martedì 31 luglio 2018

MAFIE Beppe Montana, il commissario della catturandi


A dirlo è Teresa Principato che poi aggiunge: "Mafia altra faccia della medaglia della corruzione"

Davide de Bari, AMDuemila
01 agosto 2018

Era il 28 luglio 1985 quando il commissario Beppe Montana della squadra catturandi di Palermo fu assassinato da Cosa nostra. Era al mare a Porticello (vicino Palermo) con la fidanzata Assia, il fratello Gigi, la cognata e una coppia di amici. Il commissario si allontanò dal gruppo per portare a riparare il motoscafo. Mentre si recava dal meccanico due killer a viso scoperto gli spararono e scapparono via in moto. Quel giorno era stato tutto programmato, il poliziotto che catturava i latitanti doveva morire a ogni costo, erano stati progettati tre diversi posti dove sorprenderlo. Parenti e amici udirono gli spari e accorsero sul luogo, ma era troppo tardi.

Catturare i latitanti
Beppe Montana arrivò a Palermo nel 1982 durante la seconda guerra di mafia, che vedeva i corleonesi di Totò Riina e Bernardo Provenzano da una parte e dall’altra i boss palermitani Stefano Bontade, Totuccio Inzerillo e Rosario Riccobono. Fu a Palermo che insieme al vicequestore Ninni Cassarà, Montana fondò la sezione ‘catturandi’ della squadra mobile che aveva come unico scopo quello di arrestare i boss latitanti. Il commissario lavorava con una decina di ragazzi, tutti giovani e motivati. “La squadra di Beppe era unita, di alto livello, - ha ricordato il fratello di Beppe, Dario Montana - formata alla scuola di Cassarà. Facevano sacrifici personali, pagavano affitti di appartamenti che utilizzavano per compiere appostamenti, andavano in giro senza armi, in borghese, per ascoltare ogni sussurro, non sottovalutavano alcuna notizia. Spesso i ragazzi di mio fratello andavano alle feste di paese, magari abbordavano le ragazze per avere informazioni utili, per conoscere il territorio”.
Montana e Cassarà misero su non solo una squadra specializzata in cattura di latitanti, ma elaborarono un nuovo modello investigativo infallibile. Infatti, ebbero risultati significativi come con l'operazione a Bonfornello nel 1984, nel palermitano, dove erano stati arrestati un boss latitante e due mafiosi con posizioni di rilievo insieme a sette affiliati. Tra i criminali catturati durante la sua carriera in polizia, anche gli assassini di Rocco Chinnici e del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, ucciso nel 1982 insieme alla moglie Elisabetta Setti Carraro e all'agente Domenico Russo, oltre ad aver seguito diverse attività investigative insieme a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Montana riuscì anche a scoprire numerose raffinerie di droga e depositi di armi, e insieme a Cassarà e Calogero Zucchetto. Quest’ultimo andava in giro nelle borgate palermitane con il suo motorino a caccia di latitanti o di chi potesse fornirli informazioni. Per questo fu assassinato da due killer di Cosa nostra il 14 novembre 1982.
Il commissario aveva anche contribuito a stilare il famoso “rapporto dei 162”: il primo vero tentativo di delineare una mappa aggiornata di Cosa nostra e degli equilibri in via di definizione a seguito dell’avvio dell’ultima guerra di mafia. Gli indiziati erano 161 affiliati - tra cui il boss Michele Greco - legati tra loro e facenti parte di diverse famiglie della città e della provincia.
I colpi inferti a Cosa nostra stavano sempre più aumentando, così la mafia dovette correre ai ripari: eliminando i fautori di questa rivoluzione investigativa, come accaduto in passato con Boris Giuliano. E’ così che nell’estate dell’85 furono assassinati prima Montana e qualche giorno più tardi Cassarà il 6 agosto 1985 .

Dopo la morte
Dopo gli omicidi di Montana e Cassarà, le loro squadre furono sciolte e il prezioso lavoro investigativo fu vanificato. “L’omicidio di mio fratello, come quello di altri investigatori, è un delitto politico-mafioso - decretò Dario Montana - perché un poliziotto può restare ucciso durante una rapina, ma in questo caso la sua eliminazione ha come obiettivo la distruzione di un patrimonio investigativo”. Fu Montana ad avere l’idea di costituire un team speciale per scovare i latitanti e per questo è stato condannato a morte.
Dal momento della morte dei due poliziotti, a Palermo non si ricordavano successi come quelli che la squadra Montana portò a termine. Il commissario aveva arrestato la maggior parte dei 475 mafiosi finiti in galera su disposizione del pool antimafia formato da Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Antonino Caponetto, Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta.
Per il delitto di Beppe Montana sono stati condannati all’ergastolo Totò Riina, Michele Greco, Francesco ed Antonio Madonia, Bernardo Provenzano, Bernardo Brusca, Raffaele e Domenico Ganci, Salvatore Buscemi, Giuseppe e Vincenzo Galatolo.
Ieri è stato ricordato dal questore Renato Cortese con una cerimonia di commiato sul luogo del vile attentato, nel corso della quale è stata scoperta una stele in marmo dedicata al ricordo dell’estremo sacrificio e coraggio. Inoltre, è stata anche deposta una corona di alloro.

MAFIE Messina Denaro e quel rapporto ''intimo'' con la mafia agrigentina


A dirlo è Teresa Principato che poi aggiunge: "Mafia altra faccia della medaglia della corruzione"

Redazione, AMDuemila
01 agosto 2018



I rapporti tra i boss agrigentini e Matteo Messina Denaro che erano veramente intimi. C’è sempre stata vicinanza tra la mafia Agrigentina e quella Trapanese". Lo ha detto nei giorni scorsi Teresa Principato, sostituto procuratore nazionale alla Direzione nazionale antimafia, che per anni ha dato la caccia a Messina Denaro, ma che, in precedenza, si era occupata anche della mafia Agrigentina da sostituto alla Dda di Palermo, intervenendo alla quarta edizione de "L’Alba della legalità".
Il magistrato risultava infatti tra i premiati dell’iniziativa di Libera, che si svolge a Santa Margherita Belice, assieme all’ex procuratore della Repubblica di Palermo, Gian Carlo Caselli. La Principato ha poi aggiunto: "La mafia è in una fase di grande cambiamento. Dopo un lungo momento di gravissimo impasse in cui cosa nostra ha dovuto rinunciare alle regole portanti dell’organizzazione che hanno consentito alla stessa di reggere dalla prima metà dell’Ottocento, oggi possiamo vedere la mafia come l’altra faccia della medaglia della corruzione. Oggi i mafiosi hanno deciso di non colpire più con azioni violente perché hanno ben capito che questo attira su di loro l’azione della polizia e della magistratura. Però non si scoraggiano, ma, come sempre accade, cambiamo camaleonticamente pelle e impiegano i soldi da loro raccolti nella corruzione".
Alla Tavola Rotonda, moderata dallo scrittore Salvo Ognibene, ovviamente ha partecipato anche Caselli che ha parlato della sua esperienza da magistrato in Sicilia: "Un pezzo della mia vita. Sette anni a dirigere la Procura di Palermo con luci e ombre, alti e bassi, difficoltà e successi, stanno dentro, ti segnano. In Sicilia io torno sempre volentieri perché rappresenta un pezzo importante della mia vita". Nel corso della serata sono stati anche premiati per il loro impegno antimafia i registi Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, l’autore di opere teatrali e psicologo Martino Lo Iacono, il fotografo Antonio Vassallo, l’associazione Agende Rosse ed i giornalisti Davide Lorenzano e Paolo Borrometi.

MAFIE 'Ndrangheta, scoperta la nuova ''locale'' di Roccabernarda


Operazione Trigarium, i carabinieri arrestano undici persone

Redazopme, AMDuemila
01 agosto 2018


Importante operazione, ieri mattina, da parte dei carabinieri della Compagnia di Petilia Policastro che hanno eseguito un'ordinanza di custodia cautelare emessa dal Gip distrettuale di Catanzaro su richiesta della Dda, nei confronti di 11 persone ritenute responsabili, a vario titolo, di associazione per delinquere di tipo mafioso, omicidio, detenzione e porto illegale di armi, estorsione, ricettazione, falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici, abuso d'ufficio, vari danneggiamenti e uccisione di animali.
Un'inchiesta (denominata "Trigarium") che, così come ha spiegato il Procuratore Capo di Catanzaro, Nicola Gratterei, ha permesso di svelare l'esistenza di una vera a propria locale di 'Ndrangheta a Roccabernarda oltre che a individuare gli autori dell'omicidio di Rocco Castiglione e del tentato omicidio di suo fratello Raffaele. L'indagine infatti è partita proprio a seguito dell'omicidio Castiglione, avvenuto il 31 maggio del 2014 in un agguato nelle campagne di Roccabernarda. "Avere un 'locale' - ha aggiunto Gratteri - vuol dire avere una rappresentanza nel 'gotha' della 'ndrangheta. Come accade sempre più spesso, anche in questa inchiesta emergono i rapporti con la pubblica amministrazione". In particolare sarebbe emerso il rapporto di un assessore comunale e di un dipendente dell'Ufficio tecnico comunale con il reggente della cosca Antonio Bagnato".
Secondo gli inquirenti Bagnato aveva assunto un ruolo tale nella vita dei cittadini del comune del Crotonese "tanto da avere pretese di conciliatore nelle controversie tra privati e farsi addirittura chiamare 'santo patrono'". 
Le indagini hanno consentito anche di accertare in un anno, da maggio 2014 a maggio 2015, una serie di furti e uccisioni di animali d'allevamento e da cortile, danneggiamenti aggravati alle colture, a veicoli, a sistemi irrigui ed a mezzi meccanici, nonché estorsioni ai danni di persone intimidite, tanto da farle desistere anche solo dal presentare denuncia sui torti subiti. Tutto era finalizzato, infatti, secondo quanto riferito dai carabinieri, a raggiungere uno stato di assoggettamento della popolazione attraverso un atteggiamento prevaricatore e, di conseguenza, il controllo e lo sfruttamento delle poche risorse economiche della zona.
Proprio rispetto alle intimidazioni il procuratore aggiunto Vincenzo Luberto ha parlato di "criminalità brutale": "Una criminalità che per intimidire le persone era capace anche di uccidere i loro maiali, fonte di sostentamento per molti".
In riferimento all'omicidio di Rocco Castiglione il comandante provinciale dei carabinieri di Crotone, colonnello Alessandro Colella, ha detto che "Bagnato aveva reputato una grave offesa il fatto che la vittima si fosse rivolta al sindaco per la sistemazione di una strada senza chiedere il suo consenso". Il "locale" di Roccabernarda, ha aggiunto l'ufficiale, assumeva importanza anche per le altre cosche in quanto "su quel territorio venivano nascoste armi ma anche latitanti".

MAFIE I mandanti esterni della strage Chinnici


Record per i contratti a termine, che superano 3,1 milioni. Scacchetti: "L'occupazione è la vera emergenza. Alla luce del boom del lavoro precario, sono incomprensibili i provvedimenti discussi in Parlamento. Serve la causale dall'inizio, no ai voucher"

Giorgio Bongiovanni, AMDuemila
01 agosto 2018


(24 Gennaio 2018) Ieri sera su Rai Uno, con la regia di Michele Soavi e prodotto da Rai Fiction e Casanova Multimedia, è andato in onda “Rocco Chinnici - È così lieve il tuo bacio sulla fronte”. Un film che, grazie alla straordinaria interpretazione di Sergio Castellitto (a dimostrazione che l’Italia ha in dote delle vere eccellenze nel mondo della recitazione), mostra non solo la figura del magistrato (ideatore del pool antimafia che poi verrà realizzato da Antonino Caponnetto) ma anche del padre e del marito che, nonostante l’impegno in prima linea nella lotta alla mafia, cerca di essere presente accanto alla famiglia.
Una vita che è stata spezzata il 29 luglio 1983 in via Federico Pipitone a Palermo, quando il boss mafioso Antonino Madonia premette il pulsante del telecomando che fece esplodere un’autobomba. Rocco Chinnici rimase ucciso di fronte al portone del suo palazzo ed insieme a lui persero la vita i due agenti della scorta, Mario Trapassi e Salvatore Bartolotta, e il portinaio del condominio, Stefano Li Sacchi. Sopravvisse, ferito gravemente, solo l'autista, Giovanni Paparcuri, poi diventato stretto collaboratore di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Un attentato tremendo che riportava in auge la cosiddetta strategia del terrorismo mafioso già vista nel 1963 quando, in una borgata agricola di Ciaculli, venne fatta saltare in aria un’Alfa Romeo Giulietta uccidendo quattro uomini dell'Arma dei Carabinieri, due dell'Esercito Italiano, e un sottufficiale del Corpo delle Guardie di P.S. (attuale Polizia di Stat
L’attacco alle istituzioni si era già manifestato con gli omicidi del giudice Cesare Terranova, del giudice Gaetano Costa e con quello del Generale Carlo Alberto dalla Chiesa, in via Isidoro Carini, ma le stragi mafiose con l’utilizzo di esplosivi, che poi torneranno nel 1992 e nel 1993, iniziarono proprio con l’attentato a Chinnici.
La storia del magistrato, la sua attività investigativa e di contrasto alla mafia, il suo impegno nella sensibilizzazione dei giovani sui rischi della tossicodipendenza e sui collegamenti tra droga e mafia, sono noti. Ci sono però alcuni dettagli che spesso non vengono ricordati o che vengono poco affrontati da quella regia strategica di “professionisti della congiura e del silenzio” che tendono a concentrarsi in particolare sull’ala militare di Cosa nostra. In tanti anni abbiamo sentito parlare di una mafia sconfitta, quasi azzerata. Tuttavia, seppur non si può che plaudire alle numerose operazioni che sono state condotte dagli organi inquirenti (le ultime in questi giorni) bisogna realizzare che ancora oggi esiste un livello di mafia che non è affatto morto o decaduto. Il consigliere istruttore, Rocco Chinnici, è stato il primo a intuire che oltre ai boss e ai picciotti, c'era un terzo livello (anche nel film viene evidenziato) oltre alla Cupola mafiosa. Vi erano personaggi occulti che agivano nell’ombra e che rafforzavano l’organizzazione criminale. E’ per questo motivo che è stato ucciso e viene riconosciuto anche nelle sentenze come quella storica, del 2000, con cui la corte d’Assise di Caltanissetta (presieduta da Ottavio Sferlazza e Giovambattista Tona giudice a latere) ha condannato all’ergastolo esecutori e mandanti (tra cui Salvatore Riina, Bernardo Provenzano ed Antonino Madonia). Condanne che saranno confermate in Cassazione nel novembre 2003, ad esclusione di Matteo Motisi e Giuseppe Farinella (assolti in secondo grado).
In quel processo di primo grado, dove l’accusa era rappresentata dai magistrati Antonino Di Matteo e Anna Maria Palma, si evidenziava come “l’uccisione del giudice Chinnici fu voluta dai cugini Ignazio e Nino Salvo e ordinata dalla cupola mafiosa, per le indagini che il magistrato conduceva sui collegamenti tra la mafia e i santuari politico-economici”.
I Salvo, è riscontrato nelle carte, erano “uomini d'onore della famiglia di Salemi. Avevano un ruolo di raccordo, nel panorama politico siciliano, quali esponenti di spicco di un importante centro di potere politico-finanziario, tra Cosa nostra ed una certa classe politica”. In particolare con la corrente andreottiana della Democrazia cristiana.
In quel dibattimento, condotto dal pm Di Matteo che oggi è rappresentante dell’accusa assieme ai pm Roberto Tartaglia, Vittorio Teresi e Francesco Del Bene al processo sulla trattativa Stato-mafia, vennero raccolte prove definitive che non fu solo la mafia ad uccidere il giudice istruttore. Grazie all’apporto decisivo dei collaboratori di giustizia, ma anche con il contributo di testimoni come Paolo Borsellino e Ninni Cassarà, era un quadro che appariva evidente.
Particolarmente importanti furono riconosciute le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Giovanni Brusca, seppur in quel momento la collaborazione risultava molto travagliata. Di Matteo trovò riscontri alle parole dell’ex capo mandamento di San Giuseppe Jato, reo confesso del delitto, ed in grado di fornire numerosi dettagli dell’aspetto organizzativo dell’attentato. Brusca raccontò anche i retroscena della decisione di uccidere Chinnici, parlando di una riunione tra Nino Salvo, il padre Bernardo Brusca e Totò Riina al termine della quale gli fu detto dal Capo dei Capi in persona: “Finalmente è venuto il momento di rompere le corna a Chinnici, mettiti a disposizione di don Nino”.
I riscontri successivi hanno fatto emergere chiaramente che Cosa nostra aveva agito su input di altri. Ed è sempre Brusca a tirare in ballo “referenti romani”. E quella dichiarazione è riportata anche nella sentenza di primo grado: “Dal governo centrale di Roma arriva una segnalazione - dice Brusca - un input da parte dell'onorevole Andreotti, facendo sapere a Lima, Lima ai Salvo, i Salvo me lo dicono a me e io lo porto a Riina. Dice di darci una calmata perché sennò si era costretti a prendere provvedimenti. Riina mi rimanda dai Salvo: fagli sapere che ci lascia fare”.
Con quella sentenza, di fatto, si è creato uno spartiacque a dimostrazione che spesso Cosa nostra non ha agito solo per ordine di Riina o della Cupola, ma anche su richieste di altri poteri dello Stato-mafia e della politica. E’ la dimostrazione che per certe stragi sono esistiti, ed esistono, mandanti esterni. Un fatto che nessuno vuole ricordare e che troppo spesso si dimentica.

MAFIE La figlia di Chinnici: ''Indagare sui punti oscuri della strage''


Redazione AMDuemila
01 agosto 2018

Ci sono tanti processi che si sono sviluppati nell'arco di 30 anni CHE STANNO arrivando ad una sentenza di condanna definitiva dei responsabili anche se rimane ancora qualche aspetto non del tutto chiarito. Adesso c'è stata la desecretazione e la pubblicazione degli atti del Csm vedremo se ci saranno elementi che ci consentiranno di chiarire anche i punti oscuri. Quello che è rimasto di maggiore incertezza le telefonate del confidente della polizia che fecero parte di una parte di processi, ma poi non ci furono ulteriori approfondimenti". Lo ha detto l'eurodeputato Pd Caterina Chinnici a margine della cerimonia che ha ricordato l'eccidio di via Pipitone Federico 35 anni fa in cui morì il padre Rocco, gli uomini della scorta e il portiere dello stabile. Il confidente libanese Bou Chebel Ghassan, preannunciò la strage di via Pipitone Federico e non fu preso sul serio. Disse che la mafia per eliminare un poliziotto o un magistrato avrebbe utilizzato il metodo libanese dell'auto bomba. Ed è uno degli aspetti su cui, oggi, si potrà approfondire.
Alla cerimonia di oggi, oltre ai figli Caterina e Giovanni Chinnici, hanno preso parte il vicepresidente della Regione Gaetano Armao, il sindaco di Palermo Leoluca Orlando, il prefetto di Palermo Antonella De Miro, il comandante provinciale della guardia di Finanza Giancarlo Trotta, il questore di Palermo Renato Cortese, il comandante provinciale dei carabinieri Antonio Di Stasio. Alle 10 è stata celebrata una messa nella caserma Dalla Chiesa nella sede del comando regionale dei carabinieri.
Di seguito proponiamo un articolo scritto lo scorso anno dalla nostra redattrice Francesca Mondin


Chinnici, un magistrato troppo audace che andava eliminato
di Francesca Mondin

“C'è la mafia che spara; la mafia che traffica in droga e ricicla soldi sporchi; e c'è l'alta finanza legata al potere politico (…) Stiamo lavorando per arrivare ai centri di potere più elevati”.
Aveva le idee chiare il magistrato Rocco Chinnici sull'articolazione della mafia. Quando ancora erano in pochi i coraggiosi che nominavano la mafia pubblicamente, lui, il capo di Falcone e Borsellino, già negli anni '80 cercava i colletti bianchi del terzo livello. Non guardava in faccia nessuno e denunciava senza giri di parole l'infiltrazione mafiosa nelle Istituzioni e nell'imprenditoria.
Per questo li avrebbe sicuramente scovati e colpiti quei centri di potere occulti, se questi stessi signori in doppio petto non avessero deciso che era meglio eliminare un nemico così audace con un unico colpo sicuro: una autobomba piena di tritolo.
Chi il 29 luglio di trentaquattro anni fa giunse in via Federico Pipitone descrisse quel luogo come Beirut, ambulanze spiegate, feriti, un caos di vetri, calcinacci, polvere e fumo. E poi quell'enorme cratere nero profondo un metro dove qualche istante prima c'era Chinnici che si accingeva a salire nell'auto per un altro giorno di lavoro. Invece no, il giudice non aveva fatto a tempo a salire nell'alfetta blindata che la 500 parcheggiata difronte a lui esplose spazzando via il magistrato, i due carabinieri che lo scortavano Mario Trapassi ed Edoardo Bartolotta, assieme al portiere del palazzo Stefano Lisacchi. Il messaggio era chiaro: chi si metteva in testa di sconfiggere la mafia e il sistema di poteri su cui poggiava sarebbe stato fermato anche a suon di bombe e palazzi sventrati.

Chi c'è dietro i delitti eccellenti?
La mattanza dei giusti era già iniziata, prima di Chinnici, Palermo aveva visto cadere, uno ad uno, sotto i colpi dei corleonesi, chi intralciava con indagini, processi e leggi, gli affari di Cosa nostra e amici che da sempre avevano retto su un sistema di taciti accordi. Di alcuni di questi delitti eccellenti, come ad esempio quello di Pio La Torre, Piersanti Mattarella e Carlo Alberto dalla Chiesa, Chinnici aveva seguito le indagini e aveva maturato l'idea che dietro i principali omicidi eccellenti ci fosse un'unica regia. “Una mia eventuale condanna a morte - confidò agli amici prima di morire - scaturirà dallo stesso cervello criminale che ha già deciso gli omicidi Terranova, Mattarella, Costa, La Torre”. Chinnici aveva capito, prima di molti altri, l'importanza di cercare le interconnessioni tra i grandi delitti compiuti dalla mafia per studiare unitariamente l’intero fenomeno mafioso. Ecco perché per molti aspetti può essere considerato il precursore del pool antimafia e del modus operandi utilizzato da Falcone e Borsellino. Oltre a creare l’embrione del primo maxi processo con il procedimento allora detto “dei 162” cercò di potenziare e rendere efficaci gli strumenti per la lotta alla mafia gettando le basi per il futuro pool antimafia guidato da Antonio Caponnetto". “Ne tentò i primi difficili esperimenti, - raccontò Paolo Borsellino in un suo scritto - sempre comunque curando che si instaurasse un clima di piena e reciproca collaborazione e di circolazione di informazioni fra i 'suoi' giudici”.
Nel mirino investigativo del giudice finirono anche i cugini Salvo, Nino e Ignazio, potenti esponenti della corrente andreottiana della Dc, nonché “uomini d'onore” all’epoca veri e propri padroni della Sicilia imprenditoriale. E probabilmente Chinnici aveva colpito nel segno perché, i cugini Salvo successivamente furono portati a processo dal pm Nino Di Matteo che ottenne la loro condanna come mandanti esteri. “Questa volta, - scrive Di Matteo nel libro Collusi - Cosa Nostra aveva agito su input di altri. A dare il via era stato un vero e proprio potentato economico-politico, costituito da soggetti la cui autorevolezza criminale derivava dall’inserimento in un circuito esterno all’organizzazione mafiosa”. I cugini Salvo, scrive ancora Di Matteo, “avevano potuto chiedere e ottenere un omicidio eccellente di quel tipo proprio perché rappresentavano lo snodo più importante di contatto e penetrazione del potere politico nazionale”.

Il palazzo dei veleni
Chinnici cercava indizi per scoperchiare quelle infiltrazioni mafiose all'interno delle Istituzioni ben consapevole che forse qualche amico infiltrato c'era anche all'interno del palazzo di giustizia. Per tenere lontane quelle orecchie indiscrete quando discuteva delle inchieste scottanti, infatti, si chiudeva in ascensore con il procuratore Gaetano Costa e su e giù per i piani del Tribunale. Nel diario in qui annotava riflessioni, fatti e intuizioni, scrisse più volte episodi inquietanti che avvennero all'interno del palazzo di giustizia di Palermo. In quelle pagine, pubblicate da “L'Espresso” poco dopo la strage di via Pipitone, traspariva il pesante clima che respirò il magistrato in quello che dalla stampa venne definito il palazzo dei veleni. Chinnici scrisse delle pressioni ricevute per abbandonare le ricerche sulle banche che stava portando avanti Falcone, degli avvertimenti in chiave mafiosa di lasciar perdere, di non parlare e non “esporsi” troppo in pubblico in dibattiti e incontri sulla mafia. Insomma Chinnici e il suo gruppo di magistrati testardi non piacevano né ai mafiosi né a chi avrebbe dovuto sostenere la lotta contro la mafia e, invece, preferiva che tutto restasse com'era.

Il mistero sul fascicolo scomparso
Dopo numerosi processi e iter giudiziari complessi il 24 giugno 2002 la Corte d’Appello di Caltanissetta ha confermato 16 condanne (12 ergastoli e quattro condanne a 18 anni di reclusione) per alcuni importanti boss di Cosa nostra e ha riconosciuto gli “esattori” Nino e Ignazio Salvo (entrambi deceduti, il primo per malattia, il secondo ucciso nel 1992) come mandanti dell'omicidio. Ma come da copione sono rimasti alcuni interrogativi: non si è mai chiarito se ci furono depistaggi e “aggiustamenti” nel terzo processo. Il mistero ruota attorno ad un fascicolo scomparso dove il presidente della Corte d’Assise del terzo processo d'appello per l'omicidio Chinnici, Giuseppe Recupero, veniva accusato di concorso esterno in mafia e corruzione. Secondo alcuni pentiti infatti la mafia avrebbe corrotto Recupero con 200 milioni per fare degli ‘aggiustamenti’ così da arrivare all’assoluzione dei mandanti Michele e Salvatore Greco, e di Pietro Scarpisi e Vincenzo Morabito come esecutori. Questo fascicolo venne trasmesso nuovamente a Palermo nell’estate del ’98 dal gup di Reggio Calabria, dichiaratosi “incompetente’’ a decidere sulla richiesta di rinvio a giudizio, ma il caso finì in qualche cassetto. Finchè il procuratore Vittorio Teresi non scoprì che il fascicolo non era mai stato iscritto a ruolo e nell'aprile 2013 aprì ufficialmente una nuova indagine che archiviò l'anno successivo perché mentre il fascicolo cadeva nel dimenticatoio Recupero era passato a miglior vita.
Sono passati 34 anni da quel 29 luglio che colpì al cuore del cambiamento, ancora una volta, il Paese. Possiamo chiederci a che punto saremo oggi se quel pulsante non fosse stato premuto, forse non si sarebbe nemmeno aperto il periodo delle stragi terroristiche mafiose, forse respireremmo quel fresco profumo di libertà invece di essere ancora orfani di verità. Di certo oggi non possiamo permettere che succeda di nuovo, che il copione si ripeta e raccogliere questo impegno che spetta ad ogni cittadino. Perché Chinnici, come raccontava Borsellino, era il primo ad evidenziare la necessità di una cultura antimafiosa che partisse dai giovani.

LAVORO Cgil: misure contraddittorie nel decreto dignità


Record per i contratti a termine, che superano 3,1 milioni. Scacchetti: "L'occupazione è la vera emergenza. Alla luce del boom del lavoro precario, sono incomprensibili i provvedimenti discussi in Parlamento. Serve la causale dall'inizio, no ai voucher"

Redazione Rassegna sindacale
01 agosto 2018


Record storico per i contratti a termine. È quanto emerge dai dati diffusi oggi (31 luglio) dall'Istat. A giugno il tasso di disoccupazione è cresciuto di due decimi di punto, salendo al 10,9%. Il numero dei disoccupati in Italia risulta così pari a due milioni e 866 mila. Non solo: dopo tre mesi di crescita, il numero degli occupati è calato di 49 mila unità. Prosegue invece la crescita dei lavoratori a termine (+16 mila), che segnano così un nuovo record raggiungendo i 3 milioni 105 mila.
"Ancora una volta i dati dell’Istat ritraggono un paese fragile, in cui l’occupazione resta la vera emergenza. Alla luce del continuo aumento del lavoro a termine, a scapito di quello stabile, risultano incomprensibili e contraddittorie le misure del decreto dignità discusse in queste ore in Parlamento”. La segretaria confederale della Cgil Tania Scacchetti commenta così il report Occupati e disoccupati.
“Nel decreto dignità – spiega la dirigente sindacale – da un lato si punta positivamente alla limitazione dell'utilizzo del tempo determinato, ma senza il coraggio di inserire la causale fin dall'inizio, dall'altro si ripropone la liberalizzazione dei voucher, simbolo di precarizzazione e mancanza di tutele, come soluzione per settori strategici come agricoltura e turismo. Per questo prosegue la nostra mobilitazione e domani dalle ore 9.30 saremo nuovamente in Piazza Montecitorio”.
Di fronte a una evidente vulnerabilità del mercato del lavoro, Scacchetti indica in conclusione alcune strade: “Occorre rilanciare urgentemente sia gli investimenti pubblici e privati che le politiche industriali per favorire occupazione di qualità; serve, inoltre, una riforma fiscale progressiva, che redistribuisca la ricchezza prodotta a favore del lavoro e delle pensioni, consentendo così il sostegno dei consumi e la ripresa della domanda interna”.

LAVORO Tutti contro i voucher, i presìdi non si fermano


Continua la protesta a Montecitorio contro i buoni lavoro nel dl dignità. Flai, Fai e Uila: "Lavoro agricolo mortificato dal decreto, a settembre nuove iniziative". In piazza anche la Fp Cgil. Il 1° agosto è la volta delle federazioni del turismo 

Redazione Rassegna sindacale
01 agosto 2018


Dopo tre giorni di mobilitazione, la scorsa settimana, anche oggi (31 luglio) Fai Cisl, Flai Cgil e Uila Uil hanno svolto un presidio davanti a Montecitorio per comunicare tutta la loro contrarietà all’ampliamento dell’uso dei voucher in agricoltura. A seguito degli incontri con i presidenti delle commissioni Lavoro di Camera e Senato e con la commissione Agricoltura della Camera, i sindacati avevano anche chiesto un incontro con il ministro del Lavoro Di Maio e scritto al presidente della Camera Roberto Fico, affinché potesse intervenire, ma non è bastato. “Siamo orgogliosi della mobilitazione unitaria a sostegno delle nostre proposte”, affermano i tre segretari generali Onofrio Rota (Fai Cisl), Ivana Galli (Flai Cgil) e Stefano Mantegazza (Uila Uil). 
“Gli emendamenti – spiegano i tre sindacalisti – sono rimasti gli stessi, e con la conversione del decreto dignità diventeranno legge, dunque la nostra mobilitazione continua. A settembre avvieremo insieme una grande campagna di informazione con presìdi su tutti i territori. Spiegheremo ai rappresentanti delle istituzioni, ai parlamentari e ai lavoratori le drammatiche conseguenze dell’uso di questo strumento in agricoltura. Soprattutto smentiremo le tante informazioni errate che sono state diffuse sull’argomento in questo periodo. La mancata tracciabilità dell’utilizzo dello strumento rimane uno degli elementi più gravi, così come continueremo a ritenere inaccettabile l’aver portato da tre a dieci giorni il tempo di utilizzo del voucher dopo la comunicazione all’Inps, con la possibilità di spalmare in questo arco di tempo le quattro ore di lavoro, e il venir meno del compenso minimo giornaliero oggi previsto. Tante imprese sane del settore, con questa estensione, subiranno la concorrenza sleale di chi conta, grazie ai voucher, di puntare sul lavoro nero e sullo sfruttamento”.
Con la recente firma del nuovo contratto nazionale, inoltre, “abbiamo messo a punto tutti gli strumenti per venire incontro alle esigenze di flessibilità delle imprese, ora i voucher consentiranno, di fatto, una copertura al lavoro nero. Pericolosa, infine, l’idea di demandare tutto all’autocertificazione, un fatto che deresponsabilizza le imprese e rende ricattabili i lavoratori. Il lavoro agricolo e la contrattazione escono mortificati da questo decreto, e ci batteremo ancora per ottenere in futuro la modifica delle norme introdotte”.

LA GIORNAT
Non si ferma la protesta. Oggi, martedì 31 luglio, è stata la volta dei lavoratori del settore agricolo che scendono in piazza a Roma, davanti a Montecitorio, per fare pressione nei giorni in cui il decreto è passato alla discussione in Aula. “Chiediamo al Parlamento di respingere gli emendamenti alla normativa vigente che cancellerebbero i diritti contrattuali, assistenziali e previdenziali di decine di migliaia di lavoratori, mettendo anche a rischio la sicurezza sul lavoro nel comparto agricolo”. Cos' Fai, Flai e Uila.
Domani, mercoledì 1° agosto, sempre davanti alla sede del Parlamento il sit-in promosso dalle federazioni del turismo (Filcams, Fisascat e Uiltucs). “Il ricorso ai voucher avrebbe come effetto la produzione di nuove forme di irregolarità e di precarizzazione dei rapporti di lavoro in un mercato già fortemente condizionato dalla stagionalità”, sottolineano i tre sindacati.
Nei giorni scorsi le tre sigle, in una nota congiunta trasmessa al ministro del Lavoro e delle Politiche sociali Luigi Di Maio e ai presidenti delle ommissioni Lavoro di Camera e Senato, hanno evidenziato il ruolo della contrattazione nazionale di settore che “da decenni si misura con le esigenze di flessibilità delle imprese, individuando diverse soluzioni negoziali condivise e utili a rispondere alle problematiche di una domanda in larga parte condizionata da una strutturale stagionalità”.
“La contrattazione nazionale del turismo – spiega la nota unitaria – ha individuato da anni strumenti di flessibilità prevedendo il lavoro extra e di surroga, che consente di poter assumere lavoratori con contratti della durata massima di tre giorni, l'apprendistato in cicli stagionali per giovani fino a 29 anni, contratti a tempo determinato stagionale e somministrazione di lavoro a tempo determinato”. La flessibilità, spiegano i sindacati, è contrattata anche sull'organizzazione del lavoro con la possibilità di ricorrere al part time anche di 15 ore settimanali con clausole elastiche, nonché al part time weekend della durata di otto ore settimanali oltre alla possibile gestione di orari multi periodali funzionali ai picchi di attività in tutti i periodi dell'anno.
Intervenendo nei giorni scorso alla festa del sindacato a Massa Carrara, il segretario generale della Cgil Susanna Camusso ha definito la reintroduzione dei voucher "una schifezza". A suo giudizio non ci sarà "un'ondata di utilizzo dei voucher, ma serviranno a coprire tutte quelle forme di contratto a nero, o a grigio". Insomma, ha rimarcato Camusso, "dovevano cambiare il mondo, ma di coraggio ne hanno ben poco". Più in generale Camusso ha espresso la sensazione che "ormai il decreto non sia all'altezza di usare il nome dignità. Quindi permettetemi di chiamarlo decreto Di Maio – ha aggiunto – che forse permette di ricondurlo alla sua immediata natura".

LAVORO Precari, cosa cambia con il Decreto dignità


Lavoro e diritti. Informazioni per i lettori per poter valutare la rilevanza delle novità e, per altro verso, le ragioni della rabbiosa reazione datoriale

Piergiovanni Alleva, Il manifesto
01 agosto 2018

Le roventi polemiche  che accompagnano l’iter di approvazione del cosiddetto Decreto Dignità, in particolare nella sua parte dedicata al contrasto al precariato ossia alla limitazione dell utilizzo dei contratti di lavoro a termine, consigliano di offrire al lettore un qualche orientamento di carattere anzitutto metodologico per poter valutare la rilevanza delle novità e, per altro verso, le ragioni della rabbiosa reazione datoriale.
Possiamo dire, in linea generale, che il lavoratore precario può sperare su una triplice tipologia di limiti e condizioni di utilizzo del contratto a termine che vogliamo subito enunciare. A: la necessaria ricorrenza di causali, ossia di ragioni per le quali un contratto a termine può essere stipulato in quanto è obiettivamente a termine l’esigenza lavorativa cui esso fa fronte; b la durata complessiva del lavoro a termine, nel senso che, anche quando  dei singoli contratti sono giustificati dalla loro causale e sono pertanto leciti, occorre mettere un limite al tempo complessivo per il quale ci può essere un dipendente  a termine nella stessa azienda; C: la percentuale complessiva dei contratti a termine esistenti in una stessa azienda, nel senso che i rapporti a termine, anche se legittimi, non possono riguardare la maggioranza dell occupazione in un’azienda ma solo una percentuale del 10 – 30 % .
Queste tre direttrici vanno esaminate separatamente per evitare confusione. Non v’è dubbio che il primo limite, quello della causale, sia il più importante ed anche il più razionale perché è assolutamente logico che un contratto a termine si possa e si debba fare per una esigenza lavorativa solo temporanea,  se l’esigenza è invece continuativa è evidente ed innegabile che il contratto a termine serve solo a tenere il lavoratore sotto ricatto. Oppure, a tutto concedere, che nel caso di un primo rapporto possa servire a valutare il reciproco gradimento tra datore di lavoro e lavoratore imitando in sostanza la funzione del patto di prova. Il Decreto Dignità, nella sua prima versione, prevedeva che la causale fosse sempre necessaria fin dal primo contratto a termine, ma poi, per una necessità  di mediazione politica, si è previsto che il primo contratto, al quale soltanto può essere riconosciuta una funzione di prova, possa essere senza causale.
Va chiarito a questo proposito un punto assai importante. Una volta esaurito, tra il lavoratore Tizio e il datore Caio, un primo contratto senza causale di durata anche inferiore a quella massima di 12 mesi, il contratto successivo dovrà necessariamente recare la causale, riguardante la sussistenza di esigenze temporanee da specificare accuratamente nella lettera di assunzione. Non è vero quindi che fino a 12 mesi non occorre mai la causale perché se il primo contratto è ad esempio solo di un mese, un suo eventuale rinnovo comporterà da subito l’obbligo della causale.
Bisogna solo specificare che una cosa è un rinnovo, cioè la stipula di un altro contratto a termine, altro la mera proroga del primo perché, nel caso di proroga la causale dovrà essere espressa solo se essa supera i 12 mesi. La distinzione sembra sottile, e forse lo è, ma nella pratica è facile distinguere un nuovo contratto dalla semplice proroga dello stesso senza interruzione. Il punto fondamentale, che limita effettivamente il precariato, è che se la causale non ricorre poi in concreto quando è stata esplicitata, il rapporto di lavoro si trasforma a tempo indeterminato, cioè la vera tutela che il vecchio decreto Poletti aveva vergognosamente cancellato.
La seconda limitazione a difesa dei lavoratori a termine riguarda la durata massima dello stesso lavoro a termine, anche se con le causali perfettamente in regola, e qui si sono fatte e si fanno molte polemiche sul limite massimo complessivo di lavoro a termine presso la stessa ditta che non è più di 36 ma di 24 mesi. Il problema che è stato artatamente agitato è stato quello di una perdita di posti di lavoro perché oggi l’impresa si trova  di fronte all’ alternativa di assumere  stabilmente o meno un precario dopo 24 mesi di precariato e non più dopo 36 ma, appunto si vuole, da parte del legislatore, che le aziende si assumano questa responsabilità fermo restando che se non se l’ assumessero e volessero allontanare il lavoratore comunque avrebbero bisogno di un suo sostituto sicché il calo occupazionale complessivo non si verificherebbe.
Quel che ci preme sottolineare però è che alla fine del periodo di 24  mesi potrebbe verificarsi una sorta di deteriore commercio tra le imprese datrici di lavoro: io ti do da assumere ex novo il mio vecchio precario arrivato a 24 mesi e tu mi dai il tuo mantenendo precari entrambi. Questo rischio può essere evitato in un modo semplicissimo già suggerito, ad esempio, dall’associazione dei giuslavoristi democratici Comma Due ed è quello per cui al lavoratore precario arrivato ai 24  mesi bisognerebbe riconoscere un diritto di precedenza in tutte le nuove assunzioni presso il suo datore di lavoro cessante sia che si tratti di nuove assunzioni a tempo determinato che indeterminato.
Concludiamo specificando che il problema della durata è sì importante, ma molto meno di quello delle causali perché è davvero dalle causali che passa la lotta allo sfruttamento e al ricatto. La terza difesa o limitazione riguarda il numero complessivo ovvero la percentuale di lavoratori a termine  sul totale dei lavoratori dell azienda. Questo è un limite che non è facile controllare e al quale, fino al Jobs act, si riconosceva  però un’ importanza qualitativa perché il superamento della percentuale comportava che i lavoratori in esubero si trasformassero a tempo indeterminato.  Il Jobs act ha sostituito questa sanzione di stabilizzazione in una semplice multa per colpa, ancora una volta, dei parlamentari del Pd che non ebbero nessuna remora a tornare indietro rispetto a quanto  pacificamente ritenuto dalla  Cassazione che in quei casi applicava sistematicamente la trasformazione. Non sembra  che il Decreto Dignità sia andato più oltre, ma Roma non fu fatta in un giorno e anche un viaggio di venti miglia inizia con un passo.

LAVORO Gabrielli (Filcams Cgil): «Con i voucher nessuna dignità ai lavoratori che operano nel turismo»


Decreto Dignità. Intervista a Maria Grazia Gabrielli, segretaria della Filcams Cgil: «E' meglio che il governo cambi il nome al decreto. Non escludiamo il voto referendario»

Roberto Ciccarelli, Il manifesto
01 agosto 2018


Maria Grazia Gabrielli, segretaria della Filcams Cgil, oggi sarete a Montecitorio con Fisascat Cisl e Uiltucs contro i voucher nel decreto dignità. Per quale ragione?

Perché il decreto amplia l’uso dei voucher agli alberghi e alle strutture ricettive fino a 8 dipendenti. Come in agricoltura saranno estesi i termini temporali da 3 a 10 giorni e la possibilità di spalmare in questo arco di tempo le 4 ore di lavoro previste dalla legge come minimo giornaliero.

Il commercio non è interessato?
Se non abbiamo sorprese dell’ultimo minuto, no. Anche se questo segnale sul turismo e sull’agricoltura non ci lascia tranquilli. Pezzo dopo pezzo potrebbero fare altre estensioni.
La Ragioneria dello stato nella relazione tecnica agli emendamenti approvati dalle commissioni finanze e lavoro sostiene che l’impatto dei voucher non sarà significativo nel turismo. È d’accordo?
Statistiche e previsioni normalmente non mi convincono. L’impatto sarà comunque da valutare ex post. Al di là della quantità reale di voucher, il decreto dignità così rivisto invierà il messaggio più sbagliato: esiste un lavoro di serie B che può essere pagato meno e tutelato meno.

Quali saranno le conseguenze nel turismo?
Il dumping salariale e la concorrenza sleale tra le imprese. Torneremo a chiederci per quale ragione ci sarà qualcuno che lavora, mettiamo, in un albergo pagato in voucher e un altro, che svolge le stesse mansioni, in un altro modo.

Qual è il criterio in base al quale si decide di pagare meno l’uno e di più l’altro?
Lo deciderà l’impresa.
Può essere evitato se si segue il contratto nazionale. Purtroppo questa differenza sarà reintrodotta per legge. Il ministro Di Maio e il parlamento dovrebbero riflettere attentamente su questi rischi.

Sembra che non li vedano. E per le imprese i voucher dovrebbero essere estesi ancora…
Non condivido queste posizioni. Per la rilevanza che il turismo ha nell’economia del nostro paese dovremmo invece concentrarci sugli investimenti, sulla riqualificazione del settore, su come produrre nuove occasioni di occupazioni di qualità e non precaria.

Cosa prevede il contratto nazionale al posto dei voucher?
Un’ampia gamma di tipologie contrattuali: l’apprendistato stagionale, il contratto a termine, il part-time, il lavoro extra e di surroga che serve per le giornate una tantum che rispondono a esigenze eccezionali. Tutte forme legate a tabellari, è previsto il Tfr, la tredicesima, la quattordicesima, la malattia, le tutele in caso di infortuni. La differenza con i voucher sta tutta qui.

Come si può dichiarare guerra alla precarietà, come ha fatto Di Maio, e ampliare l’uso dei voucher in un decreto che si chiama «dignità»?
Il nome è meglio che lo cambino. Il lavoro che verrà non sarà dignitoso né di qualità. Questo è un cattivo messaggio per i giovani e meno giovani che cercano un lavoro. Credo che dovremmo sollevare il velo su questa discussione che dura da troppo tempo e viene riproposta in un decreto che vuole avere un nome così importante. C’è una sola richiesta alla quale il governo ha risposto: quella delle imprese. Si è meno sensibili al dialogo con i sindacati che si stanno mobilitando in maniera unitaria. Credo che sia utile per la politica aprire un confronto con chi rappresenta milioni di persone. Senza non c’è conoscenza dei problemi, né la ricerca delle soluzioni.

I Cinque Stelle erano contrari ai voucher e hanno aderito al vostro referendum. Ora li ripristinano. È il pegno per l’alleanza con la Lega? 
È successo anche sull’articolo 18. Erano contrari, ma in questo decreto non viene ripristinato. C’è il rischio che le mediazioni interne alla maggioranza creino una spaccatura tra quello che si annuncia e la sua declinazione concreta.

Cosa farete una volta approvata la legge?
Con la Cgil riprenderemo la mobilitazione e valuteremo se la nuova estensione è conforme al quesito referendario che aveva raccolto 1,5 milioni di firme e che è stato aggirato dal governo precedente. Se sarà necessario torneremo a chiedere anche il voto referendario. Adotteremo tutte le iniziative affinché il governo torni indietro.

LAVORO Decreto dignità, quella «manina» che in un mese ha cambiato i voucher


La protesta. A Montecitorio i sindacati contro il precariato dei «buoni-lavoro» esteso nel turismo e in agricoltura. Flai Cgil, Fai Cisl e Uila-Uil annunciano una manifestazione a settembre. Oggi in piazza le categorie del turismo Filcams Cgil, Fisascat Cisl e Uiltucs

Roberto Ciccarelli, Il manifesto
01 agosto 2018

Una «manina» è intervenuta nel passaggio del «decreto dignità» dal consiglio dei ministri (2 luglio) all’approvazione della sua versione aumentata «2.0» prevista domani 2 agosto alla Camera. Non è la «manina» evocata dal ministro del lavoro Luigi Di Maio nella pochade generata dalla tabella in cui l’Inps stimava un’eventuale perdita di 8 mila contratti a termine causati dal provvedimento. In un mese l’altra «manina» ha introdotto un emendamento sui voucher che non era previsto nel testo iniziale. Norme sostenute dalla Lega e cucite sulle rappresentanze d’impresa. L’esito sarà la de-contrattualizzazione del lavoro stagionale e la sua trasformazione in occasionale in agricoltura e nel turismo per le strutture ricettive e le aziende alberghiere. 
I SINDACATI dei lavoratori agricoli (Flai Cgil, Fai Cisl e Uila-Uil), in presidio da giorni a piazza Montecitorio (oggi è il turno di Filcams Cgil, Fisacat e Uiltucs per il turismo) descrivono l’opera sapiente in questo modo: «I voucheristi potranno essere assunti per 24 minuti al giorno, dieci giorni per volta, con un compenso giornaliero di 2,80 euro – ipotizza Stefano Mantegazza della Uila-Uil – Oltre a essere compensati con pochi spiccioli, perderanno il diritto a disoccupazione, indennità di maternità, pensione. Gli schiavi dell’antica Roma erano trattati meglio». 
UNA PROIEZIONE ricavata sulle modifiche apportate dalla «manina» al decreto: il tempo per la comunicazione all’Inps è stato portato da 3 a 10 giorni con la possibilità di spalmare in questo arco di tempo 4 ore di lavoro. Viene meno il compenso minimo giornaliero oggi previsto. Se in quei 10 giorni si presenterà un’ispezione, si potrà dire che – guarda caso – il lavoratore è coperto da voucher. E così, il provvedimento presentato come la «Waterloo del precariato» ha ristabilito, in tempo utile per la vendemmia, le premesse per la precarizzazione del lavoro stagionale in agricoltura. Per la Ragioneria dello Stato, la stessa contestata nel caso dell’Inps, ha ipotizzato che la platea dei voucheristi «non dovrebbe subire incrementi significativi» da questa misura. Visto il parere favorevole, ieri sera non risultavano proteste del governo contro i tecnici. 
IL PROBLEMA non è, solo, quantitativo, ma qualitativo. Ivana Galli (Flai Cgil) è preoccupata perché «questa è la premessa per la sostituzione del lavoro tutelato con il contratto: un salvacondotto al lavoro nero». E, forse, questo è l’anticipo di un intervento sulla legge contro il caporalato di cui Salvini ha confusamente annunciato una «semplificazione». Flai, Fai e Uila hanno annunciato una manifestazione a settembre e una «campagna di informazione con presidi su tutti i territori». 
IN AULA ALLA CAMERA ieri i pareri di relatori e governo sui circa 400 emendamenti sono stati negativi su tutte le proposte, ad eccezione di due emendamenti che contengono correzioni sui lavoratori portuali. Polemiche tutte le opposizioni: Forza Italia, Pd e LeU, ciascuno dei quali si è visto bocciare emendamenti, alcuni coerenti con lo schema del decreto, altri provocatori. Lega e Cinque Stelle hanno fatto quadrato sulle norme sui contratti a termine (vedi articolo sopra), mentre il sottosegretario leghista al lavoro Claudio Durigon ha rivendicato la «reintroduzione» dei voucher (in realtà esistono per legge). 
LA MANUTENZIONE del decreto ha inoltre «salvaguardato» lo staff leasing e il contratto di somministrazione che aveva causato le proteste delle agenzie interinali. Confermata la decontribuzione sulle assunzioni a tempo indeterminato degli under 35: 2.650 euro rispetto a un tetto annuo consentito di 3mila. Per la Ragioneria dello Stato potranno usufruirne 62.400 persone (31.200 l’anno). Una stima, favorevole alla maggioranza, che ha spinto i deputati M5S a chiedere alle opposizioni di smetterla con le «fake news» sull’occupazione. La Ragioneria ha riscontrato l’assenza di coperture delle 27 mensilità massime (minimo tre) dell’indennizzo in sede di conciliazione per i licenziamenti ingiustificati. Carenza che verrà compensata con una riduzione del Fondo sociale per l’occupazione e la formazione di 1,1 milioni di euro l’anno tra il 2019 e il 2020. 
IL «DECRETO DI MAIO» arriverà al Senato lunedì 6 agosto. L’approvazione è prevista il 7 in tempo per celebrare «degnamente» il Ferragosto.

Lavoro I contratti a termine non finiscono più, battuto il record di oltre tre milioni


Istat. A giugno c’è stato il record storico dei contratti a termine: 3 milioni 105 mila; l’aumento della disoccupazione al 10,9% e di quella giovanile (32,6%); il calo di uno dei tassi di occupazione più bassi d’Europa (58,7%) e il calo dell’inattività al minimo storico. La variazione mensile registrata dall’Istat ha recepito una tendenza ormai strutturale del mercato del lavoro italiano e indica che la crescita occupazionale è basata lavoro precario, a termine, in somministrazione o a chiamata. è il segno del fallimento del Jobs Act, nella sua parte sul contratto a «tutele crescenti», ma anche il suo trionfo: il «decreto Poletti» ha «liberalizzato» i contratti a termine. Questo è il risultato. E oggi la politica dibatte se le norme del «decreto dignità» basteranno a invertire la tendenza 

Roberto Ciccarelli, Il manifesto
01 agosto 2018

A giugno c’è stato il record storico dei contratti a termine – 3 milioni 105 mila; l’aumento della disoccupazione al 10,9% e di quella giovanile (32,6%); il calo di uno dei tassi di occupazione più bassi d’Europa (58,7%) e il calo dell’inattività al minimo storico (che spiega l’aumento della disoccupazione) . La variazione mensile recepisce una tendenza ormai strutturale del mercato del lavoro e indica che la crescita occupazionale è basata lavoro precario, a termine, in somministrazione o a chiamata. Lo conferma ancora il calo dei dipendenti permanenti (-56 mila, in maggioranza donne). Questa è una conferma che il Jobs Act è stato un fallimento: la sua velleità di imporre il contraddittorio «contratto a tutele crescenti», dove a crescere è la libertà di licenziare senza articolo 18. Ma, allo stesso tempo, ha funzionato nella parte del «decreto Poletti», quello che ha liberalizzato i contratti a termine senza «causale». La contraddizione normativa è stata nascosta dalla droga dei bonus alle imprese, un’enorme quantità di denaro pubblico (18 miliardi) destinati a incentivare l’occupazione «fissa» (si fa per dire). Finiti i bonus, è rimasta l’alluvione dei contratti a termine. Oggi il mercato del lavoro si è conformato a questo assetto in cui l’impresa vanta un potere sociale immenso. Al centro ci sono i 15-34enni e, soprattutto, gli over 50, tra l’altro costretti più a lungo al lavoro dalla riforma Fornero.

Ieri, in coincidenza con l’analisi degli emendamenti al «decreto dignità» alla Camera, la politica si è scatenata sull’analisi di questi dati. In discussione è l’efficacia della manutenzione normativa sui contratti a termine: taglio dei rinnovi (da 5 a 4), della durata (da 36 a 24 mesi), reintroduzione della causale (dopo 12 mesi), aumento dello 0,5% contributivo a rinnovo, aumento dell’indennità, fino a 27 mesi, in caso di licenziamento individuale ingiustificato. I senatori M5S insistono sul fatto che la modifica normativa basterà a «uscire dalla spirale d’incertezza». Per evitare il prevedibile turn-over operato dalle imprese sui precari sono stati previsti 300 milioni di sgravi contributivi al 50% per gli under 35 fino al 2020, una proroga di quelli lasciati dal Pd. Saranno, per la Ragioneria dello Stato, 62.400 persone a usufruirne (31.200 l’anno). Cosa accadrà dopo la fine dei bonus, si vedrà. Cifre modeste che, al netto degli 8 mila contratti in meno all’anno stimati dall’Inps (quelli della «manina»), potrebbero portare il saldo tra cessazioni e attivazioni dei contratti ad essere «neutro». La variazione normativa non modifica né il Jobs Act, né la struttura del mercato.

Vignetta Il manifesto


ITALIA Boldrini: «Salvini predica odio Il Pd dica no al regalo delle navi ai libici»

Intervista all'ex presidente della camera. La deputata di Leu: in mare l’Italia di fatto istiga all’omissione di soccorso, Conte è un prof di diritto, non rompa le regole internazionali. Il decreto sulle motovedette non chiede garanzia sui diritti. In commissione ho letto il documento Onu sulle torture nei lager

Daniela Preziosi, Il manifesto
01 agosto 2018

«In commissione esteri ho reso nota la condizione in cui vivono migranti e richiedenti asilo in Libia. Perché nessuno possa dire che non lo sapeva». Laura Boldrini spiega perché ha scelto di fare ai suoi colleghi un lungo elenco di torture. «Ho letto il rapporto che Antonio Guterrez, il segretario generale dell’Onu, ha illustrato al Consiglio di sicurezza nel febbraio scorso: parla di abusi sistematici, torture, stupri ai danni dei migranti trattenuti nei centri in Libia. Documenta che la guardia costiera libica ha un atteggiamento spregiudicato e violento nelle operazioni di soccorso in mare. Ho letto anche una sentenza del tribunale di Milano in cui nel dicembre 2017 viene condannato un somalo responsabile di un campo di raccolta di connazionali in Libia. In quella sentenza è descritto il trattamento agli uomini: ogni giorno venivano portati nella ’sala della tortura’, appesi, bastonati. E non dico quello riservato alle donne».
Per questo lei dice no alla cessione di 12 e motovedette alla Libia, un decreto già approvato al senato ?
Cedere 12 motovedette italiane in questo contesto significa far fare il lavoro sporco ad altri. La guardia costiera libica riporterà indietro i migranti con queste modalità. Chiedo a tutti i colleghi che ci pensino bene prima di votare. In quel decreto non c’è neanche un accenno alla richiesta di tutela dei diritti umani.
Anche il Pd al senato ha votato sì a questo decreto.
Chiedo al Pd di riflettere, di votare no. Chiedo ai deputati e alle deputate un’assunzione di responsabilità. Il governo non ha negoziato neanche un barlume di rispetto dei diritti fondamentali. L’Unhcr e l’Oim devono poter entrare in tutti i centri. Il Pd non avalli il decreto di Salvini.
Forse il Pd teme di smentire la politica di Minniti, e cioè dei loro governi?
I documenti di Guterrez risalgono al febbraio e al maggio 2018. Di fronte a tutto questo non si può non fermarsi.
In queste ore si discute di un possibile respingimento in mare, il caso della nave Asso 28. Il ministro Toninelli nega il coinvolgimento italiano.
Il governo faccia subito chiarezza su quanto accaduto. La versione del mio collega Fratoianni che è a bordo della Open Arms, è diversa: dice che c’è stata una iniziale indicazione della guardia costiera italiana. Nel 2012 una sentenza della Corte europea dei diritti umani condannò l’Italia per i respingimenti e la costrinse anche a pagare i risarcimenti per tutti i ricorrenti.
Il diritto del mare vale meno da quando c’è Salvini all’interno?
Se le regole non vengono rispettate c’è il caos. Le regole ci sono: la convenzione Solas, la convenzione Sar, le direttive dell’organismo marittimo internazionale, l’antico codice del mare. Dico al professore di diritto Giuseppe Conte: l’Italia istiga all’omissione di soccorso. Trattenere in mare per giorni i mercantili che hanno soccorso i migranti significa procurargli un danno economico. È un modo indiretto per scoraggiare il soccorso, e questo è un reato. E questo sovverte il codice del mare.
È in corso un’escalation di violenze razziste in Italia?
Il capo dello stato ha messo in guardia affinché l’Italia non diventi un Far west. E Salvini, con l’ennesima sgrammaticatura istituzionale, ha detto che non c’è nessun problema di razzismo. La situazione è preoccupante ma Salvini non lo ammette perché dovrebbe fare un mea culpa. È lui il professore della paura. Dovrebbe garantire la sicurezza di tutti, e invece nega il problema. È irresponsabile. Metta un limite alla violenza delle sue affermazioni.
Le maggioranza di governo dice che viene chiesta solo un’immigrazione ordinata, e che invece è la sinistra a predicare odio.
È una mistificazione della realtà. Un’immigrazione ordinata non si ha quando qualcuno spara sui migranti al grido «Salvini, Salvini». Salvini istiga alla politica dell’odio verso gli stranieri e l’odio politico verso gli avversari. Inclusa me.
In queste ore le associazioni e le Ong organizzano una manifestazione antirazzista unitaria. Riuscirete a mettere insieme davvero un fronte ampio?
Ogni manifestazione che dica no al razzismo, al fascismo e sì ai principi della nostra Costituzione è benvenuta. Spero che sia unitaria, senza simboli di partito, che accolga tutta la società che vuole smarcarsi da questo clima.
Eppure nei sondaggi la Lega cresce.
Cresce perché è facile prendersela con il più debole. Il governo alimenta questo clima contro i migranti come arma di distrazione di massa, per coprire il fatto che non fanno quello che hanno promesso in campagna elettorale. Che fine hanno fatto i 600mila rimpatri promessi da Salvini? Il Viminale con discrezione ha spiegato al ministro che non si possono fare senza gli accordi di riammissione. La realtà è più complicata degli slogan. Per questo se la prende con i più deboli. Inoltre l’Italia non porta a casa nulla dall’Europa.
In queste ore si discute a Montecitorio il decreto dignità, sono stati dichiarati inammissibili tutti i suoi emendamenti sul lavoro femminile.
In Italia solo il 49 per cento delle donne lavora, al sud solo il 32, a fronte di una media europea del 62 per cento. È una vera emergenza occupazione. Ma non c’è una sola riga nel decreto che parli di occupazione femminile. Avevo proposto sgravi contributivi per chi assume donne vittima di violenza, e per sanare le discriminazioni delle donne in busta paga. Altro che dignità, nessuno di questi temi è nel decreto.
Non solo Salvini, anche i 5 stelle non sono molto amichevoli con le femministe. A Roma la casa delle donne è sotto sfratto.
Una vicenda incomprensibile. Fra tutte le emergenze della Capitale la sindaca mette fra le sue priorità mandare via le donne che rappresentano quell’istituzione. La Casa non è le sue mura, la Casa sono quelle donne che hanno inventato servizi, iniziative, uno spazio di aggregazione. Non ha senso dire «facciamo il bando». Senza quelle donne, quell’associazione, semplicemente quella Casa non ci sarebbe più.

Razzismo Il 2 agosto di Rom e Sinti: clima spaventoso


Oggi in piazza Montecitorio ricordano la strage di Birkenau, iniziative in tutta Europa e attenzione per l'involuzione italiana

Ruggero Scotti, Il manifesto
01 agosto 2018


Domani associazioni di Rom e Sinti saranno in piazza Montecitorio dalle 14 alle 18. Sarà l’occasione per intrecciare la memoria dello sterminio nazista al clima oppressivo e discriminatorio che la comunità rom e sinti italiana sta vivendo nell’ultimo periodo. Si pensi allo sgombero del Camping River nella Capitale che ha lasciato 212 persone senza fissa dimora per assenza di soluzioni alternative, al ferimento della piccola Cirasela colpita da un pensionato con una carabina ad aria compressa e alla minaccia di censimento su base etnico di Salvini.
Per la comunità rom e sinti il 2 agosto è l’anniversario di uno degli eventi più segnanti della loro storia. Quella notte nel 1944 furono 2.897 donne, uomini e bambini rom e sinti dello Zigeunlager (il campo degli zingari) di Auschwitz-Birkenau a essere sterminati nelle camere a gas. ««Il giorno dopo nel campo regnava un silenzio spettrale» ha ricordato recentemente nell’aula del senato Liliana Segre, la senatrice a vita sopravvissuta ad Auschwitz che ha lanciato l’allarme sul censimento etnico dei rom. «Commemorare oggi quella data significa ricordare, imparare e agire in una nuova situazione di difficoltà. Rinnoveremo la richiesta al governo di affrontare i problemi insieme a noi e non contro di noi» si legge nel comunicato che lancia l’iniziativa.
«Abbiamo richiesto un incontro al Presidente della camera Fico, il quale ancora non ha risposto» dichiara Dijana Pavlovic, attivista per i diritti dei rom e tra le promotrici dell’iniziativa. Nella prima ora della manifestazione verranno ricordati i morti nei campi di concentramento con canzoni e poesie tradizionali mentre i partecipanti avranno affissi al petto i triangoli marroni che identificava i rom e sinti durante la persecuzione nazista. Nella seconda parte verrà lasciato spazio agli interventi di chi ha aderito alla manifestazione. Tra i tanti Yanis Varoufakis, il fondatore del movimento transnazionale europeo Diem 25, che sarà in piazza, Juan De Dios Ramìrez Heredia, ex eurodeputato spagnolo e socialista e primo rom a essere eletto a Strasburgo, Moni Ovadia, il vignettista Vauro, la Cgil, l’Arci, padre Alex Zanotelli, la rete #restiamoumani protagonista dei sit-in con le mani rosse, l’Associazione 21 luglio, la comunità di base di San Paolo. È prevista anche la partecipazione di una dozzina di sgomberati del Camping River, «gli altri sono troppo spaventati. Poi lo spostamento in centro dalle periferie non è facilissimo» spiega Dijana Pavlovic.
Prima della manifestazione di Montecitorio, a mezzogiorno e mezza, ci sarà un sit-in di fronte all’ambasciata Ucraina per denunciare i veri e propri pogrom contro i rom che hanno preso piede in Ucraina nel disinteresse – e talvolta la connivenza – del governo nazionale che hanno portato all’uccisione di un ragazzo di 24 anni, David Popp il 23 giugno, a numerose aggressioni anche ai danni di donne e a bambini e al rogo di alcuni campi rom.
Nella giornata di domani ci saranno anche sit-in presso le ambasciate italiane e ucraine nelle capitali di Bulgaria, Slovacchia e Serbia. Si sono già svolte a Bucarest e Praga, si svolgeranno nei prossimi giorni anche a Skopje in Macedonia a Budapest. «È un primo passo con cui vogliamo dimostrare di avere una rete europea che deve dare forma alla resistenza contro la discriminazione cui siamo soggetti. Questo è il nostro mostro nero come il 2 agosto fu quello dei nostri padri. Speriamo di dare l’esempio e di aiutare i rom e i sinti di tutta Italia e di tutta Europa a reagire», conclude Pavlovic