, la
situazione è tragica ed insieme seria. Il ministro degli interni – mentre
scriviamo la denuncia delle sue prevaricazioni arriva al Tribunale dei ministri
– non è il rappresentante di governo della repubblica italiana che ha giurato
sulla Costituzione nata dalla Resistenza. No, Matteo Salvini è un ministro
degli interni «ungherese» e si affida alle decisioni che prenderà con il
premier di Budapest Viktor Orbán – così ha ammesso nell’intervista al Corriere
della sera di venerdì – nel vertice che terrà con il premier magiaro martedì
prossimo. Per il quale i 5S si sono affrettati ieri a chiarire che di «incontro
politico e non istituzionale si tratta». Un po’ goffamente, visto che nello
stesso giorno il presidente del Consiglio Giuseppe Conte incontrerà a Roma il
premier ceco Andrej Babic, piazzista di sistemi di controllo di confini e
migranti.
Il fatto è che non un politico
qualsiasi ma il ministro degli interni della repubblica è schierato con la
linea di Orbán: non si limita infatti a diffondere odio, facendo credere che
gli italiani siano assediati dai migranti, nella fattispecie dai 150
sequestrati sulla Diciotti e in condizioni sempre più disperate, impediti
finora nel loro diritto internazionalmente riconosciuto a chiedere asilo, su
una nave militare italiana che non può attraccare in un porto italiano – ci
sarebbe davvero da augurarsi una indignazione morale degli uomini e delle donne
in divisa.
Salvini di più insiste a strumentalizzare
l’occasione per confermare la sua assoluta contrarietà all’Unione europea,
proprio come i Paesi di Visegrad, introducendo di fatto l’Italia in quella
compagine iper-nazionalista guidata Orbán: che non vuole un solo migrante, è
contro lo stato di diritto, reprime la libertà di stampa e penalizza le Ong.
Tragico e serio è il fatto che non sia solo, troppo spesso rincorso dal clone
istituzionale Di Maio e dal presidente fantasma del Consiglio Giuseppe Conte
che, ogni dove, si associano. Al punto da esternare l’intenzione di uscire
dall’Ue: che altro è se non questo la minaccia, di memoria balcanica, di non
contribuire al bilancio comunitario?
Restando alla fine più isolati di
prima sulla redistribuzione dell’accoglienza. Ma la battaglia dentro l’Unione
europea era ed è contro nuovi muri e fili spinati, contro l’esclusiva fortezza
Europa e la sua logica solo monetaria, contro la lontananza dai temi del
welfare e del lavoro. Invece con Salvini, Di Maio e Conte viene perfino
minacciata l’uscita dall’Unione, verso un orizzonte sovranista di patrie
identitarie.
In pochi mesi lo svelamento del
contratto giustizialista-populista è completo, come la sua sintesi «culturale»:
il consociativismo corporativo. Prevede la fidelizzazione degli italiani che
«vengono prima» – con accorta strategia di annunci e sottofondo di applausi
petroliniani da regime (la differenza con gli anni Venti è la cloaca digitale di
Facebook) – tutti contrapposti ai «nemici» migranti; fin dalle spese di
bilancio. Presentando così le risorse per l’accoglienza – inferiori ormai a
quelle per la repressione delle migrazioni — in contrappozizione a quelle del
reddito di cittadinanza, del welfare, dei terremotati, dei disabili, della
ricostruzione del Ponte Morandi, dei «poveri», della sanità e dell’istruzione.
Una manovra sporca e menzognera.
Perché i numeri dicono il
contrario. I migranti arrivati in Italia e che hanno trovato lavoro contribuiscono
al nostro reddito, a cominciare dal pagamento delle pensioni; e versano sangue
raccogliendo il nostro rosso pomodoro; i nuovi arrivi sono crollati in un anno,
dalle poco più di 80mila persone a meno 20mila. Ma grazie ai lager in Libia e
tacendo che sono aumentati di più del 20% i morti nelle fosse comuni del
Mediterraneo, e che si cancellano le vittime che ogni giorno perdono la vita
nel tragitto selvaggio del Continente africano; mentre almeno 700mila persone
secondo l’Onu vagano disperate dal conflitto in Libia del 2011 che l’Occidente
ha voluto. Salvini, ignorante sul conflitto decennale nel Corno d’Africa,
dichiara che in Eritrea «resta la pace», sancita invece sulla carta solo pochi
mesi fa dopo le devastazioni che restano, con una dittatura feroce. Continua la
farsa dell’«aiutiamoli a casa loro», quando invece dovremmo smetterla una buona
volta di «aiutarli»: perché il nostro rapporto con l’Africa è di rapina delle
risorse naturali, di sottomissione del loro commercio, di cattura delle loro finanze
e monete, di devastazione ambientale e di libero mercato di armi per le guerre
in corso.
Non contenti, dopo le missioni
del nuovo governo, sulla scia di Renzi e Minniti, dalle inesistenti ma
criminali «autorità libiche», il misfatto che si vuole consumare è l’avvio di
un sistema concentrazionario di campi di concentramento in Africa e in Paesi
non ancora nell’Ue. Ecco la «disponibilità» dell’Albania, proprio da dove negli
anni Novanta arrivavano i primi profughi in fuga dalla guerra civile, ad accettare
quella che sarebbe di fatto una deportazione fuori dall’Europa, senza diritto a
chiedere l’asilo. Magari con coinvolgimento dell’Onu, insidiato dalle macerie
provocate dal militarismo «umanitario» delle troppe guerre seminate non solo in
Medio Oriente. Una prospettiva, per Africa e Balcani, che nega la costruzione
di società democratiche e apre a istituzioni-lager condizionate ai fondi
occidentali.
È tempo di dire basta, di
manifestare queste verità. La differenza tra la democrazia e lo stato di
diritto da una parte e e il populismo identitario-giustizialista dall’altra sta
nelle sorti di quella nave Diciotti ancorata alla disperata nel porto di
Catania, e di tutte le «navi Diciotti» precedenti e dei nuovi sequestri di
persona e respingimenti che l’«ungherese» Salvini prepara. È tempo di ritessere
il filo di una tela strappata, quello di una sinistra solidale e
anti-nazionalista. Non basta più attaccarsi ad un ramo di Fico. È non solo
necessario ma obbligo morale scendere in piazza subito in Italia, laboratorio
di pratiche scellerate di governo, con una grande iniziativa unitaria a Roma
ora, a settembre, contro le politiche del governo sui migranti – come ha
scritto Norma Rangeri venerdì scorso. Per una forte rappresentazione del
malessere diffuso e della rabbia che cresce (cominciano ad essere tante e
importanti, come ieri a Catania, le proteste, i presidii, le voci, dai vescovi
siciliani, ai sindacati, agli organismi umanitari. Per fare questo vale la pena
appellarsi ormai a chi a sinistra, di fronte al disastro renziano, ha votato
per il M5S. Per chiedere se non sia l’ora di risvegliare la proprio coscienza.
Pena l’indifferenza complice. E noi, con Gramsci, odiamo gli indifferenti.
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