Alessio Ramaccioni, Contropiano
27 luglio 2018
27 luglio 2018
Prosegue e si conclude il nostro
speciale approfondimento sulla vicenda che coinvolge la Casa Internazionale
delle Donne di Roma, messa a rischio dalla richiesta di 800 mila euro da parte
del Comune di Roma e dalla volontà, espressa attraverso una mozione approvata
in Aula, di mettere a bando i servizi che la Casa delle Donne fornisce da anni
alla collettività.
Una storia complessa, che da un
lato vede l’approccio legalitario ed “economicistico” dell’amministrazione
Raggi (ma il riassesto e la messa a profitto dei beni immobili del Comune – a
prescindere da chi li utilizza e come – è stata inaugurata da Ignazio Marino
con la famosa/famigerata delibera 140), dall’altro la funzione sociale
innegabile e comprovata della struttura di Trastevere, la cui valutazione
dovrebbe trascendere dal mero calcolo “guadagni/perdite” e rientrare in una
complessiva analisi di quello che serve a cittadini e territorio in termini di
politiche sociali, e di chi è in grado di fornirlo sulla base di esperienza,
competenze e conoscenza diretta dei problemi da affrontare.
Non sta succedendo solo alla Casa
delle Donne, anche se per importanza e storicità naturalmente la vicenda
colpisce molto l’immaginario della gente. Sta accadendo – ad esempio – al
Grande Cocomero a S.Lorenzo, una associazione che si occupa di assistenza neuropsichiatrica
per bambini ed adolescenti. E’ capitato a tante realtà ormai parte integrante
del tessuto sociale della nostra città, che in questi ultimi anni (dal 2015 in
poi) hanno dovuto fare conti con pesanti richieste economiche da parte del
Comune.
Del caso specifico della Casa
Internazionale delle Donne ed in generale di questo complessivo attacco alla
“socialità dal basso” nella nostra città ne abbiamo parlato con Elisabetta
Canitano, già candidata presidente al Consiglio Regionale del Lazio per Potere
al Popolo e responsabile di una delle associazioni attive all’interno della
Casa.
Le ultime notizie, che ormai
risalgono ad un paio di giorni fa, mettono di fatto la situazione in pausa fino
a metà giugno. A che punto siamo, secondo te?
“Mi rifaccio a quanto illustrato
dalle compagne che hanno partecipato all’incontro con la sindaca e gli
assessori, e anche ad alcune prese di posizione come ad esempio al comunicato
di Paolo Ferrara (capogruppo M5S in Campidoglio), che ha dichiarato non
esistere l’intenzione di sfrattare la Casa, e che raccontare che il Comune
vuole mandare via la Casa delle Donne è una strumentalizzazione. Beh, se non
era vero niente siamo contente, che dire! La verità è che noi avevamo avviato
una trattativa con il Comune che poi è stata bruscamente interrotta per
approvare poi la mozione della scorsa settimana. Una mozione che suonava molto
minacciosa”.
In effetti il senso della mozione
era abbastanza chiaro, e non si prestava a molte interpretazioni. In che modo
state reagendo ai nuovi sviluppi?
“Beh, ci sentiamo un po’
“sballottate” tra mozioni, dichiarazioni, richieste di denaro che di certo non
abbiamo… adesso siamo in attesa che vengano prese in considerazione le nostre
richieste. La realtà è che per mantenere la casa, per proteggerla, per
aggiustarla abbiamo speso molto, negli anni. Ci siamo caricate quell’immenso
stabile, e non è che sia costato poco! Veniamo accusate – ed è un paradosso –
da una parte di non aver pagato i nostri debiti, e dall’altra di aver messo a
regime economico qualunque attività. Ma se dobbiamo pagare dei debiti, qualcosa
dobbiamo guadagnare… Nella casa c’è un ristorante, c’è un ostello e abbiamo
affittato per anni le sale riunione proprio tentando di fare fronte ai costi ed
ai conti. Ed in buona parte ci siamo riuscite: abbiamo delle donne che
lavorano, le pulizie, abbiamo una segreteria. Questo tentativo di attirarci
l’ira del popolo contro è un po’ un tentativo misogino di dire “eh, ma queste
che vogliono”!
La dichiarazione di Ferrara mi fa
sperare, noi dell’associazione Vita di Donna abbiamo ininterrottamente fatto
assistenza ginecologica gratuita o a libera offerta; collaboriamo con
l’ambulatorio del colonnato e con i volontari di Regina Coeli, collaboriamo con
la ASL Roma 1, siamo capofila per il volontariato materno infantile. Voglio
dire, non è che la Casa delle Donne è un monolite chiuso in se stesso. Se poi
la relazione con il Comune ci consentirà di fare di più e di meglio, siamo le
prime ad augurarcelo. Abbiamo gestito un archivio, abbiamo conservato quella
che è la storia delle donne, abbiamo la sede di associazioni che si occupano di
violenza… insomma, io credo che se si riesce ad evitare questa levata di scudi
probabilmente sarà più facile trovare punti di equilibrio”.
Secondo te la reazione che a
livello popolare e di società civile è arrivata in difesa della Casa delle
Donne può suggerire alla Giunta Raggi un approccio diverso, sia a proposito
della vicenda che vi riguarda che in generale nei confronti di tutte le
esperienze di socialità a Roma?
“Toccare con mano quello che la
Casa è per le donne sia la migliore testimonianza di come negli anni non si sia
state là dentro a fare i comodi nostri, ma a lavorare per essere una realtà
importante per questa città, per le donne e per gli uomini. Una spiegazione
pratica del perchè La Casa debba continuare a lavorare con le modalità che
l’hanno caratterizzata negli anni”.
E rispetto al contesto più
generale? Il provvedimento che vi ha colpito è simile ai molti che stanno
mettendo in difficoltà, o facendo direttamente chiudere, molte esperienze
sociali autogestite “dal basso” a Roma. Per essere chiari, mi sto riferendo al
processo avviato dalla giunta Marino con la delibera 140, proseguito dal
prefetto Tronca ed ora dalla giunta Raggi: un tuo commento – anche come
candidata di Potere al Popolo – a questo approccio “ragionieristico” alla
gestione dei beni collettivi che ormai pare essere una caratteristica di chi
amministra Roma.
“Il concetto è che una grande
città come questa – ma vale anche per i piccoli centri – ha diverse realtà di
autorganizzazione che sono fonte di cultura e di collaborazione tra i cittadini
che non possono essere sfrattate e poi magari si va a finire come con palazzo
Nardini che rischia di diventare un gigantesco albergo. Se ragioniamo in
termini di economia diverse realtà non possono che essere messe per strada per
essere sostituite sul territorio, all’interno delle sedi, magari da un
McDonald… La protezione di quello che i cittadini offrono autonomamente alla
collettività e la condivisione di questi spazi, invece della chiusura, è quello
che rende una città vivibile. Un dispositivo antibarbarie, perchè la
distruzione delle attività e la conquista da parte del profitto di tutto è
l’assoluta barbarie”.
Nessun commento:
Posta un commento