Lavoro
e diritti. Informazioni per i lettori per poter valutare la rilevanza delle
novità e, per altro verso, le ragioni della rabbiosa reazione datoriale
Piergiovanni Alleva, Il manifesto
01 agosto 2018
Le roventi polemiche che accompagnano l’iter di approvazione del
cosiddetto Decreto Dignità, in particolare nella sua parte dedicata al
contrasto al precariato ossia alla limitazione dell utilizzo dei contratti di
lavoro a termine, consigliano di offrire al lettore un qualche orientamento di
carattere anzitutto metodologico per poter valutare la rilevanza delle novità
e, per altro verso, le ragioni della rabbiosa reazione datoriale.
Possiamo dire, in linea generale,
che il lavoratore precario può sperare su una triplice tipologia di limiti e
condizioni di utilizzo del contratto a termine che vogliamo subito enunciare.
A: la necessaria ricorrenza di causali, ossia di ragioni per le quali un
contratto a termine può essere stipulato in quanto è obiettivamente a termine
l’esigenza lavorativa cui esso fa fronte; b la durata complessiva del lavoro a
termine, nel senso che, anche quando dei
singoli contratti sono giustificati dalla loro causale e sono pertanto leciti,
occorre mettere un limite al tempo complessivo per il quale ci può essere un
dipendente a termine nella stessa
azienda; C: la percentuale complessiva dei contratti a termine esistenti in una
stessa azienda, nel senso che i rapporti a termine, anche se legittimi, non
possono riguardare la maggioranza dell occupazione in un’azienda ma solo una
percentuale del 10 – 30 % .
Queste tre direttrici vanno
esaminate separatamente per evitare confusione. Non v’è dubbio che il primo
limite, quello della causale, sia il più importante ed anche il più razionale
perché è assolutamente logico che un contratto a termine si possa e si debba
fare per una esigenza lavorativa solo temporanea, se l’esigenza è invece continuativa è
evidente ed innegabile che il contratto a termine serve solo a tenere il
lavoratore sotto ricatto. Oppure, a tutto concedere, che nel caso di un primo
rapporto possa servire a valutare il reciproco gradimento tra datore di lavoro
e lavoratore imitando in sostanza la funzione del patto di prova. Il Decreto
Dignità, nella sua prima versione, prevedeva che la causale fosse sempre
necessaria fin dal primo contratto a termine, ma poi, per una necessità di mediazione politica, si è previsto che il
primo contratto, al quale soltanto può essere riconosciuta una funzione di
prova, possa essere senza causale.
Va chiarito a questo proposito un
punto assai importante. Una volta esaurito, tra il lavoratore Tizio e il datore
Caio, un primo contratto senza causale di durata anche inferiore a quella
massima di 12 mesi, il contratto successivo dovrà necessariamente recare la
causale, riguardante la sussistenza di esigenze temporanee da specificare accuratamente
nella lettera di assunzione. Non è vero quindi che fino a 12 mesi non occorre
mai la causale perché se il primo contratto è ad esempio solo di un mese, un
suo eventuale rinnovo comporterà da subito l’obbligo della causale.
Bisogna solo specificare che una
cosa è un rinnovo, cioè la stipula di un altro contratto a termine, altro la
mera proroga del primo perché, nel caso di proroga la causale dovrà essere
espressa solo se essa supera i 12 mesi. La distinzione sembra sottile, e forse
lo è, ma nella pratica è facile distinguere un nuovo contratto dalla semplice
proroga dello stesso senza interruzione. Il punto fondamentale, che limita
effettivamente il precariato, è che se la causale non ricorre poi in concreto
quando è stata esplicitata, il rapporto di lavoro si trasforma a tempo
indeterminato, cioè la vera tutela che il vecchio decreto Poletti aveva
vergognosamente cancellato.
La seconda limitazione a difesa
dei lavoratori a termine riguarda la durata massima dello stesso lavoro a
termine, anche se con le causali perfettamente in regola, e qui si sono fatte e
si fanno molte polemiche sul limite massimo complessivo di lavoro a termine
presso la stessa ditta che non è più di 36 ma di 24 mesi. Il problema che è
stato artatamente agitato è stato quello di una perdita di posti di lavoro
perché oggi l’impresa si trova di fronte
all’ alternativa di assumere stabilmente
o meno un precario dopo 24 mesi di precariato e non più dopo 36 ma, appunto si
vuole, da parte del legislatore, che le aziende si assumano questa
responsabilità fermo restando che se non se l’ assumessero e volessero
allontanare il lavoratore comunque avrebbero bisogno di un suo sostituto sicché
il calo occupazionale complessivo non si verificherebbe.
Quel che ci preme sottolineare
però è che alla fine del periodo di 24
mesi potrebbe verificarsi una sorta di deteriore commercio tra le
imprese datrici di lavoro: io ti do da assumere ex novo il mio vecchio precario
arrivato a 24 mesi e tu mi dai il tuo mantenendo precari entrambi. Questo
rischio può essere evitato in un modo semplicissimo già suggerito, ad esempio,
dall’associazione dei giuslavoristi democratici Comma Due ed è quello per cui
al lavoratore precario arrivato ai 24
mesi bisognerebbe riconoscere un diritto di precedenza in tutte le nuove
assunzioni presso il suo datore di lavoro cessante sia che si tratti di nuove
assunzioni a tempo determinato che indeterminato.
Concludiamo specificando che il
problema della durata è sì importante, ma molto meno di quello delle causali
perché è davvero dalle causali che passa la lotta allo sfruttamento e al
ricatto. La terza difesa o limitazione riguarda il numero complessivo ovvero la
percentuale di lavoratori a termine sul
totale dei lavoratori dell azienda. Questo è un limite che non è facile controllare
e al quale, fino al Jobs act, si riconosceva
però un’ importanza qualitativa perché il superamento della percentuale
comportava che i lavoratori in esubero si trasformassero a tempo indeterminato. Il Jobs act ha sostituito questa sanzione di
stabilizzazione in una semplice multa per colpa, ancora una volta, dei
parlamentari del Pd che non ebbero nessuna remora a tornare indietro rispetto a
quanto pacificamente ritenuto dalla Cassazione che in quei casi applicava
sistematicamente la trasformazione. Non sembra
che il Decreto Dignità sia andato più oltre, ma Roma non fu fatta in un
giorno e anche un viaggio di venti miglia inizia con un passo.
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