Nei
tre decenni precedenti la fondazione di Israele circa 60.000 ebrei lasciarono
il Paese per ragioni finanziarie o ideologiche. Un nuovo libro rivela una
pagina nera della storia sionista, compresa l’espulsione forzata degli
immigrati ebrei “onerosi”
di Nir Hasson – Haaretz, da Nena
News
(Traduzione
di Amedeo Rossi – Zeitun)
Nell’ottobre 1926 a Varsavia ebbe
luogo un avvenimento decisamente inusuale: si tenne un processo pubblico contro
il movimento sionista per il modo in cui aveva trattato quelli che erano
immigrati nella Palestina sotto mandato britannico durante quel periodo. A
testimoniare erano ex-immigrati che avevano tentato senza successo la sorte
nella Palestina mandataria e poi se n’erano andati. Uno di loro, un industriale
di nome Rubin, era partito quando la fabbrica di sigarette che aveva fondato
non riuscì ad entrare nel mercato locale perché i fumatori preferivano marche
importate, per cui chiuse la sua fabbrica e tornò in Polonia.
Nella sua testimonianza Rubin
raccontò di come venne convocato ad una riunione con la “Brigata dei Difensori
della Lingua”, un gruppo di appoggio alla recentemente rinata lingua ebraica
nella Palestina mandataria. Lo rimproverarono per i suoi pacchetti di
sigarette, che mostravano diciture in inglese, mentre sulla scrivania del
segretario [della brigata, ndt] che lo rimproverava si trovava un pacchetto di
sigarette “Mabrouk” di fabbricazione egiziana.
“Il testimone concluse affermando
che nella Palestina sotto Mandato britannico venivano semplicemente boicottati
i prodotti degli ebrei polacchi – anche se erano i migliori ed i più
economici”, riferì il quotidiano Doar Hayom [uno dei primi giornali sionisti in
Palestina e di destra, ndt].
Il processo pubblico mette in
luce una storia sconosciuta e, secondo qualcuno, deliberatamente messa a tacere
nella storia sionista: quella degli ebrei che prima immigrarono, ma in seguito
emigrarono durante il periodo dell’incremento della comunità ebraica (l’Yishuv)
nella Palestina del Mandato britannico. Ebrei che erano immigrati per ragioni
ideologiche o per necessità, tentarono la sorte ma ripartirono quando le cose
non gli andarono bene. (In ebraico quelli che lasciano lo Stato ebraico sono
chiamati yordim, che letteralmente significa “scendere”).
Il dottor Meir Margalit ha fatto
una ricerca sulla storia degli emigranti ed ha recentemente pubblicato un libro
in ebraico: “Tornare in lacrime. L’emigrazione durante il periodo del Mandato
britannico”.
Margalit, un ex-consigliere
comunale del Meretz [partito della sinistra sionista, ndt] a Gerusalemme e
immigrato dall’Argentina, a cui spesso è stato chiesto se ha fatto una buona
scelta a venire qui, ha scritto lo studio come tesi di dottorato, prima
all’Università Ebraica e poi all’università di Haifa. Spiega che lo spostamento
di università è dovuto al soggetto della sua dissertazione e alla contrarietà
per il suo interesse riguardo all’argomento.
“Mi hanno etichettato come un
‘nuovo storico’ [corrente storiografica israeliana che ha messo in dubbio la
versione ufficiale delle vicende precedenti e successive alla fondazione dello
Stato, ndt]”, dice Margalit, raccontando come la sua ricerca ha innescato molte
discussioni accese. “Per esempio, è stato scritto che negli anni dal 1927 al
1929 gli emigranti se ne andarono per la carestia. Il tutor della mia tesi ha
sostenuto che, in base ai dati macroeconomici, non c’è stata nessuna carestia
nell’Israele pre-statale. Alla fine siamo arrivati alla conclusione che non ci
fu una carestia ma c’era gente affamata”.
Margalit ha deciso che si doveva
attenere al principio di ascoltare la narrazione degli emigranti come loro
stessi l’hanno raccontata, senza mettersi a discutere con loro.
“Quando la famiglia Mendelsohn
lasciò (la Palestina mandataria) nel 1942 – dopo che l’esercito di Erwin Rommel
aveva raggiunto le vicinanze del Paese – spiegando che ‘non erano fuggiti dalla
furia di Hitler in Germania per caderne preda in Palestina,’ non abbiamo voluto
verificare se in termini militari la paura fosse giustificata,” dice Margalit,
per fare un esempio. Sostiene che quelle voci rivelano un lato oscuro e
ignorato della narrazione sionista.
Un fenomeno significativo
In termini demografici questo è
un fenomeno significativo. Secondo stime, durante la Prima e la Seconda Aliyahs
[lett. “salita”, l’emigrazione degli ebrei in Palestina, avvenuta in varie fasi,
ndt] (1882-1903 e 1904-1914 rispettivamente), oltre la metà di tutti i nuovi
immigrati aveva lasciato il Paese persino prima che scoppiasse la Prima Guerra
Mondiale nel 1914. Margalit si è concentrato sui circa 60.000 immigrati ebrei
che se ne andarono durante il periodo del Mandato, dal 1923 al 1948. Negli anni
di maggior insediamento ebraico nella Palestina mandataria – alla vigilia della
fondazione dello Stato nel 1947 – circa il 10% di tutti i nuovi immigrati
sarebbe emigrato.
Insieme a quelli che se ne
andarono prima dell’inizio del dominio britannico nel 1917, gli emigranti
furono circa 90.000 persone. Tuttavia Margalit sottolinea che, confrontata con
altre ondate di immigrazione durante lo stesso periodo, questa dovrebbe essere
considerata un successo. Per esempio, degli italiani che lasciarono la loro
patria durante lo stesso periodo e andarono in Sud America, circa il 30% tornò
più tardi in Italia.
Ma, a differenza degli italiani,
gli ebrei della Palestina mandataria affrontarono difficoltà molto maggiori
dopo essere emigrati. Ovviamente durante la Seconda Guerra Mondiale non c’erano
possibilità di tornare in Europa, ma era pericoloso persino viaggiare verso
altre destinazioni.
Margalit afferma che c’erano
migliaia di persone che avrebbero voluto emigrare dalla Palestina mandataria,
ma mancavano di mezzi. “A volte non avevano le otto sterline palestinesi per
comprare un biglietto. Ci sono prove di persone che si riunivano nei porti e
gridavano ai nuovi immigrati: ‘Perché venite qui?1′. O andavano agli uffici
delle compagnie di navigazione per vedere se fosse possibile avere un posto in
quarta o quinta classe”.
Altre crude testimonianze
descrivevano come alcune persone erano riuscite a raggiungere un porto europeo,
ma rimanevano bloccate là senza alcuna speranza di raggiungere le città
d’origine, morendo lentamente di inedia e malattie. Questi racconti, sostiene
Margalit, scoraggiavano quelli che volevano lasciare la Palestina mandataria.
Una delle storie più sconvolgenti
riguardante quelli che volevano andarsene dalla Palestina mandataria è quella
delle migliaia di aspiranti ad emigrare che si rivolgevano all’agenzia delle
Nazioni Unite per i rifugiati dopo la Seconda Guerra Mondiale, chiedendo di
essere inclusi nelle liste dei rifugiati con diritto a tornare ai loro Paesi
d’origine in Europa – come gli sfollati dispersi in tutta Europa.
Un gruppo chiamato
“Organizzazione per il Ritorno degli Immigrati Tedeschi” si rivolse all’Onu con
la richiesta di rimandarli in Austria e in Cecoslovacchia. Nel 1947 vennero
inoltrate 485 richieste per un passaporto austriaco nella Palestina mandataria.
E il console polacco a Tel Aviv parlò di 14.500 ebrei polacchi che chiedevano
visti per tornare alla loro patria.
La dirigenza sionista lavorò per
impedire che agli ebrei venisse concesso il “diritto al ritorno” nei Paesi
europei, sostiene Margalit.
“Ci sono prove di un accordo tra
l’Agenzia Ebraica [una delle principali istituzioni sioniste, ndt] e il
consolato polacco nella Palestina mandataria, affinché provocasse ritardi
infiniti per gli ebrei che volevano tornare, in modo che perdessero il
desiderio di andarsene – dice Margalit – È chiaro perché l’Agenzia non voleva
che tornassero ed è anche chiaro perché non lo volevano neanche i polacchi,
c’erano parecchi problemi di antisemitismo e di odio, così come questioni di
proprietà. Ma è chiaro che se la porta fosse stata aperta il numero sarebbe
notevolmente aumentato”, afferma.
Secondo Margalit, non furono solo
quelli che ebbero successo e si fermarono qui che scrissero la storia
dell’‘Israele pre-statale’, ma anche quelli che non rimasero: “Non sono solo i
vincitori che hanno fatto la storia,. Quando ho osservato la storia con gli
occhi degli emigranti, ho scoperto cose che non conoscevo”.
Per esempio, continua: “In
generale descriviamo l’assimilazione delle prime ondate di aliyah come una
storia di successo – eppure ho improvvisamente capito che non era vero. La
dirigenza ebraica nella Palestina mandataria semplicemente perse il controllo e
quelli che rimasero, lo fecero solo grazie ai propri sforzi”.
Triste e vergognoso
Il libro di Margalit racconta che
la questione più triste e vergognosa riguardo al movimento sionista fu l’emigrazione
forzata – soprattutto dei malati cronici o dei disadattati sociali, che vennero
deportati dalle organizzazioni sioniste in modo che non diventassero un peso
per la comunità ebraica.
Yehoshua Gordon era direttore
dell’ufficio immigrazione a Tel Aviv durante il periodo del Mandato e nel 1921
si lamentò che gli immigrati malati non solo venivano rimandati in Europa, ma
che non stavano ricevendo le cure necessarie in Europa e stavano persino
“morendo di malattia per le strade”. Ma, nonostante le critiche, rimandare
indietro questi immigrati diventò una politica ufficiale nel 1926.
Margalit scrive che, un anno più
tardi, vennero rese pubbliche istruzioni secondo le quali un immigrato che non
fosse in grado di provvedere a se stesso potesse ricevere danaro per coprire le
spese del viaggio di ritorno, mentre quelli che sceglievano di rimanere
avrebbero ricevuto “assistenza economica a breve termine perché trovassero un
contratto di lavoro – se erano in grado di dimostrare che, con questo
contratto, avrebbero potuto sistemarsi stabilmente nel Paese”.
Uno degli immigrati, Moshe
Ashberg, a cui venne detto che se ne doveva andare, effettivamente in lettere
agli impiegati dell’ufficio immigrazione implorò che lo risparmiassero: “Ho
paura di non poter vivere qui, perché non ho nessuno da cui andare,” scrisse.
Ma la maggior parte degli
emigrati se ne andò di spontanea volontà. Tra costoro c’erano imprenditori
borghesi che decisero di tentare la fortuna altrove, e anche pionieri [gli
ebrei che fondarono le prime comunità in Palestina, ndt]. Margalit ha scoperto
che le difficoltà finanziarie erano la ragione principale citata per persone
che tornarono al Paese d’origine o emigrarono del tutto in un altro Paese. La
gente che non trovò lavoro o che vide che la propria situazione stava
costantemente peggiorando scelse di andarsene per “salvare il salvabile”, come
dice Margalit.
C’erano anche quelli che se ne
andarono perché temevano per la propria vita – sia a causa dei tumulti arabi
del 1929, della rivolta araba del 1936-39 o per timore delle truppe di Rommel e
di una possibile occupazione tedesca durante la Seconda Guerra Mondiale. E poco
prima della guerra d’Indipendenza del 1948 [definizione israeliana della guerra
contro i Paesi arabi dopo la fondazione dello Stato di Israele, ndt] gli
inglesi aiutarono la comunità degli ebrei messianici [movimento ebreo cristiano
di matrice evangelica, ndt] a lasciare il Paese, dato che avevano paura sia
degli ebrei che degli arabi.
Rivoluzione
ideologica
Ci furono anche quelli che lasciarono
la Palestina mandataria per pura e semplice nostalgia della patria. “Si trovano
documenti strazianti, gente che scrive: ‘Ho sognato di venire qui, e
improvvisamente sto sognando la casa e la famiglia’”. Altri se ne andarono per
ragioni ideologiche: socialisti che ritenevano che il sionismo stesse tradendo
la sua missione di fondare una società modello; ultraortodossi (o haredi) che
vedevano i pionieri come profanatori della terra, e che preferirono praticare
l’ebraismo nelle “corti” hassidiche in Polonia piuttosto che nel pre-Stato di
Israele.
“Capisco quelli che se ne
andarono per ragioni ideologiche più degli altri, ho avuto pensieri simili –
ammette Margalit – Tuttavia a un certo momento, mentre stavo scrivendo e vedevo
le difficoltà dell’epoca, ho pensato che la domanda non fosse perché la gente
emigrava, ma perché rimase”.
“Il fatto che fosse così
difficile lasciare il Paese è stata la fortuna del movimento sionista – ritiene
Margalit – Se non fosse stato per le circostanze storiche, saremmo arrivati
all’aprile 1948 molto più deboli di quanto eravamo all’epoca. E allora la
decisione di (David) Ben-Gurion (di dichiarare la fondazione dello Stato)
sarebbe stata diversa”.
Margalit, 65 anni, padre di tre
figli e con un nipote, immigrò dall’Argentina nel 1972 come membro del
movimento giovanile del Betar [della destra sionista, ndt]. Poco dopo il suo
arrivo, venne arruolato nell’esercito israeliano e fu uno dei fondatori della
colonia di Netzarim nella Striscia di Gaza. Però venne ferito durante la guerra
dello Yom Kippur, e durante la sua convalescenza in ospedale subì una
rivoluzione ideologica, spostandosi da destra a sinistra.
Per anni è stato attivo nel
Israeli Committee Against House Demolitions [Icahd, Comitato Israeliano contro
la Demolizione delle Case”, ndt] e, quando era consigliere del consiglio
comunale della Città di Gerusalemme, ha lavorato a favore dei palestinesi a
Gerusalemme est.
Ammette che la storia degli
emigrati ebrei lo tocca al di là dell’aspetto della ricerca: “Nel 2012 ho
visitato l’Argentina e mi sono incontrato con membri del movimento (Betar) che
sono rimasti o sono tornati, e ho fatto un confronto tra me e loro – racconta –
Tutti attorno a me erano benestanti, ma io sono uno di quelli che il 4 di ogni
mese si chiede dove troverà i soldi per pagare l’affitto. Mi domando anche che
diritto ho di far crescere i bambini in questo Paese pericoloso, sull’orlo di
un vulcano. Questo è qualcosa che passa per la testa di molti israeliani sani
di mente che conosco”.
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