Pierre Haski, L’Obs, Francia, da Internazionale
In che momento e a quali
condizioni una volontà internazionale può diventare abbastanza forte per dire “basta”
a una guerra che viola tutte le “regole” prodotte da un secolo e mezzo di
conflitti?
Il momento e le condizioni ci
sono da tempo per il conflitto nello Yemen, ma per ora questo paese si sta
disintegrando sotto lo sguardo passivo del resto del mondo, per i colpi inferti
dalla guerra condotta dall’Arabia Saudita e dai suoi alleati, e per la guerra
civile in cui la prima vittima è come sempre la popolazione civile. La
situazione è così grave che si è formata una coalizione di 57 organizzazioni
non governative internazionali tra le più importanti per chiedere alle Nazioni
Unite di aprire un’inchiesta internazionale indipendente sugli abusi compiuti
in questo paese dalle diverse fazioni.
Le rivolte delle primavere arabe
del 2011 in favore della libertà hanno fatto rapidamente cadere i regimi
autoritari della Tunisia e dell’Egitto. Ma le rivolte successive sono
degenerate in scontri che hanno fatto sprofondare interi paesi in guerre di
natura diversa come è successo in Libia, in Siria e nello Yemen.
Così la lotta per il potere nello
Yemen, conseguenza di una rivoluzione incompiuta, è servita da pretesto a
formare, nel marzo del 2015, una coalizione condotta dalla vicina Arabia
Saudita. Riyadh voleva dare una dimostrazione di forza all’Iran, accusato di
essere dietro i ribelli houthi, e uno dei protagonisti della crisi yemenita.
Riyadh ha deciso di intervenire dopo che gli houthi, alleati dell’ex presidente
Ali Abdallah Saleh, hanno occupato la capitale yemenita Sanaa e Aden, la
capitale del sud.
Nonostante la sua inesperienza,
il giovane principe Mohamed bin Salman, appena nominato ministro della difesa
dell’Arabia Saudita, voleva mostrare il “risveglio sunnita” nei confronti di
quella che Riyadh considera l’affermazione dell’influenza iraniana in una parte
del mondo arabo (Libano, Siria, Iraq, Yemen), e al tempo stesso una
dimostrazione di forza personale nei giochi di potere della monarchia
wahhabita.
Non a caso nel giugno scorso
Mohamed bin Salman è diventato il principe ereditario dell’Arabia Saudita
cambiando l’ordine di successione in suo favore.
Conseguenze
drammatiche
Il problema è che questa guerra,
condotta per lo più dagli eserciti molto ben equipaggiati dell’Arabia Saudita e
degli Emirati Arabi Uniti in un paese che figura tra i più poveri del mondo,
non è andata come previsto. Non solo l’operazione infelicemente nominata
“Tempesta decisiva” non ha permesso di ottenere dei successi militari determinanti,
ma soprattutto ha avuto delle conseguenze umanitarie drammatiche per i 28
milioni di yemeniti.
I bombardamenti, tutt’altro che
mirati, hanno riportato il paese indietro di decenni con la distruzione delle
città e delle infrastrutture. Inoltre, la guerra è stata seguita dalla carestia
e da epidemie su vasta scala – sei milioni di persone rischiano di morire di
fame secondo le ong – che trovano le organizzazioni umanitarie per lo più
impotenti.
L’ultima è stata la grande
epidemia di colera di questa estate. Un contagio che, secondo Libération, ha
dato allo Yemen il triste primato della più grande epidemia di colera dal 1949,
anno in cui sono stati raccolti per la prima volta dei dati ufficiali.
In un paese dove la metà delle
strutture sanitarie è stata chiusa o distrutta nel corso di bombardamenti
spesso intenzionali, come aveva denunciato l’anno scorso l’organizzazione
Medici senza frontiere (Msf), portare dei soccorsi è una vera e propria
impresa.
Il think tank Crisis group, con
sede a Bruxelles, afferma che la fame di cui soffre il 60 per cento degli
yemeniti non è affatto dovuta a cause naturali ma all’azione “voluta” dei
belligeranti di “criminalizzare l’economia”, accompagnata all‘“indifferenza” e
al ruolo “complice svolto dalla comunità internazionale, compresi i membri più
importanti del Consiglio di sicurezza [dell’Onu] come gli Stati Uniti, il Regno
Unito e la Francia”.
È impossibile infatti trovare una
posizione chiara della Francia su questo conflitto. Del resto Parigi aveva
sostenuto l’entrata in guerra dell’Arabia Saudita nel marzo 2015, e anche se il
presidente Emmanuel Macron ha preso le distanze da Riyadh in un suo grande
discorso di politica estera il 5 settembre a Parigi rifiutando di “scegliere”
tra sunniti e sciiti, si è comunque astenuto dal citare lo Yemen.
Laboratorio
jihadista
La situazione è ancora peggiore
per quanto riguarda Donald Trump, che in occasione della sua visita a Riyadh –
il suo primo viaggio internazionale nel maggio scorso – ha criticato
soprattutto l’Iran, con grande soddisfazione dei suoi interlocutori. Del resto
gli Stati Uniti sono direttamente coinvolti perché è proprio in questo paese
che Trump ha autorizzato dieci giorni dopo il suo insediamento alla Casa Bianca
la prima operazione delle forze speciali del suo mandato, peraltro conclusasi
con un fallimento, e diverse decine di raid aerei.
Questa passività diplomatica, per
paura di inimicarsi un importante “cliente” o per calcolo strategico contro
l’Iran, ha l’effetto di mantenere in vita una guerra insensata, i cui obiettivi
si sono da molto tempo persi nella sabbia, e che al contrario oggi si sta
trasformando in un terreno fertile o addirittura da “laboratorio” – secondo la
formula utilizzata da Le Monde – per gruppi jihadisti come Al Qaeda.
Questo conflitto non attira
l’attenzione che meriterebbe. Le difficoltà di questo teatro di guerra
ostacolano la presenza dei giornalisti, e ogni incursione dei mezzi
d’informazione, come quella di questa estate dei nostri colleghi di Le Monde
Jean-Philippe Rémy e del fotografo Olivier Laban-Mattei, ha il merito di fare
un po’ di luce sull’orrore yemenita prima che cali di nuovo il buio.
La portata delle violazioni delle
elementari “regole ” umanitarie di guerra, come il reclutamento di bambini
soldato, le strutture sanitarie trasformate in veri e propri bersagli o il
bombardamento dei quartieri residenziali, giustifica quanto meno l’apertura di
un’inchiesta imparziale delle Nazioni Unite come chiedono diverse ong come
Human rights watch, Amnesty international, Medici senza frontiere o la Rete
araba di informazione sui diritti dell’uomo (Anhri) con sede la Cairo.
“L’inchiesta dovrebbe avere lo
scopo di accertare i fatti e le circostanze, e di raccogliere e conservare le
prove e chiarire le responsabilità delle presunte violazioni del diritto
internazionale dei diritti umani e delle trasgressioni del diritto
internazionale umanitario, in vista di mettere fine all’impunità e assicurare
la responsabilizzazione dei vari belligeranti”.
La diplomazia europea potrebbe
farsi portatrice di questa istanza, alla stregua di Emmanuel Macron che nel suo
discorso di politica estera ha pronunciato un grande elogio dei diritti umani,
che ha definito “non solo valori occidentali, ma princìpi universali, norme
giuridiche liberamente adottate da tutti i paesi del mondo che dobbiamo
continuamente spiegare, difendere e migliorare”.
Da molto tempo un capo di stato
non aveva messo così in evidenza i diritti umani, diventati negli ultimi anni i
parenti poveri della diplomazia. Ma di fronte al cinismo dominante nelle
relazioni internazionali in questo inizio di ventunesimo secolo le parole non
hanno molto peso, e purtroppo gli yemeniti ne pagano in silenzio le
conseguenze.
(Traduzione
di Andrea De Ritis)
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