Può
essere un utile strumento per assicurare un “valore” minimo al lavoro e per
ridurre le disuguaglianze prima dell’intervento pubblico, però deve essere
accompagnato da forme di sostegno al reddito e calibrato con il sistema di
tassazione
Andrea Garnero, Rassegna
sindacale
31 luglio 2018
Il salario minimo legale è una
delle istituzioni del mercato del lavoro più diffuse al mondo. L’Italia è uno
dei pochi Paesi occidentali dove tale misura non è presente – nonostante
l’introduzione del salario minimo fosse prevista dalla legge delega del Jobs
Act e fosse presente nel programma elettorale di molti partiti – e dove, nel
dibattito, viene spesso confusa con il reddito minimo o perfino con il reddito
di base. Anche per questo è importante parlare di salario minimo legale, senza
dimenticare che la sua introduzione può far parte di una strategia di
pre-distribuzione per aumentare il potere negoziale dei lavoratori e quindi il
loro reddito prima dell’intervento del sistema fiscale.
Ma come funziona? E qual è il suo
impatto su povertà e disuguaglianze? Un salario minimo legale serve ad
assicurare che nessun lavoratore sia pagato meno di una certa cifra stabilita
per legge; 29 dei 37 paesi Ocse hanno una forma di salario minimo legale. Non
esiste, come detto, in Italia e, all’interno dell’Ue, in Austria nei paesi del
Nord Europa, dove i minimi salariali sono fissati per contrattazione collettiva
a livello settoriale. Con un adeguato livello di copertura dei contratti
collettivi, minimi legali o contrattuali sono pressoché equivalenti, ma con
copertura della contrattazione declinante, l’introduzione di un minimo legale
può diventare necessaria per coprire quei lavoratori che i contratti collettivi
lasciano scoperti (come avvenuto negli anni novanta nel Regno Unito o
recentemente in Germania, dove il salario minimo nazionale è stato introdotto
nel 2015).
Il salario minimo prende varie
forme: può essere fissato a livello nazionale, come in Francia, Germania o
Regno Unito, ma anche a livello sub-nazionale, come in Paesi federali o di
grandi dimensioni come gli Stati Uniti (in cui addirittura può essere stabilito
a livello di città), Messico, Giappone, Cina o Brasile. In alcuni casi il
salario minimo legale può essere definito anche solo per alcuni settori (come
nel caso della Germania prima dell’introduzione del minimo nazionale nel 2015)
o per specifiche occupazioni (come a Cipro).
In alcuni Paesi, il valore del
salario minimo è definito per scelta politica, come negli Stati Uniti, e quindi
soggetto alle maggioranze del momento (in genere i Democratici lo aumentano e i
Repubblicani lo bloccano). In altri, la sua definizione è demandata alle parti
sociali (in Belgio), in altri ancora è nelle mani di una commissione specifica
(come la Low Pay Commission britannica o la Mindestlohn Kommission tedesca),
che, con il coinvolgimento di parti sociali ed esperti, ha il ruolo di
promuovere un dibattito informato e non politico e dare consigli, normalmente
seguiti, al governo o al Parlamento
Il valore del salario minimo
varia fortemente tra i Paesi Ocse. Va dal 35% del salario mediano negli Stati
Uniti a oltre il 70% in Cile o Turchia (dove però il salario mediano è
sottostimato a causa dell’ampia presenza di lavoratori informali). Tuttavia, i
valori lordi del salario minimo non forniscono un quadro accurato della
retribuzione netta dei lavoratori, né dei costi derivanti dall’assunzione di
lavoratori con salario minimo per le imprese. Infatti, per ridurre i costi dei
datori di lavoro e il rischio di perdite occupazionali, alcuni Paesi, in
particolare la Francia, hanno introdotto consistenti riduzioni dei contributi
previdenziali a carico delle imprese che impiegano lavoratori con salario
minimo.
Altri Paesi hanno tentato di
aumentare l’efficacia del salario minimo utilizzando riduzioni mirate delle
imposte sul reddito o dei contributi sociali dei dipendenti a basso reddito.
Alcuni offrono crediti d’imposta o i cosiddetti in-work benefits (prestazioni
sociali rivolte a lavoratori a basso reddito; per esempio: Belgio, Messico,
Regno Unito), mentre altri ancora si basano su imposte progressive sul reddito
per mantenere gli oneri fiscali dei lavoratori a basso reddito ben al di sotto
di quelli applicabili al lavoratore medio (Nuova Zelanda).
Salari minimi lordi e netti e
costo del lavoro al salario minimo nei paesi dell’Ocse con salario minimo
legale, 2016
Ma quale ruolo può giocare il
salario minimo contro la disuaglianza e la povertà? Retribuzioni minime più
elevate sono associate a una disuguaglianza salariale più bassa, come
argomentato nell’Employment Outlook dell’Ocse 2015. Questo avviene per un
effetto meccanico, dato che un minimo legale tronca la parte bassa della
distribuzione salariale (o perché i lavoratori pagati del minimo vedono il loro
salario aumentare o perché vengono licenziati), ma anche per un effetto “onda”
sul resto della distribuzione: per mantenere un minimo di differenziale tra
lavoratori con diversi ruoli e competenze anche i salari superiori al minimo
tendono ad aumentare.
Non solo. Un salario minimo
legale può anche ridurre la crescita dei salari nella parte superiore della
distribuzione (perché i datori di lavoro non possono permettersi aumenti
equivalenti), contribuendo a ridurre ulteriormente la disparità salariale
(Hirsch, Kaufman e Zelenska, Industrial Relations, 2015). Se si segue una
prospettiva dinamica, considerando l’intera carriera lavorativa, l’effetto
“pre-distributivo” del salario minimo è sempre presente, ma inferiore per
effetto della mobilità salariale oltre ai minimi, come segnalato dall’Ocse.
In compenso, un salario minimo
legale è uno strumento solo parziale nella lotta alla povertà, anche
limitatamente alla povertà lavorativa. Situazioni di povertà possono emergere
da paghe orarie basse, ma sono soprattutto determinate dall’avere un lavoro o
meno, dall’intensità di questo lavoro (poche ore o a tempo pieno) e dalla
composizione familiare. Un salario minimo legale può solo assicurare un minimo
orario, ma niente di più.
Inoltre, il salario minimo non
sempre corrisponde a quello che gli inglesi chiamano un living wage, cioè un
salario sufficiente per vivere. Così, un salario minimo legale, uguale in tutto
il Paese può permettere di vivere dignitosamente in un paesino di campagna, ma
essere del tutto inadeguato nel centro della capitale. Un altro dato: il
salario minimo non riguarda solo i poveri. In Francia, per esempio, solo il 23%
dei lavoratori pagati al salario minimo è povero.
Accompagnare i salari minimi con
in-work benefits o crediti d’imposta può essere un modo più efficace di
affrontare la povertà rispetto all’utilizzo di salari minimi isolati. In
Francia, per esempio, stime del Gruppo di esperti sul salario minimo mostrano
come un aumento della Prime d’activité, un sussidio che premia chi ha un
impiego, di pari livello rispetto al costo per le casse pubbliche di un aumento
del salario minimo (il salario minimo francese è accompagnato da una
sostanziosa riduzione di contributi sociali) ha un effetto di riduzione della
povertà molto più significativo che un aumento del salario minimo, perché
concentrato sulle fasce più deboli.
In un’ottica di lotta alla
povertà, quindi, un salario minimo deve essere completato da altri strumenti, e
in particolare da forme di prestazioni sociali per chi lavora che sostengano il
reddito senza disincentivare il lavoro. Senza contare che un salario minimo può
migliorare il targeting di queste prestazioni e può aiutare a contenere i loro
costi. Per esempio, uno degli obiettivi dichiarati del salario minimo nazionale
nel Regno Unito è garantire che le prestazioni sociali aumentino effettivamente
i redditi dei lavoratori invece di essere “intascati” dai datori di lavoro con
una riduzione del salario di importo simile.
In conclusione, il salario minimo
legale può essere un utile strumento per assicurare un “valore” minimo al
lavoro e per ridurre le disuguaglianze prima dell’intervento pubblico, però
deve essere accompagnato da strumenti di sostegno al reddito e deve essere
calibrato attentamente con il sistema di tassazione per renderlo efficace anche
contro la povertà.
Andrea
Garnero è economista presso il Direttorato per l’occupazione e gli affari
sociali dell’Ocse e membro del gruppo di esperti sul salario minimo in Francia
Nessun commento:
Posta un commento