sabato 28 luglio 2018

AFRICA Banane sotto assedio

I popolari frutti gialli che in molti paesi africani rappresentano un importante mezzo di sostentamento alimentare e finanziario, sono minacciati da funghi e virus, e la varietà che tutti conosciamo potrebbe estinguersi, causando enormi danni economico-sociali a livello mondiale.

di Marco Simoncelli, Nigrizia 
28 luglio 2018


È uno dei frutti più consumati al mondo, ma presto potrebbe scomparire, almeno nella versione che mangiamo abitualmente.
Coltivata sin dall’antichità, la banana originariamente aveva i semi e cresceva solo in alcuni paesi tropicali dell'Asia sud-orientale. Successivamente si diffuse nell’America centrale e in Africa.
Con lo sviluppo tecnologico, questo frutto tanto amato ha iniziato ad essere commercializzato in tutto il mondo, ma le banane dei primi del Novecento erano diverse da quelle odierne e ne esistevano moltissime varietà commestibili.
Una in particolare, venne poi scelta dai coltivatori industriali per le produzioni intensive. La Gros Michel è stata coltivata fino agli anni Cinquanta, quando il fungo Fusarium oxysporum iniziò a infettare le piantagioni, causando la “malattia di Panamá” e provocando un enorme calo di produzione. Il settore si salvò individuando una variante di banano, chiamata Cavendish, nata da diversi incroci e resistente all’epidemia. E’ questa la banana che conosciamo e che troviamo in tutti i mercati mondiali.

Un nuovo nemico
Come spesso accade in natura però, il fungo si è evoluto e la minaccia è tornata. La Cavendish non è più invulnerabile, perché un nuovo ceppo del parassita, noto come Tropical race 4 (TR4), la attacca con grande facilità e potrebbe farle fare la fine della Gros Michel. Individuato negli anni Novanta nel Sudest Asiatico, il fungo ha distrutto piantagioni in Indonesia, Malesia, Cina e Filippine. Il TR4, infettando il suolo, colpisce le radici facendo marcire i tessuti della pianta e può rimanere attivo per più di 40 anni.
Il pericolo economico e la ricaduta sociale sono ingenti. Basti pensare che nel mondo vengono prodotti circa 100 milioni di tonnellate di banane all’anno, con un giro d’affari di 5 miliardi di dollari. La Cavendish copre il 47% della produzione di banane (se poi consideriamo i 10 più grandi produttori, tra cui Chiquita e Dole, si arriva al 64%).
Per 400 milioni di persone nel mondo la banana è un alimento di base. Oltre alle grandi multinazionali che la producono per l’esportazione, ci sono anche milioni di piccoli agricoltori che dipendono da questa pianta per la loro sussistenza.
In Africa si stima che almeno 70 milioni di persone dipendano, direttamente o indirettamente, in campo economico e alimentare, da questo frutto che fornisce importanti vitamine, il 25% dei carboidrati e il 10% delle calorie giornaliere raccomandate. L’Uganda è il paese con il più alto consumo di banane al mondo, una media di 240 kg per persona all’anno, mentre in alcune regioni della Repubblica democratica del Congo il frutto giallo rappresenta il 35% del nutrimento giornaliero medio della popolazione.
Se si dovesse espandere anche nel continente, il fungo potrebbe causare danni economici e sociali molto gravi. In vari paesi africani si è investito su questo settore per soddisfare il consumo interno e per le esportazioni. Il commercio interno del Sudafrica, dello Zimbabwe e del Malawi, nonché le esportazioni verso Europa, Camerun, Costa D’Avorio e Ghana, potrebbero subire perdite sostanziali.

Brutte notizie
La comunità scientifica internazionale sta facendo il possibile per limitare la diffusione del TR4 e individuare varianti di banano resistenti, però il fungo è stato individuato anche in alcuni paesi del Medio Oriente e purtroppo è apparso anche in Africa. Nella provincia di Nampula, nel nord del Mozambico, il TR4 è stato rilevato nel 2013 nelle enormi piantagioni della località isolata di Matanuska. Pare che siano stati gli stivali infetti di due cittadini filippini ad averlo trasportato fin li. Da allora l’intera zona è in quarantena e dei 1500 ettari di banani esistenti ne sono sopravvissuti solo un centinaio, mentre più di due terzi dei 2000 dipendenti sono stati licenziati.
L’allerta è massima fra i paesi vicini. Se uscirà dal Mozambico, fermarla sarebbe impossibile. «È solo questione di tempo perché - sostiene Altus Viljoen, dell’Università di Stellenbosch in Sudafrica, il primo ad aver scoperto che il TR4 aveva lasciato l’Asia - inizialmente non sono state prese le misure preventive necessarie. L’Africa è sensibile perché il grosso della coltivazione è in mano a piccoli agricoltori che non hanno mezzi per rispondere al contagio».
Le coltivazioni di banane del continente vengono spesso colpite anche da un altro fungo, il Banana Bunchy Top Virus (BBTV) che è stato rilevato in 14 nazioni africane, la prima volta nel 1998. Di recente è stato colpito il poverissimo Malawi, nelle coltivazioni di Namkhomba. Bananeti rigogliosi, destinati all’esportazione in Tanzania, sono stati spazzati via, i coltivatori sono falliti e l’economia locale è crollata.
«Contro il BBTV non esiste cura e l’unica cosa che si può fare è bruciare la pianta per eradicarlo», commenta Elia Cammarata, agronomo italiano esperto di paesi in via di sviluppo, attualmente in Mozambico. «Si può solo contenerlo. È però meno trasmissibile del TR4, per il quale si può solo lottare per ridurne la virulenza ma non eradicarlo completamente da un’area. E poi le tecniche di bonifica sono estremamente costose”, conclude lo studioso.

Monocoltura: scelta sbagliata
Oggi non esiste un successore degno della Cavendish come sapore e rendimento in regime di monocultura. Il problema infatti è proprio qui. Nella monocultura della Cavendish ogni pianta è sterile e si riproduce per clonazione. Le nuove piantine spuntano dalla base delle grandi di cui sono copie in miniatura. Puntare su un prodotto in regime di monocoltura è rischioso, perché l’assenza di diversità genetica in una popolazione, accentua il rischio di perire di fronte a una malattia. La mutazione e la variabilità genetica naturali invec, permettono ad alcuni di sviluppare immunità.
Per cambiare le cose, le multinazionali dovrebbero forse usare modelli consociativi con i piccoli produttori che usano varietà alternative e pagano salari equi, mentre noi consumatori dovremmo accettare di pagare qualcosa in più per mangiare il nostro amato frutto giallo.

Nessun commento:

Posta un commento