giovedì 28 giugno 2018

Consumare di più? di Giorgio NEBBIA (Officina dei saperi)



I mutamenti climatici, gli inquinamenti, la congestione urbana, l’erosione del suolo non sono punizioni divine, ma le dirette conseguenze delle operazioni, squisitamente umane, della produzione e dell’uso delle merci, dei beni materiali ottenuti per trasformazione delle risorse della natura.
Eppure sembra che l’unico importante problema del futuro del nostro paese riguardi l’aumento della produzione e dei consumi proprio di tali merci.
Noi tutti siamo sollecitati a consumare; è un invito del governo, della pubblicità, anche di quella delle stesse aziende pubblicitarie che ci spiega che l’economia tira se si consuma. Consumare di più è lodevole e anzi necessario – dicono – per assicurare l’occupazione.
La catena è chiara: acquistare più merci e servizi significa incentivare la produzione che significa più lavoro, più redditi ai lavoratori e alle loro famiglie che quindi possono acquistare più merci e servizi; i quali servizi a loro volta richiedono merci, materiali ed energia.
La mobilità è assicurata con autoveicoli di acciaio, plastica e gomma, che si muovono se alimentati con benzina, che si ricava importando petrolio; le comunicazioni sono assicurate con televisori, telefoni, computer che sono di plastica, metalli vari, che ricevono radiazioni emesse da antenne metalliche e tutti richiedono elettricità che si ottiene dal petrolio; gli alimenti richiedono prodotti agricoli, lattine metalliche, imballaggi di plastica e cartone, impianti di trasformazione e conservazione fatti di metalli e alimentati con energia.
L’imperativo di “consumare” come virtù assoluta ha tre inconvenienti.
Il primo è che la capacità di acquisto delle famiglie si satura, se non altro per motivi di spazio; una famiglia non può possedere tre automobili, quattro frigoriferi, sette divani, dieci orologi e quindici telefoni cellulari. Purtroppo di questa saturazione del mercato ci si accorge quando è troppo tardi. All’inizio i venditori sono presi dalla frenesia di accontentare e sollecitare dei compratori sempre alla ricerca di altri e nuovi oggetti, ma arriva un momento in cui, o perché passa la moda, o perché cominciano a scarseggiare i soldi, i compratori vengono meno e la produzione resta invenduta. I produttori devono smettere di produrre e licenziano i lavoratori.
Nessun governo ha il coraggio di avvertire gli imprenditori quando appaiono i segni della saturazione del mercato e quando tale crisi arriva – è il caso degli autoveicoli, dei telefoni cellulari, dei computers, degli elettrodomestici, degli arredi domestici – i governi devono fare i conti con le tensioni sociali dovuti alla disoccupazione.
Il secondo inconveniente è che, grazie alla globalizzazione, le merci che acquistiamo sono prodotte dovunque nel mondo, con un sempre minore impiego di lavoro italiano; ogni oggetto che acquistiamo “contiene” ferro proveniente dall’America, plastica ottenuta col petrolio asiatico, oro e tantalio di provenienza africana, rame di provenienza canadese o cilena e, soprattutto, lavoro a basso costo di Singapore o indiano o albanese. Purtroppo non è vero che l’aumento dei consumi fa aumentare in Italia la produzione e il reddito dei lavoratori; fa aumentare le importazioni, pagate solo in parte e sempre meno con le esportazioni di merci italiane, e fa aumentare l’indebitamento dei lavoratori-consumatori. Quando i venditori promettono “tasso zero” per i prestiti con cui acquistare nuovi oggetti e merci, il felice acquirente non dimentichi che un giorno dovrà restituire i soldi ai i benèfici finanziatori.
Si può anche essere contenti che l’Italia contribuisca alla crescita economica degli altri continenti andando a fabbricare oggetti con materie prime straniere e lavoratori stranieri in paesi lontani, ma ciò comporta minore occupazione e minore reddito e quindi minore capacità di acquisto, per i lavoratori italiani.
D’altra parte se si vuole essere europeisti, internazionalisti, terzomondisti, se si vuole che anche i lavoratori del Sud del mondo abbiano salari equi e condizioni di lavoro migliori; se si vuole che i paesi del Sud del mondo ricevano prezzi equi per i loro minerali, prodotti agricoli e forestali, materie prime e manufatti.
Se si vuole che vengano applicate, anche nel Sud del mondo, norme decenti per la difesa della salute e dell’ambiente e contro gli inquinamenti – tutte le cose che giustamente chiedono i movimenti alla ricerca di un nuovo mondo – bisogna rassegnarsi, in Italia, ad un inevitabile aumento del prezzo delle merci e ad una diminuzione dei consumi.
Il terzo inconveniente sta nel fatto che per acquistare nuovi oggetti bisogna buttare via i precedenti “vecchi” oggetti. È il risultato della politica seguita da anni con la “rottamazione”: se si butta fra i rottami la vecchia automobile, il vecchio televisore, il vecchio computer, qualcuno – a volta a volta, il governo, o il venditore – fa pagare di meno le merci nuove, magari facendo credere che l’acquirente rende un servizio all’ecologia.
Le discariche di rifiuti sono piene di autoveicoli, frigoriferi, lavatrici, macchinari vari, spesso ancora in buone condizioni e funzionanti, con il loro carico di sostanze tossiche o inquinanti che aspettano solo che la corrosione le faccia finire a intossicare le acque e il suolo.
La salvezza può essere cercata soltanto in una revisione critica di quello che si produce e dove e come.
Se è centrale l’aumento (o almeno la conservazione) dell’occupazione, bisogna allora chiedersi che cosa possano produrre, di vendibile, di utile, le fabbriche che stanno licenziando i lavoratori.
Chi produceva autoveicoli di modelli che hanno saturato il mercato e che le strade urbane non possono più sopportare, potrebbe produrre mezzi di trasporto collettivi, migliori degli autobus che circolano nelle nostre città, delle carrozze ferroviarie che circolano sulle nostre rotaie? o mezzi di trasporto adatti per i paesi emergenti, dove non ci sono autostrade ma strade sterrate? o mezzi di trasporto riciclabili? e la stessa domanda si può porre per gli elettrodomestici, i televisori, gli strumenti di telecomunicazione, i tessuti e le scarpe, eccetera.
O non si potrà assicurare occupazione nelle operazioni di ricupero, dalle montagne di scarti, di materie ancora utilizzabili, dalla plastica, ai metalli comuni, ai metalli preziosi dei circuiti elettronici? O non si potrà creare occupazione nelle opere pubbliche di difesa del suolo e di aumento delle risorse idriche?
L’obiezione è che le imprese sono libere di fare quello che vogliono senza nessun controllo, ma la disoccupazione che segue la fine dei profitti facili fatti dalle imprese producendo merci sbagliate, è fonte di costi e di dolori per la collettività.
Possibile che la collettività e i suoi governi non abbiano niente da dire? Eppure, quando vogliono fare dei favori alle imprese, i governi del libero mercato sanno trovare gli strumenti adatti: maggiori o minori imposte sulle merci o manufatti di cui vogliono scoraggiare o aumentare i consumi, standards merceologici che favoriscono le esportazioni o scoraggiano le importazioni.
Perché la collettività non dovrebbe chiedere ai governi un controllo sulla, e un orientamento della, qualità della produzione sotto il vincolo della difesa dell’occupazione?

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