In
quelle ore concitate in cui Salvini lanciò la prima azione in Europa per
fermare il salvataggio dei migranti, il titolare delle Infrastrutture non firmò
nessun decreto. Per la prima volta un governo ha agito esclusivamente via
Twitter. Senza nessun atto formale
Andrea Tornago, L’Espresso
30 luglio 2018
30 luglio 2018
Giacca scura. Sguardo tenebroso.
Non è più tempo di slogan, ma di azione. È il 10 giugno, una foto di Matteo
Salvini sta per fare il giro del mondo. "#Chiudiamoiporti" è
l'hashtag. Ma in uno stato democratico non basta un tweet per un’azione così
dura, la prima in tutta Europa pensata per fermare i migranti e chi li salva
dal mare. Serve un decreto, come recita il codice della navigazione. Per il
neoministro dell’Interno Salvini è fondamentale l’appoggio del collega del M5s,
Danilo Toninelli, titolare delle Infrastrutture e dei Trasporti, che ha la
competenza sui porti. E in una prima fase i due ministri sembrano parlare con
una voce sola: diramano note congiunte, intimano a Malta di aprire i suoi porti
e “non voltarsi dall’altra parte”, minacciano il sequestro delle imbarcazioni
delle Ong che si avvicinano ai porti italiani.
In realtà non c’è un solo atto
formale, un solo decreto. La strategia del governo gialloverde viaggia su
canali esclusivamente orali fino al 29 giugno, quando ad avvicinarsi alle acque
italiane sono le imbarcazioni Open Arms e Astral della Ong spagnola Proactiva.
Salvini insiste: quelle navi devono vedere l’Italia soltanto “in cartolina”, e
annuncia la chiusura dei porti anche per gli scali tecnici e i rifornimenti.
Ma è il ministro pentastellato a
imprimere un salto di qualità all’esecutivo: Toninelli rende noto con un
comunicato di aver disposto, “in ragione della nota formale che giunge dal
Ministero dell’Interno e adduce motivi di ordine pubblico, il divieto di
attracco nei porti italiani per la nave Ong Open Arms, in piena ottemperanza
dell’articolo 83 del Codice della navigazione”. Il primo provvedimento formale
del governo sui porti, così lo descrivono i giornali. Ma in quelle ore, e nei giorni
successivi, il decreto non si trova. Non l’hanno visto i marinai e i legali di
Open Arms, a cui quell’atto dovrebbe essere notificato. Non riescono a
recuperarlo i giornalisti, nonostante le rassicurazioni continue del portavoce
del ministro Toninelli. Quel documento non c’è. L’Espresso è in grado di
rivelare che in quelle ore concitate, in cui le uniche imbarcazioni di Ong nel
Mediterraneo in grado di raggiungere la zona di ricerca e soccorso libica erano
quelle di Proactiva Open Arms, il ministro Toninelli ha mentito. Il decreto non
è mai stato firmato.
La conferma arriva il 23 luglio
scorso dal Comando generale delle Capitanerie di porto, in risposta a una
richiesta di accesso agli atti di Open Arms: “Non risulta che sia stato
adottato, nel caso indicato, alcun provvedimento ministeriale ai sensi
dell’articolo 83 del Codice della navigazione” precisa il capo del terzo
reparto, contrammiraglio Sergio Liardo. Nessun problema di ordine pubblico.
Nessun decreto del ministro. La Guardia costiera italiana esclude anche che sia
stato firmato qualsiasi altro provvedimento di interdizione “del mare o degli
ambiti portuali” nei confronti di navi della Ong Proactiva. Contattato
dall’Espresso, il ministro Toninelli non ha voluto commentare. Fonti del Mit
sostengono che “il provvedimento è decaduto immediatamente, dato che poco dopo
la Open Arms prese a bordo una sessantina di migranti, e l’atto non poteva più
reggere essendo valido per l’assetto della nave con a bordo il solo equipaggio.
Il decreto in realtà era in formazione, perché era appena arrivata la nota del
Viminale”.
Non si tratta solo di una
questione formale. Il 28 giugno le due imbarcazioni Astral e Open Arms sono
rimaste le uniche navi di Ong attrezzate per la ricerca e il soccorso in mare
in grado di operare davanti alla Libia. Sono partite da Valencia e, dopo giorni
di navigazione, avanzano la richiesta di uno scalo tecnico: la nave più grande
ha bisogno di un cambio di equipaggio, di viveri, di fare rifornimento. Dopo
aver incassato il diniego di Malta, il capitano della Open Arms, Marco Martínez
Esteban, gira la richiesta di attracco alla Capitaneria di porto di Pozzallo,
in Sicilia. Comincia uno scambio di email tra la nave spagnola e la capitaneria
italiana, con richiesta di una serie di informazioni da parte dell’autorità
portuale sul motivo della scelta di Pozzallo in luogo di La Valletta, sulla
quantità di carburante necessario e l’autonomia residua dell’unità navale.
Intanto dal Viminale parte una
nota urgentissima a firma del capo di Gabinetto, Matteo Piantedosi, indirizzata
al ministro dei Trasporti Toninelli: “Non si possono escludere riflessi
sull’ordine pubblico derivanti dall’accoglimento dell’istanza” di accesso al
porto presentata dalla Ong, scrive il dicastero di Salvini. Non solo: per gli
Interni non c’è “alcuna situazione emergenziale” nelle richieste avanzate da
Open Arms, che nel frattempo rinuncia ad attraccare nel porto di Pozzallo e con
il carburante al minimo continua a muoversi in acque internazionali,
dirigendosi verso la zona search and rescue antistante la Libia. Il resto è
cronaca.
Quel giorno, in un naufragio,
secondo l’Unhcr muoiono più di cento persone nelle acque libiche, tra cui tre
bambini. Gran parte dei corpi rimangono in mare. Verso le 9 del mattino del 29
giugno l’equipaggio della Open Arms aveva intercettato una comunicazione sul
canale 16 relativa a un barcone in pericolo nella zona di Al-Khums, vicino alla
costa di Tripoli, a 80 miglia nautiche dalla nave. Ma la Open Arms non poteva
raggiungerlo facilmente: “È molto lontano e hanno avvisato i libici. Noi siamo
con il diesel al minimo - ha raccontato il comandante di Open Arms al
quotidiano spagnolo El Diario - non siamo in grado di accelerare per arrivare
in tempo”.
Roma non lancia l’allarme tanto
che, alla fine, l’allerta ufficiale sul natante da soccorrere la diramerà La
Valletta. Ma nonostante l’offerta di supporto da parte della Ong, quel giorno
“l’intervento della nave Open Arms non viene accordato dalle autorità italiane
- ricorda la Ong Proactiva - che non rispondono positivamente alle nostre
chiamate”. In serata, mentre comincia a circolare la notizia di un naufragio
con cento dispersi, arriva la nota di Toninelli che nega ufficialmente
l’approdo in porto alla Open Arms. In un primo momento il ministro sbaglia
persino imbarcazione, sostenendo di aver “disposto il divieto per la nave Ong
Astral”. Due ore dopo la rettifica: “La nave a cui si riferisce il
provvedimento è la Open Arms e non la Astral. Entrambe fanno capo alla Ong
Proactiva Open Arms”. Ma non esiste nessun provvedimento.
“È stato un tentativo di far
desistere le Ong e le strutture che avrebbero potuto fare i salvataggi in mare,
una sorta di messaggio all’Europa e al mondo - illustra l’avvocato di Open
Arms, Rosa Emanuela Lo Faro - perpetrato via social network, senza ricorrere ad
atti formali. Si è trattato quindi sicuramente un modus operandi anomalo,
perché l’azione di un governo deve esplicarsi attraverso la formazione di atti
amministrativi e non via Twitter. Una cosa comunque la possiamo dire con
certezza: se la nave di una Ong volesse entrare in un porto italiano oggi
potrebbe farlo, perché non è mai stato chiuso nessun porto: i porti italiani
sono aperti. Sono stati chiusi solo a parole”.
Come nel caso della Aquarius e
della Lifeline, la linea dura del governo ha funzionato ancora una volta senza
far ricorso a troppe carte bollate: a Salvini sono bastati dei tweet, qualche
post su Facebook e un intervento alla radio; a Toninelli l’annuncio di un
decreto mai firmato. Per riuscire a mettere in discussione princìpi scolpiti,
prima che nelle leggi, in più di duemila anni di storia del Mediterraneo.
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