Andrea Aimar, Internazionale
31 luglio 2018
In 146 anni, la cartiera Pirinoli
di Roccavione, in provincia di Cuneo, non si era mai fermata. Nemmeno la
seconda guerra mondiale era riuscita a spegnere le sue macchine. Durante il
conflitto, infatti, mentre la maggior parte degli operai era al fronte, le
donne e gli anziani lavorarono per onorare le commesse statali, e cioè produrre
le scatole per le munizioni.
La cartiera si è dovuta fermare
nel 2012 a causa di una serie di scelte sbagliate che si trascinavano da tempo.
Tutto comincia a metà degli anni novanta, con l’acquisto di macchinari nuovi e
costosi. Nello stesso periodo, l’aumento del costo della carta e quello
dell’energia elettrica ha rallentato il rientro degli investimenti e messo in
difficoltà l’azienda. Nel 2006 è stata rilevata dalla Pkarton spa, un’azienda
nata per rilanciarla, ma la crisi economica mondiale cominciata nel 2008 ha
peggiorato la situazione. Il 21 giugno 2012 la Pirinoli ha dichiarato
fallimento, le linee sono state bloccate e gli operai soo finiti a casa.
Tuttavia, un gruppo di loro,
insieme all’ex direttore dello stabilimento, non ha mollato. Per tre anni hanno
presidiato la fabbrica e impedito che gli impianti andassero in rovina. Nel
frattempo, hanno creato una cooperativa e il 16 aprile 2015 si sono presentati
all’asta fallimentare per rilevare la cartiera. È grazie a loro che la Pirinoli
ha potuto riaprire.
Il prezzo della sfida
È un sabato di dicembre quando
raggiungiamo i suoi cancelli. Si lavora a ciclo continuo su tre turni, non ci
sono fine settimana. Sono passati due anni e mezzo dall’inizio della scommessa.
“Erano in tanti a credere che non ce l’avremmo fatta. All’inizio c’era un po’
di speranza, ma poi è subentrato lo scetticismo”, racconta Enrico Vola, 44
anni, alla Pirinoli dal 1994. “Alcuni ci consigliavano di non perdere tempo, di
andare a cercarci un lavoro. Ma noi ci siamo preparati, abbiamo studiato. La
sindaca, Germana Avena, è stata con noi, il paese ci sperava”.
Prima della crisi, a lavorare
alla cartiera c’erano centocinquanta persone. Quando è ripartita, settanta.
“Tutti soci della nuova cooperativa”, spiega Vola, “abbiamo dovuto investire
parte della nostra mobilità e ci siamo tagliati lo stipendio del 20 per cento,
non è stato facile ma ora stiamo andando bene e abbiamo il nostro lavoro”. Vola
sorride quando pensa a quello che dice qualcuno in paese: “Ogni tanto si sente
dire ‘questi si sono fatti i soldi, sono diventati industriali’, ma non hanno
mica capito la situazione”. A permettere a Enrico Vola e ai
suoi colleghi di rilevare la cartiera è stata una legge del 1985, la legge
Marcora, dal nome del politico democristiano che l’aveva ideata, ma che era
morto due anni prima della sua approvazione.
Il testo nasce per facilitare il
recupero da parte dei lavoratori di imprese in fallimento, e istituisce un
fondo permanente alimentato dal governo per aiutare la transizione. In
trent’anni, la legge ha permesso a 370 imprese di essere recuperate e a 14mila
persone di conservare il proprio lavoro, il tutto con un investimento di poco
più di 200 milioni di euro.
Dalla metà degli anni novanta e
fino al 2001 è stata congelata perché l’Unione europea aveva ritenuto che
violasse le norme sulla concorrenza e sugli aiuti di stato. Le direttive
dell’Unione sono state recepite nel 2001, e la Marcora è tornata operativa. Con
una modifica importante: prima il fondo permanente permetteva di triplicare
l’investimento della cooperativa di lavoratori, oggi lo può solo raddoppiare.
Inoltre, dal 2014 le aziende partecipate che gestiscono il fondo devono
prendere parte al piano d’impresa. La Pirinoli ha ricevuto il finanziamento
attraverso Cooperazione finanza impresa – la finanziaria partecipata dal
ministero dello sviluppo economico – e Coopfond – il fondo mutualistico di
Legacoop. Ed entrambe ora sono presenti nel consiglio d’amministrazione della
fabbrica.
“Il finanziamento iniziale e i
nostri risparmi sono stati fondamentali per ripartire. Ma bisognava
riallacciare i contatti con i clienti, far ripartire le linee”, racconta Vola.
Oggi è attiva solo una delle due. “È stato un lavoro di squadra, dovevamo
dimostrare di saper stare sul mercato. I clienti storici li abbiamo recuperati,
anche se la concorrenza estera sul costo della manodopera e su quello
dell’energia ci fa sempre stare sull’attenti”.
Scelte obbligate
Se nelle ultime settimane avete
comprato un pacco di pasta Barilla o una confezione di ovetti Kinder, è
probabile che abbiate avuto tra le mani, anche senza saperlo, il frutto del
loro lavoro, ovvero il “cartoncino patinato”. Qui a Roccavione fanno anche il
“grigio-grigio”, usato alla base dei bancali di confezioni di acqua, o per fare
le anime su cui è arrotolata la carta igienica.
Entrando alla Pirinoli, ci si
accorge però che tutti abbiamo a che fare con questa cartiera anche per
un’altra ragione. Superato il cancello, lo sguardo cade sul cortile a sinistra:
un grosso spazio occupato da enormi cubi di carta più o meno colorata. È la
carta riciclata che arriva dalla differenziata delle nostre case.
Dal piazzale della carta parte
anche la linea di produzione che si snoda lungo tutto il capannone. È un
insieme di macchinari in fila che non si fermano mai: da un lato inghiottono la
carta riciclata mischiata con la pasta di legno, dall’altra fanno uscire enormi
rotoli di cartoncino pronto per essere tagliato nelle diverse forme.
Poco prima del cambio turno parlo
con Riccardo Vola, 51 anni, in cartiera dal 1993: “Sembra che le cose stiano
andando meglio, ma all’inizio è stata dura. Facciamo più ore di prima e guadagniamo
meno”.
Gli chiedo se rifarebbe tutto,
cos’è cambiato ora che la fabbrica è anche sua: “Sì, non mi pento della scelta
fatta, anche se è dura e ci si rimette molto, però in giro non è rose e fiori.
Per me il lavoro è uguale a prima, non mi sento padrone, la responsabilità è la
stessa di allora. Facciamo più turni di prima, ma si fa quel che serve e
speriamo che le cose migliorino”.
I soldi, le ore di lavoro in più
e il personale in meno sono al centro anche delle parole di Franco Dalmasso,
classe 1968, elettricista, in cartiera dal 2002. “Prima in officina c’erano due
capi e sei manutentori, mentre oggi sono tre. Siamo meno e dobbiamo occuparci
di cose di cui prima non ci preoccupavamo. Da un lato è meglio, si impara di
più. Prima, se le cose non andavano, si andava dal capo e ci pensava lui, ora
bisogna insistere un po’ di più. Prima c’erano i padroni, cavoli loro. Io spero
che duri, sono orgoglioso di come siamo ripartiti e non vedo l’ora di
riprendere lo stipendio pieno”.
Daniele Nodari, dal 1992 al
reparto taglio e allestimento, è dello stesso avviso: “Siamo di meno e dobbiamo
fare più turni, si lavora molto. Ma in altri posti è pure peggio. Almeno
abbiamo continuato a fare il nostro lavoro. Certo con il costo della vita che è
cresciuto, quel 20 per cento in meno nello stipendio lo sentiamo”.
La riduzione è stata deliberata
nell’assemblea dei soci, una scelta obbligata e imposta dai finanziatori. “Non
si poteva fare diversamente, per stare in piedi e ripartire era necessario
risparmiare. Non potevamo permetterci ulteriori debiti se le cose fossero
andate male”, spiega Enrico Vola.
La produzione sta andando bene,
il fatturato sta risalendo e a giugno i lavoratori della Pirinoli torneranno a
ricevere lo stipendio pieno. Da gennaio gli straordinari sono pagati di più,
mentre prima – per un accordo interno – erano pagati come se fossero normali
ore di lavoro.
L’importanza della partecipazione
Ogni mese si svolgono assemblee
per fare il punto sui dati della produzione e sui conti, cosicché chi partecipa
possa conoscere la situazione della fabbrica in cui lavora. “Nessuno ti
nasconde niente”, dice Enrico Vola. “Se sai come stanno le cose è più facile
capire perché non possiamo permetterci di essere più di 90, anche se c’è lavoro
per 110 persone, e ti rendi anche conto di quanto sia complicato far muovere
tutto questo ambaradan”.
I più impegnati lamentano lo
scarso livello di presenza alle assemblee. La tendenza a delegare può essere
sintomo di forte fiducia, oppure di menefreghismo, spiegano. Ne parlo con
Fabrizio Galliano, addetto alla centrale termoelettrica, uno dei più attivi
durante la crisi. È stato sin dall’inizio componente del comitato promotore
della cooperativa, oltre che rappresentante sindacale unitario (rsu).
Capisce che per chi fa molti
turni, partecipare agli incontri può diventare un impegno gravoso, ma non vede
alternative. Secondo lui è un problema culturale: “Qua non siamo mica in Emilia
o in Toscana, siamo a Cuneo, ai piedi delle montagne”. Come dire che la cultura
della cooperazione non si crea da zero, ha bisogno di tempo e di pratica
continua.
Mentre ci avviciniamo alla parte
vecchia della cartiera e ci fermiamo per un attimo nel locale caldaie, chiedo a
Galliano se non vive la contraddizione di dover fare accordi con sé stesso. “Intanto
ora non siamo più i soli a lavorare in fabbrica, adesso che le cose vanno
meglio abbiamo assunto venti nuove persone, che però non sono soci come noi.
Quindi è necessario avere un rapporto sindacale. Poi certo, soprattutto per gli
accordi interni, mi rendo conto di finire una riunione in quanto ‘proprietario’
e iniziarne una da ‘sindacalista’. Abbiamo risposto a questo problema con
l’unica strada che ci sembra possibile: votare di più. Solo così possiamo far
andare bene le cose”.
La gerarchia è basata sulla
competenza. Cosa significa si vede ora che si sta discutendo l’acquisto di una
nuova caldaia. A nessuno viene in mente di mettersi a discutere, si fidano di
chi conosce l’argomento di cui si sta parlando. Silvano Carletto, il direttore
rimasto alla Pirinoli anche negli anni più difficili, è una figura chiave. Nel
2018 compie cinquant’anni, alla Pirinoli è entrato a 19 anni come operaio. Di
lui, i dipendenti dicono che è sempre disponibile, che con la sua
professionalità ha contribuito a tenere in vita la cartiera.
“Anche lui ovviamente prende il
20 per cento in meno. Tre mesi fa gli abbiamo fatto cambiare l’auto. La vecchia
non stava più insieme, ma lui per la Pirinoli macina molti chilometri. Su
questo episodio c’è qualche socio che non ha capito: ‘Noi tiriamo la cinghia,
lui si è comprato l’auto nuova’. Come se l’auto non fosse parte del suo lavoro,
che serve anche a noi”.
Nel racconto di Fabrizio Galliano
c’è la speranza di chi in questi anni ci ha davvero creduto e ha sentito il
peso di una comunità che vive con lo spauracchio dello spopolamento. In una
zona dove le altre aziende, soprattutto i cementifici, hanno tagliato posti di
lavoro, la vicenda della cartiera è diventata il simbolo di un paese che non si
arrende.
Galliano lo chiamano spesso a
raccontare la loro storia, che demolisce molti luoghi comuni: quelli di chi
pensa che le forme di autogestione siano impossibili perché senza padroni non
si può fare economia, e quelli di chi vede negli operai che salvano le
fabbriche dei rivoluzionari sulle barricate.
Quando parla delle difficoltà
attraversate, c’è sempre qualcuno che gli domanda: “Ma le cooperative non
dovrebbero far vivere meglio?”. Lui risponde sempre allo stesso modo: “Se
guardiamo dove eravamo due anni fa e dove stiamo andando oggi, ci accorgiamo
che stiamo meglio. Se le previsioni che abbiamo fatto si dimostreranno vere,
staremo meglio. Qua era tutto spento, il lavoro sembrava perso, le persone se
ne sarebbero dovute andare. Invece a giugno torneremo a prendere lo stipendio pieno.
Io sono orgoglioso di quello che abbiamo fatto, e so che lo sono anche gli
altri, anche se le difficoltà a volte stroncano l’umore”.
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