25
anni fa, con la strage di via dei Georgofili, e gli attentati a Roma e Milano,
iniziava la seconda fase terroristica di Cosa Nostra. La storia mai chiarita
della sigla oscura che la rivendicava
Federico Marconi, L’Espresso
30 luglio 2018
30 luglio 2018
La strage in via dei Georgofili
Sono passati 25 anni da quando
duecento chili di esplosivo devastarono il centro di Firenze. Era da poco
passata l’una di notte del 27 maggio 1993 quando esplose la bomba posizionata
all’interno di un Fiorino bianco parcheggiato in una piccola e stretta stradina
chiusa al traffico, via dei Georgofili. L’esplosione costò la vita a cinque
persone, 48 rimasero ferite. Crollò la Torre dei Pulci, la Galleria degli
Uffizi e il Corridoio Vasariano furono gravemente danneggiati insieme a decine
di opere d’arte. Nei concitati minuti successivi all’esplosione, mentre i
soccorritori cercavano di salvare le persone residenti nella via, si pensò che
la tragedia fosse dovuta ad una fuga di gas. Ma bastò poco per capire che si
trattava di un attentato, simile a quello di due settimane prima nel centro di
Roma, a via Fauro, dove un’autobomba era scoppiata al passaggio della macchina
di Maurizio Costanzo.
«Qui a Firenze vedo gli stessi
segni. La deformazione delle lamiere, le condizioni delle pareti, tutto uguale»
affermava ai cronisti presenti il direttore della Protezione Civile Elveno
Pastorelli. «È terrorismo indiscriminato» tuonavano i procuratori fiorentini
Pier Luigi Vigna e Gabriele Chelazzi. Poco dopo mezzogiorno la prima
rivendicazione con una telefonata alle redazioni Ansa di Firenze e Cagliari:
«Qui Falange Armata. Gravissimo errore continuare a negare, confondere e
mistificare da parte degli organi investigativi e inquirenti le nostre
potenzialità politiche e militari. Eccovene un’altra testimonianza».
Oggi sappiamo chi sono i
responsabili delle bombe sul continente. Da Totò Riina in poi, tutta la cupola
mafiosa è stata condannata come responsabile di quella strategia della tensione
che sconvolse l’Italia all’inizio degli anni ’90. Stava finendo un’epoca, il
potere di Cosa Nostra era fiaccato non solo dalle inchieste giudiziarie della
procura di Palermo, ma anche dalla fine del mondo della Guerra Fredda e dalla
scomparsa dei referenti politici che avevano permesso e protetto l’ascesa
criminale della mafia siciliana. E mentre i boss trattavano con pezzi dello
Stato, com’è stato appurato dalla sentenza del tribunale di Palermo del 20
aprile, seminavano sangue, paura, terrore, per alzare la posta in gioco.
Sono ancora molti i misteri che
avvolgono quella drammatica stagione della storia del nostro Paese. E uno di
questi riguarda la Falange Armata: una sigla terroristica che ha rivendicato
tutte le bombe mafiose del ’92-’93, ma anche omicidi, rapine, attentati in
tutto il Paese. Di tutto e di più. Tanto che, contando le sole rivendicazioni,
avremmo di fronte una tra le più temibili organizzazioni terroristiche della
storia italiana.
25 ANNI DI RIVENDICAZIONI
La prima rivendicazione della
Falange Armata è datata 27 ottobre 1990. Alle 12.20 la redazione bolognese
dell’Ansa riceve la telefonata di un uomo con un forte accento straniero:
intesta alla “Falange Armata Carceraria” la responsabilità dell’omicidio di
Umberto Mormile. L’educatore carcerario del carcere di Opera era stato ucciso
l’11 aprile 1990 a Carpiano, nel milanese, freddato da sei colpi di pistola
sparati da due sicari della ndrangheta. La sua condanna a morte era stata
firmata dai boss della potente cosca calabro-lombarda Domenico e Rocco Papalia.
Mormile fu ucciso per aver negato un permesso al boss, che all’epoca era solito
tenere colloqui con uomini dei servizi segreti. E furono proprio questi a
indicare a Papalia la sigla con cui rivendicare l’attentato: «Antonio Papalia,
parlò con i servizi che, dando il nulla osta all’omicidio Mormile, si
raccomandarono di rivendicarlo con una ben precisa sigla terroristica che loro
stesso indicarono. Ecco la risposta alla domanda che mi avete fatto con
riferimento alla rivendicazione “Falange Armata” dell’omicidio Mormile» ha
dichiarato il collaboratore di giustizia Vittorio Foschini il 26 aprile 2015.
Dopo la prima telefonata ne
seguirono decine e decine. Il 5 novembre 1990, la Falange rivendica l’omicidio
a Catania degli industriali Francesco Vecchio e Alessandro Rovetta. Nel corso
della chiamata all’Ansa di Torino, il telefonista anonimo fa riferimento anche
all’operazione del 10 ottobre a via Monte Nevoso a Milano, in cui furono
ritrovate – 11 anni dopo la prima perquisizione – nuove pagine del memoriale e
delle lettere di Aldo Moro: «Moretti e Gallinari sanno molto di più e così pure
i servizi segreti»
All’inizio del 1991 viene
rivendicata la strage del Pilastro, a Bologna, in cui persero la vita tre
carabinieri. L’attentato fu uno dei tanti per cui furono condannati i membri
della banda della Uno bianca e che insanguinarono l’Emilia a cavallo tra anni
’80 e ’90. Vengono minacciati poi nuovi attentati al presidente della
Repubblica Francesco Cossiga, al direttore generale degli Istituti di pena
Nicolò Amato, al giornalista Giuseppe D’Avanzo, alle redazioni de la Repubblica
e l’Espresso. Sono annunciate nuove scottanti rivelazioni sulla strage di
Bologna del 2 agosto 1980: ma non verranno mai diffuse. Il 14 agosto viene
rivendicato l’omicidio del giudice Scopelliti, il 6 ottobre quello
dell’avvocato Fabrizio Fabrizi a Pescara, il 22 l’uccisione del maresciallo dei
vigili urbani di Nuoro Francesco Garau. Il 3 novembre Falange Armata si intesta
anche la responsabilità dell’attentato alla villa di Pippo Baudo: ««Il
significato politico che abbiamo inteso conferire all’azione condotta ai danni
della villa del signor Baudo a Santa Tecla, ritenevamo che almeno lui, uomo di
spettacolo, ma anche di politica, non sarebbe dovuto risultare del tutto
incomprensibile, così com’è apparso» afferma all’Ansa il solito telefonista anonimo.
Tra la fine del 1991 e l’inizio
del 1992 Falange Armata fa propri gli attentati dinamitardi presso il
commissario di Polizia di Bitonto, in Puglia, presso la sede del Comune di
Taranto e una bomba sulle ferrovie salentine. La sigla rivendica poi tutti gli
attentati eccellenti del ’92 - l’omicidio di Salvo Lima e del maresciallo
Giuliano Guazzelli, le bombe di Capaci e via D’Amelio - e le stragi di Firenze,
Roma e Milano del 1993. Tra gennaio e dicembre del 1994 viene rivendicato il
duplice omicidio vicino Reggio Calabria degli appuntati dei carabinieri
Antonino Fava e Giuseppe Garofalo, e altri due attentati a pattuglie di
militari che riescono fortunatamente a salvarsi.
Aumentano nel tempo le minacce:
al neo presidente della Repubblica Scalfaro a quello del Senato Spadolini, al
capo della Polizia Parisi e ai giudici Di Pietro e Casson. E poi tanti
politici: Mario Segni, Claudio Martelli, Achille Occhetto e Massimo D’Alema,
Silvio Berlusconi, Alessandra Mussolini e Umberto Bossi, definito nelle telefonate
«utilissimo buffone [...] pagliaccio finto, ma provvidenziale». Il 20 dicembre
del 1994 il segretario del Carroccio riceve anche una lettera minatoria: «Se il
governo che tutti noi – tu compreso – abbiamo voluto salterà, la nostra
rappresaglia non avrà limiti». Il governo è quello eletto in primavera, con
premier Silvio Berlusconi.
Le telefonate continuano anche
nella seconda metà degli anni ’90, dopo la fine della strategia stragista di
Cosa Nostra. Sempre minacce e rivendicazioni: come il furto di due Van Gogh e
un Cezanne dalla Galleria di Arte Moderna di Roma o il ritrovamento di
un’autobomba davanti al Palazzo di Giustizia di Milano nel 1998. O ancora
l’omicidio di Massimo D’Antona nel 1999. Con il nuovo millennio le chiamate si
diradano fino a terminare: nemmeno una tra il 2003 e il 2014. L’ultima minaccia
è del 24 febbraio di quell’anno in una lettera arrivata al carcere milanese di
Opera e indirizzata al capo dei capi, Totò Riina: «Chiudi quella maledetta
bocca. Ricorda che i tuoi familiari sono liberi. Per il resto stai tranquillo,
ci pensiamo noi».
LE DUE MAPPE CHE COINCIDONO
Ma chi erano i falangisti? Il
fascicolo aperto dalla Procura di Roma dopo le prime telefonate, seguito dal pm
Pietro Saviotti, è stato archiviato, mentre l’unica persona accusata di essere
uno dei telefonisti anonimi, l’operatore carcerario Carmelo Scalone, è stato
protagonista di una controversa vicenda giudiziaria. Dopo l’arresto del 1993,
Scalone fu condannato nel 1999 in primo grado a tre anni di reclusione, prima
di essere scagionato da tutte le accuse in Appello e Cassazione: ricevette
anche un indennizzo di 35 mila euro dallo Stato per ingiusta detenzione.
Calò poi il silenzio sulla
Falange Armata. Fino al 2015, quando è stato chiamato a testimoniare al
processo sulla trattativa Stato-Mafia Francesco Paolo Fulci. Diplomatico di
lunga data, Fulci è stato il capo del Cesis, l’organismo di coordinamento tra
il servizio segreto civile e militare, dal maggio 1991 all’aprile 1993.
L’ambasciatore era stato fortemente voluto dall’allora presidente del Consiglio
Giulio Andreotti per gestire una fase delicata della vita dei Servizi, travolti
dagli scandali dei fondi neri del Sisde e dalla comunicazione dell’esistenza di
Gladio.
Fulci stesso finì nel mirino
della Falange Armata, da cui fu ripetutamente minacciato. Per questo fece
condurre alcuni accertamenti: «Chiesi a Davide De Luca (analista del Cesis,
ndr) di verificare da dove partivano questi messaggi della Falange Armata» ha
dichiarato Fulci di fronte ai giudici di Palermo, «lui venne da me con l’aria
preoccupata portando due mappe: da dove partivano le telefonate e dove erano le
sedi periferiche del Sismi. Le due mappe erano sovrapponibili».
Subito dopo la strage di via
Palestro del 27 luglio 1993, Fulci consegnò al comandante generale dei
Carabinieri Federici, una lista di quindici ufficiali e sottoufficiali del
servizio segreto militare, «per scagionare i servizi da ogni accusa». I
quindici nomi erano di alcuni appartenenti alla VII divisione del Sismi, quella
incaricata di gestire i rapporti con quella Gladio di cui a inizio degli anni
’90 era stata svelata l’esistenza. La VII divisione era composta da un gruppo
di super agenti, gli Ossi (Operatori Speciali Servizio Italiano), addestrati ad
operazioni di guerra non ortodossa e all’uso di esplosivi. Per questo, sempre
ai giudici di Palermo, Fulci dirà: «Mi sono convinto che tutta questa storia
della Falange Armata faceva parte di quelle operazioni psicologiche previste
dai manuali di “Stay Behind” (nome di Gladio, ndr)» Gladio però era stata
smantellata nel 1990, come è possibile che fosse dietro la Falange Armata?
«Sarà stato qualche nostalgico», l’opinione dell’ex ambasciatore.
COSA NOSTRA, NDRANGHETA E SERVIZI
SEGRETI
La scorsa estate si sono di nuovo
accesi i riflettori su questa organizzazione misteriosa grazie alla Procura di
Reggio Calabria e all’inchiesta “Ndrangheta stragista”, con la quale sono stati
individuati come mandanti degli attentati contro i carabinieri del 1994 i boss
calabresi Antonio e Rocco Santo Filippone e il siciliano Giuseppe Graviano.
La vicenda era stata riportata al
centro delle investigazioni da un atto di impulso della procura nazionale
antimafia firmato dal magistrato Gianfranco Donadio. Sono proprio i Graviano,
legati alle ndrine tirreniche, a chiedere ai Filippone di partecipare alla
strategia stragista voluta da Totò Riina per garantire gli interessi mafiosi in
quel periodo di passaggio della vita politica italiana che si sarebbe concluso
con le elezioni del 28 marzo 1994.
I tre attentati, che costeranno
la vita a due carabinieri, furono rivendicati dalla Falange Armata. E nelle
pagine dell’ordinanza di custodia, firmata dai procuratori Federico Cafiero De
Raho e Roberto Lombardo, è scritto che dietro alla sigla si celava «un gruppo –
o forse più di un gruppo – di soggetti che aveva pianificato, fin dagli albori,
in modo attento e meticoloso, una utilizzazione strumentale ai propri fini
della sigla terroristica in esame che aveva inventato e dato (anche, ma per
nulla esclusivamente) in “sub-appalto” ad entità criminali e mafiose»: «La
Falange Armata utilizzava le stragi e i gravissimi delitti commessi da altri
per rivendicarli (o farli rivendicare con tale sigla), per circonfondersi di un
alone di misterioso terrorismo, in grado di atterrire, intimidire, condizionare
e perseguire, per questa via, proprie finalità». Finalità che non erano né
economiche, né ideologiche, ma politiche, «espressione di una sordida lotta per
il potere». E i soggetti che stavano dietro Falange Armata erano «inseriti in
delicati apparati dei gangli statali».
Cosa Nostra decise di utilizzare
la sigla Falange Armata nell’estate del 1991, durante le riunioni di Enna, in
cui si pianificò la strategia del terrore per dare uno scossone allo Stato. Uno
dei testimoni, Filippo Malvagna, ricorda: «Furono i corleonesi – ed in
particolare Totò Riina – a dire, ad Enna, che tutti gli attacchi allo Stato
dovessero essere rivendicati “Falange Armata”». Ma come nel caso dell’omicidio
Mormile, anche in questo caso fu un entità esterna a suggerire a Cosa Nostra di
utilizzare la Falange Armata per rivendicare le stragi.
«L’idea di rivendicare minacce,
attentati, delitti contro figure istituzionali con la sigla Falange Armata»
scrivono i magistrati reggini «è stata il parto di alcuni appartenenti a
strutture deviate dello Stato». Le stesse strutture già citate dall’ambasciatore
Fulci: «Il loro nucleo era costituito da una frangia del Sismi e segnatamente,
da alcuni esponenti del VII reparto [...] che avevano operato per anni agli
ordini di Licio Gelli». Lo stesso Gelli che in quegli anni tramava con mafiosi
ed estremisti di destra al progetto delle leghe meridionali, sul modello del
Carroccio padano, per chiedere l’indipendenza del Sud dal resto del Paese.
Mafiosi, ndranghetisti, agenti speciali dei servizi segreti: il mistero ancora
avvolge la Falange Armata, l’organizzazione senza appartenenti che rivendicava
gli attentati di tutti.
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