Cresce
l’esercito degli invisibili – quasi tutte donne – che portano ricchezza al
Paese e sostituiscono il servizio pubblico. La perdita per le casse dello Stato
– stima la Cgil regionale – ammonta a circa 280 milioni di mancati contributi
Patrizia Cecconi, Pressenza
Italia
30 luglio 2018
30 luglio 2018
Sono le 3 del pomeriggio. Il sole
anche oggi brucia la pelle e fa stringere gli occhi. Qui a Malaqa a quest’ora
siamo ancora pochissimi e nessuno è vicino alla rete. Si sentono tre, quattro,
cinque colpi secchi. Vengono dalla parte israeliana. Ma non c’è ancora nessuno,
che fanno i killer? Scaldano i fucili?
Roger, il ragazzo che mi
accompagna, uno degli skater più bravi di Gaza e, quando può, anche studente di
italiano, mi dice che oggi sarà una giornata molto rischiosa anche se ci
saranno molti bambini perché il tema della Grande marcia oggi è l’omaggio ai
martiri bambini che Israele ha ucciso in questi mesi. Tutti i venerdì mi dicono
che è molto pericoloso e lo so. Staremo attenti. Come sempre del resto. Oggi
non vorrei rilasciare interviste ma farne. Comincio proprio con Roger
chiedendogli “Ma tu perché sei qui?” la sua risposta è precisa, formata da tre
frasi “Per condividere con gli altri il mio desiderio di libertà” poi gira la
testa verso il confine e aggiunge “la mia libertà è oltre la rete, dove c’è la
nostra terra che abbiamo il diritto di recuperare”. Bene, in tre frasi ha
citato la risoluzione Onu 194 e la necessità di rompere l’assedio, praticamente
gli obiettivi per cui è nata la grande marcia del ritorno.
Intanto i cecchini seguitano a
sparare. L’orecchio ormai è abituato e sa distinguere il rumore dei colpi
sparati dalle jeep da quello dei fucili degli snipers. Forse veramente si
stanno allenando al tirassegno perché non c’è motivo di sparare, le migliaia di
persone arriveranno dopo.
A fine giornata si conteranno
lungo tutto il confine due morti e circa 160 feriti. I martiri sono Ghazi Abu
Mustafa, un uomo di 43 anni che camminava sulle stampelle, perché già ferito in
precedenza da questi soldati, e che voleva avvicinarsi alla recinzione. Sua
moglie, un’infermiera che partecipava alla marcia occupandosi dei feriti lo
aveva dissuaso, ma deve essere stato un boccone molto ghiotto per il killer con
la divisa dello Stato ebraico che lo ha mirato alla testa. Succedeva più a sud,
al border di Khan Younis e la notizia è arrivata tramite gli altoparlanti
proprio mentre a Malaqa un cecchino colpiva un ragazzo a pochi metri dalla rete
e i soccorsi correvano verso di lui caricandolo in ambulanza. Poi, più tardi,
arrivava la notizia del secondo martire, quasi un bambino, al border di Rafah,
Madj Ramzi Al Sarri, quattordici anni. I cecchini hanno sparato alla testa
anche a lui.
I cecchini israeliani possono
farlo, nessuno li accuserà per questo. Insieme al bambino e all’uomo uccisi
vengono scarnificati piano piano i principi base della moderna democrazia, ma
il mondo sembra non accorgersene e seguita a tenere regolari rapporti con
questo Stato di Israele, ormai per sua propria legge Stato Ebraico, quindi
etnico-religioso, rendendo impunito ogni crimine che oltre a massacrare il
popolo palestinese ferisce, portando gradualmente al suo annichilimento, il
Diritto internazionale.
A Malaqa è andata meglio che a al
sud. Si pensava a un morto ma era “solo” gravemente ferito. I colpi secchi
hanno accompagnato l’intero pomeriggio, intervallati da quelli più gonfi e più
sordi sparati dalle jeep e provocando diversi feriti, sia per proiettili vivi
che per inspirazione di tear gaz. I copertoni bruciati, il cui fumo nero e
tossico ha sollecitato l’attenzione ecologista di alcuni sionisti nostrani,
hanno salvato anche oggi parecchie vite, ma le ambulanze hanno fatto comunque
molti viaggi.
Le ambulanze! Sì, una delle cose
impressionanti di questa Grande marcia è il numero delle ambulanze. Un numero
altissimo perché è dato per scontato che ci saranno ogni volta centinaia di
feriti. Lo sanno le organizzazioni internazionali e sovranazionali, lo sanno e
ne conoscono l’essenza criminale ma sono impotenti. O conniventi.
A Malaqa i tear gaz, oggi, sono
arrivati da terra e dal cielo ed hanno colpito anche il personale di
un’ambulanza. La scena sembrava da film: l’ambulanza corre nel budello sterrato
che dal confine porta alla strada principale, è il percorso normale. Ma si
ferma e si buttano fuori, sdraiandosi a terra, gli operatori sanitari. Stanno
male, hanno inspirato il gas tossico dei lacrimogeni israeliani. Arrivano le
barelle di altre ambulanze che caricano i più gravi e partono al volo verso
l’ospedale. Intanto in cielo si sono levati gli aquiloni. Alcuni hanno la
fiammella in fondo alla coda. I ragazzi che ne manovrano il filo li lasceranno
al vento quando saranno sulla rete dell’assedio. Da quel momento andranno
liberi e porteranno il loro messaggio attraverso quella fiammella. Forse
bruceranno qualche stoppia e gli agricoltori chiederanno il rimborso alle
assicurazioni dichiarando danni esagerati. Ormai le compagnie assicuratrici
hanno scoperto il gioco, ma a Netanyahu è più utile far credere che siano stati
gli aquiloni a bruciare ettari di campi. Se così fosse Gaza avrebbe un’arma
semplice e imbattibile e forse Israele sarebbe costretto, finalmente, a
rispettare la legalità internazionale come mandano a dire proprio quegli
aquiloni che vorrebbero tornare ad essere solo un gioco.
Ma qui di voci straniere che
rinforzino il messaggio degli aquiloni non ce ne sono, solo oggi finalmente ho
visto un altro internazionale, rispondeva ai giornalisti palestinesi. Stampa e
Tv era in grande abbondanza oggi. Ma tutta informazione interna. Per l’estero è
routine e quindi non ci sono inviati. Quelli che ne parlano – a parte
pochissime eccezioni – le notizie le ricevono normalmente dall’IDF e non
corrono rischi di carriera nel trasmetterle in quella versione.
Oggi non voglio rilasciare
interviste ma farne e mi dirigo verso un gruppo di donne. In realtà sono stata
catturata dall’attenzione che loro mi hanno rivolto e vogliono farmi delle
domande. In fondo è normale, gli stranieri sono una rarità. Faremo delle
interviste incrociate. Una delle donne porta il niqab ed ha una gruccia alla
quale si appoggia per camminare. E’ stata ferita due settimane fa ma appena ha
potuto è tornata alla Great march. Si chiama Samia, Samia Jaber e non ha
problemi a darmi il suo nome intero. Suo marito è stato imprigionato dagli
israeliani per 12 anni. Ha 7 figli e il più grande, 13 anni, partecipa
regolarmente alla marcia. Tutte le donne del gruppo mi danno il loro nome e mi
raccontano qualcosa della loro storia. Etaf, Ilaf, Tagreed, Nabila, Ridah,
Nashreeem, tutte sono passate per l’ospedale in uno di questi 18 venerdì, ma
tutte stanno qui. Sono “hard” le donne di Gaza! Tutte vogliono foto ricordo, le
facciamo. Mi chiedono di portare la loro voce in Italia. Ecco, lo sto facendo,
anche se la mia non è una voce molto alta. Mi dicono di mettere anche il loro
nome, non hanno problemi ad essere pubblicate, vogliono solo che si sappia cosa
significa vivere a Gaza e cosa significa chiedere la pace e avere come risposta
l’esercito pronto a uccidere. Tra loro c’è una donna più avanti negli anni, una
donna molto magra, con un viso ossuto e volitivo. Porta un cappello con la
visiera parasole sopra l’ijiab e parla, parla ininterrottamente e non lascia
quasi il tempo a Roger di tradurre. E’ Etaf e tutte la rispettano
riconoscendola come “l’organizzatrice del caucciù”, un vero boss che coordina
l’arrivo e la distribuzione dei copertoni che ormai possono essere chiamati
salvavita dato che disorientano la mira dei cecchini. Chiedo loro quale futuro
prevedono per la grande marcia. Le risposte sono comuni, “la grande marcia non
si può fermare”, ok, ma questo non è il futuro. Mi rispondono ancora che non si
fermeranno allora devo cambiare domanda, chiedo se sono affiliate a qualche
fazione politica e ridono. Una di loro risponde che la politica che le
interessa è il recupero della libertà dall’assedio. Le altre annuiscono. In
un’altra intervista una giovane donna, quella che in realtà mi avvicina per intervistarmi
ma, appunto, è una giornata di interviste incrociate, mi dice che lei è di
Giaffa. Avrà al massimo 35 anni e quindi non è possibile sia nata a Giaffa,
ormai israeliana fin dal 1948. Ma la marcia del ritorno è per il rispetto della
Risoluzione 194, quella che appunto riconosce il diritto a tornare nelle case
da cui sono stati cacciati i palestinesi nel “48, e la sua famiglia è stata
cacciata da Giaffa. Quella è la sua origine. Mi presenta le sue amiche, due
giornaliste e una docente universitaria. Il loro inglese non è migliore del mio
ma ci si intende. Dove l’inglese arranca usano l’arabo e Roger traduce. Faccio
anche a loro la stessa domanda che faccio a tutti: cosa vi aspettate dal futuro
della grande marcia. Tutte e tutti mi sembra abbiano chiaro che con la grande
marcia, sul breve periodo, non otterranno nulla. Eppure, e qui c’è un’altra
prova della straordinarietà di questo popolo, eppure si fa. Si fa perché ci
sono dei principi irrinunciabili. Si fa perché farla sedimenta il diritto a far
riconoscere i propri diritti.
“Si fa perché i figli non abbiano
da vergognarsi dei genitori” mi dice Tagreed. Si fa perché a Gaza non si può
vivere così,” i nostri giovani vogliono scappare. Viviamo di sussidi. I nostri
giovani hanno un livello di istruzione generalmente molto alto ma sono
disoccupati perché l’economia di Gaza è morta.” Vogliamo la libertà, come aveva
detto Etaf, “la boss del caucciù” con aria definitoria “o libertà o morte” e
Ridah aveva aggiunto “raggiungeremo una delle due”.
Intanto i cecchini sparano, le
ambulanze corrono, i gas si infittiscono. Ci avviciniamo un po’ al border,
restando sempre a non meno di cento metri. I ragazzini sono tanti, onorano i
loro coetanei caduti ma in realtà per loro è quasi un gioco. Roger scruta
sempre il cielo e a un certo punto dice che dobbiamo allontanarci e tornare
nella zona delle tende. Mi dice una cosa incomprensibile sia in arabo, e questo
è abbastanza normale, che in inglese. Ho imparato, in questi tanti venerdì
passati al border, a dare ascolto ai miei accompagnatori, tutti nel ruolo
affettuoso di bodyguard. Ho fatto bene e l’unico danno riportato è stata
qualche leggera inalazione di gas. Non riesco a capire cosa mi dice indicando
il cielo, credo voglia mostrarmi un aquilone e invece ora lo vedo, è un puntino
lontano, sembra un ragno, è un drone che si sta avvicinando. I droni possono
portare la morte e comunque qui porteranno i gas lanciati dal cielo che si
sommeranno a quelli delle jeep. Ora lo vedono anche gli altri. Tutti provano a
capire dove si dirige per allontanarsi. Riesco a prendere qualche foto mentre
lancia i gas. Torniamo alle tende.
Sotto il grande tendone delle
conferenze i bambini hanno le foto dei loro coetanei uccisi appese ai
palloncini che lasceranno volare. Non portano fiammelle, non sono pericolosi.
Portano una condanna morale ma i soldati dell’IDF “rispettano gli ordini” e
quindi non si sentono condannabili, non conoscono né scrupolo, né rimorso. Sono
la perfetta rappresentazione di cui Hanna Arendt ha dato magistrale spiegazione
ne “La banalità del male”. Comunque i palloncini volano con i loro ritratti
appesi andando verso il cielo.
Sul palco si alternano bambini e
adulti e infine un bambino di una decina d’anni considerato un enfant prodige
per la sua voce canterà. Lo avevo conosciuto in un’altra occasione, si chiama
Mohammad e canta una canzone ritmata e coinvolgente. Chiedo a Roger cosa
significhino alcune strofe che sembrano coinvolgere più di altre. “Al Gazaw alh
soet” mi scrive sul mio blocco. Mi dice che la traduzione non rende e mi
aggiunge un’altra frase. Nell’insieme il significato sembra essere più o meno
questo: “Alziamo le nostre voci, i gazawi non hanno paura, solleviamo le nostre
voci, non abbiamo paura di Israele”. Già, questo è il clima che in tutti questi
venerdì ho respirato lungo il border. A Rafah o a Khuza’a o ad Abu Safia o a
Malaqa o ad Al Bureji il clima sostanzialmente è stato questo. Le parole
iniziali di Roger alla mia domanda “perché stai qui” completano la canzone del
bambino sul palco: “per condividere col popolo il mio sogno di libertà”.
Ancora due morti uccisi per pura
crudeltà ancora tanti feriti, ma la marcia continua. Sotto una sola bandiera:
quella palestinese. Perché, come canta il piccolo Mohammed, i gazawi non hanno
paura.
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