Taranto. Il Mise vuole
verificare la presenza di eventuali irregolarità. Ma non ha un piano di riserva
Gianmario Leone, Il Manifesto
26 luglio 2018
A
sei anni esatti dal sequestro degli impianti a caldo dell’Ilva da parte della
Procura di Taranto, la vicenda del più grande siderurgico d’Europa è ancora
appesa ad un filo. Dopo cinque anni passati tra commissariamento e
amministrazione straordinaria, ben tredici decreti governativi, un processo in
corso presso la Corte d’Assise di Taranto con alla sbarra oltre 40 imputati per
disastro ambientale ed altri reati, con la sezione fallimentare del tribunale
di Milano che ha chiuso lo stato passivo con oltre 17mila posizioni creditorie
per un’esposizione finale che sfiorava i 4 miliardi di euro, siamo di fatto
ancora all’anno zero.
Non
è bastato nemmeno il bando di gara europeo, vinto lo scorso anno dal colosso
ArcelorMittal, per scrivere un nuovo inizio nella lunga storia dell’acciaieria
tarantina nata negli anni ’60. Non sono bastate due Autorizzazioni Integrate
Ambientali (2011 e 2012), il Piano Ambientale approvato dal governo Renzi
(2014) ed un secondo predisposto da Mittal (2017) per dare il via ai lavori di
risanamento degli impianti attesi da decenni. Così come decine di studi e di
dati su infortuni, malattie, morti bianche e decessi causati dall’inquinamento.
Oggi
infatti, l’ultimo capitolo di questo romanzo tutto italiano, racconta di
un’indagine avviata del MiSe guidato dal vicepremier e ministro del Lavoro
Luigi Di Maio, per verificare che la procedura di gara che ha assegnato gli
asset del gruppo Ilva al colosso Mittal, sia avvenuta secondo la legge. I
rilievi sollevati dall’Anac hanno infatti spinto Di Maio a chiedere lumi
all’Avvocatura di Stato e ad avviare approfondimenti. Nonostante a maggio
l’Antitrust europeo si fosse espresso in via definitiva sul caso, giudicando la
gara regolare.
Il
nocciolo della questione, che lascia sospesi tutti in un limbo, è che qualora
l’indagine accertasse delle irregolarità, la gara verrebbe annullata. Concetto
ribadito ieri dal vicepremier al ministero del Lavoro, nell’incontro avuto con
la delegazione della società indiana. Durante il quale Di Maio ha sottolineato
l’apprezzamento per la controproposta sul fronte di nuovi e più stringenti
impegni nella tutela ambientale, ma ha evidenziato come «sull’occupazione la
situazione non sia soddisfacente e vada ancora approfondita». ArcelorMittal ha
chiesto che l’addendum non sia reso pubblico per problemi di concorrenza, pur
impegnandosi «a raccontarlo a tutti gli stakeholder attraverso momenti di confronto»,
ha concluso il ministro che dopo la conferenza stampa è andato via senza
rispondere alle domande dei cronisti.
Di
contro, la società si è limitata a ribadire il proprio impegno “per il rilancio
di Ilva”, con un piano industriale che prevede investimenti per 4 miliardi di
euro. «Abbiamo partecipato alla gara in buona fede: restiamo fiduciosi che
presto completeremo la transazione» ha ribadito Mittal. Stando così le cose
dunque, sembra che sia Di Maio che il gruppo franco-indiano si augurino che l’indagine
che terminerà entro 30 giorni, non evidenzi irregolarità tali da dover
sospendere la gara. «E’ la legge che ci dirà se si deve ritirare la procedura
in autotutela oppure no» ha ribadito il vicepremier.
Se
mai dovesse prospettarsi lo scenario dell’annullamento, è certo che il governo
italiano si troverebbe di fronte ad una causa miliardaria con il colosso
indiano.
Ma
al di là di quest’aspetto, resta da capire sino in fondo il Di Maio pensiero.
Logica vorrebbe che il MiSe, insieme ai commissari straordinari, indicesse un
nuovo bando di gara europeo per la nuova assegnazione del gruppo Ilva. Questo
significherebbe far slittare la soluzione della vicenda Ilva al 2019, con
ulteriore slittamento degli adempimenti sul fronte ambientale. Tempo durante il
quale Ilva avrebbe bisogno di nuova liquidità, che il governo giallo-verde
dovrebbe garantire attraverso decreto, come avvenuto dal 2013 ad oggi. Per non
parlare delle criticità che si verrebbero a creare sia sul fronte sicurezza per
i lavoratori, con una manutenzione degli impianti oramai ai minimi termini, sia
nella crisi dell’indotto che già oggi vanta crediti per decine di milioni di
euro.
Un
piano B, almeno per il momento, non pare esserci. Anche a fronte di una
decisione storica, come la chiusura dell’Ilva, avrebbe bisogno di idee chiari e
progetti reali di riconversione economica del territorio e tutela dei
lavoratori, che a tutt’oggi non si intravedono. Con una città che oggi sembra
più disorientata che mai in vista di un futuro ‘diverso’ che sembra ancora
lontanissimo.
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