mercoledì 25 luglio 2018

Africa orientale I Popoli della valle dell'Omo


Un gigantesco progetto idroelettrico minaccia i popoli della bassa Valle dell’Omo. Hanno abitato nella valle per secoli grazie ad efficaci tecniche di sostentamento alimentate dalle piene naturali del fiume Omo. Ma oggi le tribù rischiano di perdere la loro indipendenza e la sicurezza alimentare, senza esser state nemmeno consultate.

Redazione Survival
28/07/2018

Una grave minaccia incombe sulla bassa Valle dell’Omo, in Etiopia, dove da secoli vivono diversi popoli indigeni che contano circa 200.000 persone.

Un’enorme diga idroelettrica, la Gibe III, è in costruzione sul fiume Omo e fornirà l’acqua a vaste piantagioni commerciali che si trovano nelle terre ancestrali delle tribù.
La società italiana Salini Costruttori ha iniziato nel 2006 a costruire l’opera, che ora è quasi completa. Le immagini satellitari mostrano che il governo ha iniziato a riempire il bacino della diga.
Il fragile ambiente e i mezzi di sussistenza delle tribù, strettamente legate al fiume e alle sue esondazioni annuali, verranno distrutti.
Dopo aver effettuato alcuni studi preliminari di valutazione, nel 2010 sia la Banca Europea per gli Investimenti (BEI) sia la Banca Africana di Sviluppo (AfDB) hanno reso noto di non essere più interessate a finanziare Gibe III.
Ciò nonostante, la Industrial and Commercial Bank of China (ICBC) – la più grande banca cinese – ha accettato di finanziare parte della costruzione della diga, e nel 2012 la Banca Mondiale ha deciso di finanziare le linee di trasmissione dell’energia.
La diga alimenterà centinaia di chilometri di canali di irrigazione deviando l’acqua verso le piantagioni.
Insieme ad altre associazioni locali e internazionali, idrologi e altri studiosi, Survival ritiene che la diga Gibe III e le piantagioni avranno conseguenze catastrofiche sui popoli della bassa Valle dell’Omo, che già vivono ai margini in quest’area arida e difficile.

Accaparramento di terre e reinsediamenti forzati
Nel 2011 il governo ha cominciato ad affittare enormi appezzamenti di terra fertile nella regione della bassa valle dell’Omo ad aziende malesi, italiane, indiane e coreane, specializzate nella coltivazione di palma da olio, jatropha, cotone e mais per la produzione di biocarburanti.

Per far spazio al grande progetto statale chiamato Kuraz Sugar Project – che attualmente ricopre 150.000 ettari ma potrebbe fagocitare un’area di 245.000 ettari – le autorità hanno iniziato a sfrattare dalle loro terre i Bodi, i Kwegu e i Mursi, trasferendoli in campi di reinsediamento. Anche i Suri, che vivono ad ovest dell’Omo, vengono sfrattati con la forza per far posto a vaste piantagioni commerciali.
I granai delle comunità e i loro preziosi pascoli sono stati distrutti. Chi si oppone al furto delle proprie terre, viene sistematicamente picchiato e confinato in prigione. Numerose sono le denunce di stupro e persino di uccisione degli indigeni da parte dei militari che pattugliano la regione per tutelare gli operai che lavorano alle infrastrutture e alle piantagioni.
A Bodi, Mursi e Suri è stato intimato di liberarsi delle mandrie – che rappresentano una parte essenziale del loro sostentamento – e che nei campi di reinsediamento (dove forse potranno tenere solo qualche capo di bestiame) dovranno dipendere totalmente dagli aiuti governativi.
Non è stato effettuato nessuno studio di valutazione d’impatto ambientale o sociale adeguato sulle piantagioni e sugli schemi di irrigazione, e i popoli indigeni interessati non sono stati consultati in merito a questi progetti. I maggiori donatori di aiuti all’Etiopia, Gran Bretagna e USA, hanno effettuato diverse visite nella regione per indagare sulle violazioni dei diritti umani. Una delegazione di donatori è tornata nella bassa valle dell’Omo nell’agosto 2014 ma i rapporti stilati a seguito della missione sono stati resi noti solo nel settembre 2015, dopo che Survival si è appellata alla Commissione Europea.
Nonostante all’inizio del 2015 la Gran Bretagna abbia dichiarato di non finanziare più il programma Promozione di Servizi di Base (Promoting Basic Services), che molti denunciano sia collegato al reinsediamento forzato, il governo ha aumentato i suoi finanziamenti in altre aree e continua a non spiegare quali meccanismi ha posto in atto per garantire che questi soldi non contribuiscano agli abusi.

Popoli della Valle dell’Omo
La bassa Valle dell’Omo è un territorio di grande bellezza, in cui ecosistemi diversi si intersecano con una delle ultime foreste pluviali sopravvissute nelle regioni aride dell’Africa sub-sahariana. Ad alimentare la straordinaria biodiversità della regione e garantire la sicurezza alimentare dei suoi popoli sono le piene stagionali del fiume, prodotte dalle piogge degli altipiani.

I Bodi (Me’en), i Daasanach, i Kara (o Karo), i Kwegu (o Muguji), i Mursi e i Nyangatom abitano stabilmente lungo le sponde del fiume, da cui dipendono totalmente. Grazie alle pratiche socio-economiche ed ecologiche complesse che hanno sviluppato, hanno potuto adattarsi a condizioni dure e spesso imprevedibili dovute al clima semi-arido della regione.
Le esondazioni annuali del fiume Omo servono da nutrimento per la ricca biodiversità della regione e assicurano la sicurezza alimentare delle tribù, dato che le piogge sono scarse e irregolari. Seppur in modi diversi, tutti i popoli della valle dipendono da una varietà di tecniche di sostentamento che si alternano e completano a vicenda con il mutare delle stagioni e delle condizioni climatiche: le coltivazioni di sorgo, mais, fagioli nelle radure alluvionali lungo le rive dell’Omo, le coltivazioni a rotazione nelle foreste pluviali e la pastorizia nelle savane o nei pascoli generati dalle esondazioni. Alcune tribù, e in particolare i Kwegu, cacciano e pescano.
Bovini, capre e pecore sono essenziali per sostentare la maggior parte dei popoli, che li utilizzano per il sangue, il latte, la carne e le pelli. Il bestiame è di particolare valore e viene usato anche per pagare le doti delle spose.
È un elemento fondamentale per difendersi dalla fame quando la pioggia e i raccolti scarseggiano. In alcune stagioni le famiglie si spostano in accampamenti temporanei per fornire alle mandrie nuovo terreno da pascolo, e sopravvivono grazie al latte e al sangue di questi ultimi. I Bodi trascorrono ore ad osservare i loro animali e ad ammirarne valore e bellezza, e spesso compongono canzoni in loro onore.
Altri popoli, come gli Hamar, i Chai o i Suri e i Turkana vivono più distante, ma grazie ad una rete consolidata di alleanze etniche, possono accedere alle risorse generate dalle piene dell’Omo nei momenti del bisogno, specialmente in caso di siccità e carestie.
Anche se cooperano ed effettuano scambi commerciali, tra alcuni di questi popoli si verificano periodicamente dei conflitti per l’utilizzo delle scarse risorse naturali. Con la progressiva sottrazione di terre da parte del governo, la competizione è andata crescendo e l’introduzione delle armi da fuoco ha reso i litigi più pericolosi di un tempo.

Senza voce
I popoli della valle dell’Omo soffrono da anni per la progressiva perdita di controllo e di accesso alle loro terre. Negli anni ’60 e ’70, nei loro territori sono stati istituiti due parchi nazionali dalla cui gestione i popoli indigeni sono stati esclusi. Negli anni ’80, inoltre, parte delle loro terre sono state trasformate in grandi fattorie irrigate e controllate dallo stato mentre recentemente il governo ha iniziato a convertire altre aree in vaste piantagioni per la produzione di biocarburanti.
I popoli indigeni, che da generazioni usano questa terra per coltivare i propri raccolti e far pascolare le proprie mandrie, non hanno avuto voce in capitolo.
Anche se la costituzione etiope garantisce ai popoli indigeni il diritto alla “piena consultazione” e alla “espressione del proprio punto di vista nella pianificazione e attuazione di politiche e progetti ambientali che li riguardano”, di fatto le comunità indigene vengono raramente consultate in modo appropriato.
I popoli della valle dell’Omo prendono le decisioni pubbliche nel corso di estesi incontri comunitari a cui partecipano tutti gli adulti. L’accesso all’informazione pubblica è pressoché nulla perché pochi parlano l’amarico [la lingua nazionale] e il livello di alfabetizzazione è tra i più bassi d’Etiopia.
I funzionari di USAID che hanno visitato la bassa valle dell’Omo nel gennaio 2009 per valutare l’impatto della diga Gibe III hanno reso noto che le comunità indigene locali non sapevano nulla o praticamente nulla del progetto.
Con l’obiettivo di limitare al minimo il dibattito civile sulle politiche controverse e censurare il dissenso, nel febbraio 2009 il governo etiope ha varato il decreto 621/2009. Il provvedimento impedisce a qualsiasi associazione o Ong locale che riceva più del 10% dei suoi finanziamenti da fondi esteri (quindi virtualmente tutte le associazioni esistenti nel paese) di lavorare in settori cruciali per la società civile tra cui quello dei diritti umani e della partecipazione democratica.
Nel luglio 2009, l’ufficio giudiziario della regione meridionale ha revocato il riconoscimento a 41 “associazioni comunitarie” locali con l’accusa di non cooperare con le politiche governative. Secondo molti osservatori, si è tratta di una manovra del governo effettuata per sradicare qualsiasi dibattito d’opposizione alla diga.

La diga Gibe III
Nel luglio del 2006, il governo etiope ha affidato alla società italiana Salini Costruttori la realizzazione del più grande progetto idroelettrico mai concepito nel paese, la diga Gibe III. Il contratto è stato concluso senza gara d’appalto in violazione delle leggi etiopi.
Iniziati nel 2006 subito dopo la firma della commessa da 1,4 miliardi di euro, oggi i lavori di costruzione quasi completati e il governo ha iniziato a riempire la riserva a monte.
La diga sbarrerà il corso centro-settentrionale dell’Omo, il fiume che scorre impetuoso per 760 km dall’altopiano etiope fino al Lago Turkana, al confine con il Kenya. Il fiume attraversa i parchi nazionali Mago e Omo e, nel 1980, il suo bacino è stato inserito nell’elenco dei Patrimoni dell’Umanità dell’Unesco per la sua particolare importanza geologica e archeologica.
Secondo gli esperti la riduzione del flusso del fiume causerà l’abbassamento del livello del lago Turkana di circa due terzi. Questo distruggerà la riserve ittiche da cui dipendono centinaia di migliaia di indigeni.
Le leggi ambientali etiopi vietano la realizzazione di progetti che non siano stati preventivamente sottoposti a complete valutazioni di impatto ambientale e sociale (Environmental Social Impact Assessment – ESIA). Nonostante questo, l’Authority etiope per la protezione dell’ambiente (EPA) ha approvato retroattivamente le valutazioni d’impatto della Gibe III solo nel luglio 2008, con quasi due anni di ritardo.
Gli studi di impatto della diga Gibe III (ESIA) sono stati effettuati dall’agenzia milanese CESI per conto dell’azienda energetica etiope EEPCo e della società costruttrice Salini. Pubblicati in versione definitiva nel gennaio 2009, i suoi risultati sono saldamente favorevoli al progetto, il cui impatto sull’ambiente e sulle popolazioni interessate viene valutato come “trascurabile” o addirittura “positivo”.
Secondo numerosi esperti indipendenti, la diga, le piantagioni e i canali di irrigazione avranno un enorme impatto sui delicati ecosistemi della regione modificando le esondazioni stagionali del fiume Omo e riducendone drammaticamente il volume. Questo causerà l’inaridimento di molte aree a riva ed farà scomparire la foresta ripariale. I popoli indigeni come gli Kwegu, che dipendono quasi totalmente dalla pesca e dalla caccia, si troveranno senza più nulla.
Gravissime, denunciano gli scienziati, anche le ripercussioni sul lago Turkana del Kenya, che riceve più del 90% delle sue acque dal fiume Omo. Il drastico abbassamento del livello del lago potrebbe compromettere irreversibilmente le possibilità di sostentamento di almeno altre 300.000 persone tra cui i Turkana e i Rendille, che dal lago dipendono per pescare e procurarsi acqua potabile.

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