Redazione AMDuemila
01 agosto 2018
Ci sono tanti processi che si
sono sviluppati nell'arco di 30 anni CHE STANNO arrivando ad una sentenza di condanna
definitiva dei responsabili anche se rimane ancora qualche aspetto non del
tutto chiarito. Adesso c'è stata la desecretazione e la pubblicazione degli
atti del Csm vedremo se ci saranno elementi che ci consentiranno di chiarire
anche i punti oscuri. Quello che è rimasto di maggiore incertezza le telefonate
del confidente della polizia che fecero parte di una parte di processi, ma poi
non ci furono ulteriori approfondimenti". Lo ha detto l'eurodeputato Pd
Caterina Chinnici a margine della cerimonia che ha ricordato l'eccidio di via
Pipitone Federico 35 anni fa in cui morì il padre Rocco, gli uomini della
scorta e il portiere dello stabile. Il confidente libanese Bou Chebel Ghassan,
preannunciò la strage di via Pipitone Federico e non fu preso sul serio. Disse
che la mafia per eliminare un poliziotto o un magistrato avrebbe utilizzato il
metodo libanese dell'auto bomba. Ed è uno degli aspetti su cui, oggi, si potrà
approfondire.
Alla cerimonia di oggi, oltre ai
figli Caterina e Giovanni Chinnici, hanno preso parte il vicepresidente della
Regione Gaetano Armao, il sindaco di Palermo Leoluca Orlando, il prefetto di
Palermo Antonella De Miro, il comandante provinciale della guardia di Finanza
Giancarlo Trotta, il questore di Palermo Renato Cortese, il comandante
provinciale dei carabinieri Antonio Di Stasio. Alle 10 è stata celebrata una
messa nella caserma Dalla Chiesa nella sede del comando regionale dei carabinieri.
Di seguito proponiamo un articolo
scritto lo scorso anno dalla nostra redattrice Francesca Mondin
Chinnici, un magistrato troppo
audace che andava eliminato
di Francesca Mondin
“C'è la mafia che spara; la mafia
che traffica in droga e ricicla soldi sporchi; e c'è l'alta finanza legata al
potere politico (…) Stiamo lavorando per arrivare ai centri di potere più
elevati”.
Aveva le idee chiare il
magistrato Rocco Chinnici sull'articolazione della mafia. Quando ancora erano
in pochi i coraggiosi che nominavano la mafia pubblicamente, lui, il capo di
Falcone e Borsellino, già negli anni '80 cercava i colletti bianchi del terzo
livello. Non guardava in faccia nessuno e denunciava senza giri di parole
l'infiltrazione mafiosa nelle Istituzioni e nell'imprenditoria.
Per questo li avrebbe sicuramente
scovati e colpiti quei centri di potere occulti, se questi stessi signori in
doppio petto non avessero deciso che era meglio eliminare un nemico così audace
con un unico colpo sicuro: una autobomba piena di tritolo.
Chi il 29 luglio di trentaquattro
anni fa giunse in via Federico Pipitone descrisse quel luogo come Beirut,
ambulanze spiegate, feriti, un caos di vetri, calcinacci, polvere e fumo. E poi
quell'enorme cratere nero profondo un metro dove qualche istante prima c'era
Chinnici che si accingeva a salire nell'auto per un altro giorno di lavoro.
Invece no, il giudice non aveva fatto a tempo a salire nell'alfetta blindata
che la 500 parcheggiata difronte a lui esplose spazzando via il magistrato, i
due carabinieri che lo scortavano Mario Trapassi ed Edoardo Bartolotta, assieme
al portiere del palazzo Stefano Lisacchi. Il messaggio era chiaro: chi si
metteva in testa di sconfiggere la mafia e il sistema di poteri su cui poggiava
sarebbe stato fermato anche a suon di bombe e palazzi sventrati.
Chi c'è dietro i delitti
eccellenti?
La mattanza dei giusti era già
iniziata, prima di Chinnici, Palermo aveva visto cadere, uno ad uno, sotto i
colpi dei corleonesi, chi intralciava con indagini, processi e leggi, gli
affari di Cosa nostra e amici che da sempre avevano retto su un sistema di
taciti accordi. Di alcuni di questi delitti eccellenti, come ad esempio quello
di Pio La Torre, Piersanti Mattarella e Carlo Alberto dalla Chiesa, Chinnici
aveva seguito le indagini e aveva maturato l'idea che dietro i principali
omicidi eccellenti ci fosse un'unica regia. “Una mia eventuale condanna a morte
- confidò agli amici prima di morire - scaturirà dallo stesso cervello
criminale che ha già deciso gli omicidi Terranova, Mattarella, Costa, La
Torre”. Chinnici aveva capito, prima di molti altri, l'importanza di cercare le
interconnessioni tra i grandi delitti compiuti dalla mafia per studiare
unitariamente l’intero fenomeno mafioso. Ecco perché per molti aspetti può
essere considerato il precursore del pool antimafia e del modus operandi
utilizzato da Falcone e Borsellino. Oltre a creare l’embrione del primo maxi
processo con il procedimento allora detto “dei 162” cercò di potenziare e
rendere efficaci gli strumenti per la lotta alla mafia gettando le basi per il
futuro pool antimafia guidato da Antonio Caponnetto". “Ne tentò i primi
difficili esperimenti, - raccontò Paolo Borsellino in un suo scritto - sempre comunque
curando che si instaurasse un clima di piena e reciproca collaborazione e di
circolazione di informazioni fra i 'suoi' giudici”.
Nel mirino investigativo del
giudice finirono anche i cugini Salvo, Nino e Ignazio, potenti esponenti della
corrente andreottiana della Dc, nonché “uomini d'onore” all’epoca veri e propri
padroni della Sicilia imprenditoriale. E probabilmente Chinnici aveva colpito
nel segno perché, i cugini Salvo successivamente furono portati a processo dal
pm Nino Di Matteo che ottenne la loro condanna come mandanti esteri. “Questa
volta, - scrive Di Matteo nel libro Collusi - Cosa Nostra aveva agito su input
di altri. A dare il via era stato un vero e proprio potentato
economico-politico, costituito da soggetti la cui autorevolezza criminale derivava
dall’inserimento in un circuito esterno all’organizzazione mafiosa”. I cugini
Salvo, scrive ancora Di Matteo, “avevano potuto chiedere e ottenere un omicidio
eccellente di quel tipo proprio perché rappresentavano lo snodo più importante
di contatto e penetrazione del potere politico nazionale”.
Il palazzo dei veleni
Chinnici cercava indizi per
scoperchiare quelle infiltrazioni mafiose all'interno delle Istituzioni ben
consapevole che forse qualche amico infiltrato c'era anche all'interno del
palazzo di giustizia. Per tenere lontane quelle orecchie indiscrete quando
discuteva delle inchieste scottanti, infatti, si chiudeva in ascensore con il
procuratore Gaetano Costa e su e giù per i piani del Tribunale. Nel diario in
qui annotava riflessioni, fatti e intuizioni, scrisse più volte episodi
inquietanti che avvennero all'interno del palazzo di giustizia di Palermo. In
quelle pagine, pubblicate da “L'Espresso” poco dopo la strage di via Pipitone,
traspariva il pesante clima che respirò il magistrato in quello che dalla
stampa venne definito il palazzo dei veleni. Chinnici scrisse delle pressioni
ricevute per abbandonare le ricerche sulle banche che stava portando avanti
Falcone, degli avvertimenti in chiave mafiosa di lasciar perdere, di non
parlare e non “esporsi” troppo in pubblico in dibattiti e incontri sulla mafia.
Insomma Chinnici e il suo gruppo di magistrati testardi non piacevano né ai
mafiosi né a chi avrebbe dovuto sostenere la lotta contro la mafia e, invece,
preferiva che tutto restasse com'era.
Il mistero sul fascicolo
scomparso
Dopo numerosi processi e iter
giudiziari complessi il 24 giugno 2002 la Corte d’Appello di Caltanissetta ha
confermato 16 condanne (12 ergastoli e quattro condanne a 18 anni di
reclusione) per alcuni importanti boss di Cosa nostra e ha riconosciuto gli
“esattori” Nino e Ignazio Salvo (entrambi deceduti, il primo per malattia, il
secondo ucciso nel 1992) come mandanti dell'omicidio. Ma come da copione sono
rimasti alcuni interrogativi: non si è mai chiarito se ci furono depistaggi e
“aggiustamenti” nel terzo processo. Il mistero ruota attorno ad un fascicolo
scomparso dove il presidente della Corte d’Assise del terzo processo d'appello
per l'omicidio Chinnici, Giuseppe Recupero, veniva accusato di concorso esterno
in mafia e corruzione. Secondo alcuni pentiti infatti la mafia avrebbe corrotto
Recupero con 200 milioni per fare degli ‘aggiustamenti’ così da arrivare
all’assoluzione dei mandanti Michele e Salvatore Greco, e di Pietro Scarpisi e
Vincenzo Morabito come esecutori. Questo fascicolo venne trasmesso nuovamente a
Palermo nell’estate del ’98 dal gup di Reggio Calabria, dichiaratosi
“incompetente’’ a decidere sulla richiesta di rinvio a giudizio, ma il caso
finì in qualche cassetto. Finchè il procuratore Vittorio Teresi non scoprì che
il fascicolo non era mai stato iscritto a ruolo e nell'aprile 2013 aprì
ufficialmente una nuova indagine che archiviò l'anno successivo perché mentre
il fascicolo cadeva nel dimenticatoio Recupero era passato a miglior vita.
Sono passati 34 anni da quel 29
luglio che colpì al cuore del cambiamento, ancora una volta, il Paese. Possiamo
chiederci a che punto saremo oggi se quel pulsante non fosse stato premuto,
forse non si sarebbe nemmeno aperto il periodo delle stragi terroristiche mafiose,
forse respireremmo quel fresco profumo di libertà invece di essere ancora
orfani di verità. Di certo oggi non possiamo permettere che succeda di nuovo,
che il copione si ripeta e raccogliere questo impegno che spetta ad ogni
cittadino. Perché Chinnici, come raccontava Borsellino, era il primo ad
evidenziare la necessità di una cultura antimafiosa che partisse dai giovani.
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