Camping River. Siamo di
fronte allo sgretolamento di un «piano rom» che fin dai suoi primi passi ha
dimostrato tutta la sua inefficacia
Alessandro Capriccioli, Il Manifesto
26 luglio 2018
Il
compito della politica dovrebbe essere, ove possibile, quello di risolvere i
problemi. E certamente non quello di crearli.
Mentre
sarebbe un’esagerazione sostenere che in Italia, e in particolare a Roma, la
cosiddetta «questione rom» sia stata interamente fabbricata dalla politica, è
senz’altro corretto affermare che le politiche di segregazione adottate a
partire dagli anni ’80 abbiano giocato un ruolo determinante nell’aggravarlo in
modo pesantissimo.
Laddove
sarebbero stati necessari, come più volte indicato in primo luogo dall’Unione
europea, percorsi di inclusione sociale, abitativa, scolastica e lavorativa, si
è scelta invece, in modo pressoché sistematico, la strada dell’esclusione, dell’isolamento
e della segregazione operata su base etnica: aggravando via via la situazione e
aumentando le tensioni sul territorio, salvo poi, in non pochi casi, utilizzare
per aumentare il proprio consenso, gli stessi problemi che si era contribuito a
far precipitare.
La
vicenda del Camping River, a Roma, sulla via Tiberina, non è che l’ultimo
capitolo di questa lunghissima saga al contrario. Dall’annuncio di voler
chiudere il campo un anno fa, abbiamo assistito a un susseguirsi di azioni da
parte del Comune, rivelatesi poi inefficaci: l’offerta di un sostegno
all’affitto per la stipula di contratti che le famiglie rom, abbandonate a se
stesse, non sarebbero mai riuscite a ottenere (cosa che si è puntualmente
verificata); poi la proposta di una non meglio identificata accoglienza
mediante separazione dei nuclei familiari; il rimpatrio volontario assistito;
infine, verificato l’inevitabile fallimento di queste misure, l’attribuzione
della responsabilità alla mancata volontà degli ospiti fino ad arrivare nelle
ultime settimane alla distruzione fisica dei moduli abitativi di proprietà
dello stesso Comune e allo sgombero dei giorni scorsi.
Sgombero
che, come già in passato, è stata la Corte europea dei diritti umani a
sospendere dopo il ricorso di alcune famiglie, richiamando il principio che
nessun intervento di questo tipo può essere attuato se prima a donne, uomini e
minori non sia stata assicurata un’alternativa valida.
Siamo
di fronte al fallimento di un «piano rom» che fin dai suoi primi passi ha
dimostrato tutta la sua inefficacia. Perché la questione è complessa e c’è
bisogno di tempo, di interventi programmati, di conoscenza delle singole
situazioni: è evidente, ad esempio, come le famiglie vadano affiancate nella
ricerca di una casa in affitto e non basti offrire dei soldi.
Al
netto della propaganda e dei proclami, che pure in queste ore non si sono fatti
attendere (Salvini che definisce «buonista» la pronuncia della Cedu e incontra
la sindaca Raggi, a sua volta ormai quasi del tutto «salvinizzata» che chiama
in soccorso l’esercito), il punto rimane sempre lo stesso: cosa dovrebbe fare
la politica per invertire la tendenza e iniziare a risolvere i problemi anziché
aggravarli?
Conosciamo
la risposta. E la conosciamo da anni, perché è quella indicata più volte dalla
Ue e dalla stessa «Strategia nazionale di inclusione»: un’indagine conoscitiva
(cosa molto diversa dai «censimenti» effettuati dalle forze dell’ordine e
finalizzati a «smascherare» i supposti ricchi che vivono nei campi) che possa
determinare, nucleo familiare per nucleo familiare, competenze, necessità,
criticità e aspirazioni; poi, sulla base dei dati raccolti, percorsi di
inclusione personalizzati da adottare con azioni precise e tempi certi,
contando sui finanziamenti che l’Ue fornisce a questo scopo.
È
il metodo che ha condotto altri paesi europei, prima tra tutti la Spagna, a
risolvere la questione nel giro di un paio di decenni, nel rispetto dei diritti
umani e senza ricorrere all’impiego di «ruspe», più o meno metaforiche: lo
stesso metodo che, probabilmente, non si intende adottare perché non si è
capaci di investire nel futuro, di mettere in campo una visione complessiva e
di perseguirla. Forse perché è più comodo continuare a lucrare consenso sulla
pelle di qualche migliaia di poveri.
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