Il villaggio
di pescatori di Nagonha in Mozambico è l’esempio della lotta delle piccole
comunità contro le grandi compagnie che tentano di schiacciare i loro diritti,
ma anche del fallimento di governi che non adempiono al loro dovere di tutelare
i cittadini più vulnerabili.
di Marco Simoncelli (da Maputo), Nigrizia
28 luglio 2018
28 luglio 2018
Nagonha si trova a circa 150 km
dalla città di Nampula, nel nord del Mozambico. È un povero villaggio di
pescatori con poco più di mille abitanti che vivono in qualche centinaio di
capanne di legno affacciate sull’oceano Indiano. Il piccolo insediamento si
trova all’interno di una concessione mineraria rilasciata nel 2011 dal governo
di Maputo alla compagnia cinese Hainan Haiyu Mining Co. Ltd.
La compagnia estrae sabbie di
minerali pesanti come ilmenite, titanio e zircone. Ha iniziato i lavori di
estrazione circa tre km a nord del villaggio e in seguito ha continuato a
cambiare siti spostandosi verso sud spianando dune di sabbia naturale,
distruggendo la vegetazione e generando grossi cumuli di detriti, frutto del
dragaggio del sottosuolo che hanno ricoperto lagune e corsi d’acqua.
Nel 2015 una devastante
inondazione ha colpito la zona radendo al suolo 48 case e danneggiandone un
altro centinaio, lasciando quasi 300 persone senza mezzi di sostentamento.
All’inizio di aprile Amnesty International, attraverso un’indagine intitolata
“Le nostre vite non contano niente”, ha accusato la Haiyu di aver
significativamente contribuito a quel disastro e di aver messo il villaggio di
fronte al serio rischio di essere inghiottito dall’oceano.
Non solo. Secondo Amnesty non
sarebbe stato fatto uno studio di impatto ambientale adeguato, né sarebbe stata
consultata la popolazione prima dell’inizio delle operazioni di sfruttamento,
come richiederebbe la legge mozambicana.
La compagnia cinese ha rifiutato
ogni tipo di responsabilità, affermando che si è trattato di un fenomeno
metereologico eccezionale che “non si verificava da almeno cent’anni”, ed ha
aggiunto di aver soddisfatto i criteri stabiliti in tutte le fasi di
implementazione.
Ecosistema sconvolto
Ma le immagini satellitari
pubblicate nel rapporto mostrano come, tra il 2010 e il 2014, la conformazione
del territorio attorno a Nagonha sia cambiata, alterando i corsi d’acqua che
collegavano le lagune. In una foto del 2014 si nota come almeno 280 mila metri
quadri di territorio siano stati ricoperti di sabbia e un canale completamento
ostruito. Ora, anche se la Haiyu afferma
di aver concluso le attività in quella zona, la popolazione del villaggio è a
rischio, perché l’equilibrio idrogeologico è stato sconvolto. Al prossimo evento
climatico estremo (in forte aumento negli ultimi anni) il villaggio potrebbe
essere spazzato via per sempre.
Il quotidiano mozambicano OPais
ha intervistato il consulente ambientale della Haiyu, Amilcar Marremula, il
quale, pur di fronte alle prove di Amnesty, ha negato ci fosse un rischio per
la popolazione e la necessità di un reinsediamento.
La società civile mozambicana da
tempo insiste sull’interruzione delle attività della Haiyu. A metà del mese
scorso è stato il Centro per l’integrità pubblica (CIP) a chiederlo
direttamente alla commissione parlamentare per l’ambiente, la quale ha promesso
l’invio di una equipe di verifica.
Il villaggio chiede una bonifica
del territorio e una compensazione per i danni subiti, ma le uniche offerte
fatte dalla compagnia cinese sono state una riparazione pari a 52 euro per chi
nel 2015 ha perso una casa di legno e 261 per le costruzioni in muratura.
Ovviamente la popolazione ha rifiutato. “Queste proposte sono assurde” ha detto
il capo del villaggio, Lópes Cocotela, all’emittente Stv, “vogliamo una compensazione
giusta perché l’industria estrattiva trae profitto dalle persone”.
Responsabilità condivise
Ma anche le istituzioni
mozambicane hanno delle colpe. Ci si domanda come la Haiyu abbia potuto
iniziare le sue attività senza passare attraverso i procedimenti previsti dalla
legge e senza mai consultare la popolazione locale, e come mai non siano stati
presi dei provvedimenti dopo il disastro del 2015.
L’esperto di studi di impatto
ambientale Ilario Rea, che spesso collabora con le istituzioni mozambicane, intervistato
da Nigrizia dà la sua opinione in proposito: “Il paese ha una legislazione che
a volte presenta delle lacune quando si tratta di impatto ambientale, ma non in
questo caso. Le norme prevedono uno studio approfondito. Ciò che spesso accade
è che non vengano effettuati i dovuti controlli. Le autorità locali preposte
non hanno fatto rispettare la legge per mancanza di mezzi o di conoscenze”.
Probabilmente è vero. Ma quando
si tratta di aziende legate a partner economici come la Cina, con la quale gli
scambi commerciali sono cresciuti del 24,24% solo nei primi due mesi del 2018,
raggiungendo i 33,5 milioni di dollari, ci si chiede se Maputo, oltre ai mezzi
pratici, non abbia perso anche la capacità negoziale per ottenere condizioni
che non si ritorcano sul suo popolo. O peggio, se abbia smesso di negoziare
perché tutto ciò che conta è il mero profitto.
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