Un
gigantesco progetto idroelettrico minaccia i popoli della bassa Valle dell’Omo.
Hanno abitato nella valle per secoli grazie ad efficaci tecniche di
sostentamento alimentate dalle piene naturali del fiume Omo. Ma oggi le tribù
rischiano di perdere la loro indipendenza e la sicurezza alimentare, senza
esser state nemmeno consultate.
Redazione Survival
28/07/2018
Una grave minaccia incombe sulla
bassa Valle dell’Omo, in Etiopia, dove da secoli vivono diversi popoli indigeni
che contano circa 200.000 persone.
Un’enorme diga idroelettrica, la
Gibe III, è in costruzione sul fiume Omo e fornirà l’acqua a vaste piantagioni
commerciali che si trovano nelle terre ancestrali delle tribù.
La società italiana Salini
Costruttori ha iniziato nel 2006 a costruire l’opera, che ora è quasi completa.
Le immagini satellitari mostrano che il governo ha iniziato a riempire il
bacino della diga.
Il fragile ambiente e i mezzi di
sussistenza delle tribù, strettamente legate al fiume e alle sue esondazioni
annuali, verranno distrutti.
Dopo aver effettuato alcuni studi
preliminari di valutazione, nel 2010 sia la Banca Europea per gli Investimenti
(BEI) sia la Banca Africana di Sviluppo (AfDB) hanno reso noto di non essere
più interessate a finanziare Gibe III.
Ciò nonostante, la Industrial and
Commercial Bank of China (ICBC) – la più grande banca cinese – ha accettato di
finanziare parte della costruzione della diga, e nel 2012 la Banca Mondiale ha
deciso di finanziare le linee di trasmissione dell’energia.
La diga alimenterà centinaia di
chilometri di canali di irrigazione deviando l’acqua verso le piantagioni.
Insieme ad altre associazioni
locali e internazionali, idrologi e altri studiosi, Survival ritiene che la
diga Gibe III e le piantagioni avranno conseguenze catastrofiche sui popoli
della bassa Valle dell’Omo, che già vivono ai margini in quest’area arida e
difficile.
Accaparramento
di terre e reinsediamenti forzati
Nel 2011 il governo ha cominciato
ad affittare enormi appezzamenti di terra fertile nella regione della bassa
valle dell’Omo ad aziende malesi, italiane, indiane e coreane, specializzate
nella coltivazione di palma da olio, jatropha, cotone e mais per la produzione
di biocarburanti.
Per far spazio al grande progetto
statale chiamato Kuraz Sugar Project – che attualmente ricopre 150.000 ettari
ma potrebbe fagocitare un’area di 245.000 ettari – le autorità hanno iniziato a
sfrattare dalle loro terre i Bodi, i Kwegu e i Mursi, trasferendoli in campi di
reinsediamento. Anche i Suri, che vivono ad ovest dell’Omo, vengono sfrattati
con la forza per far posto a vaste piantagioni commerciali.
I granai delle comunità e i loro
preziosi pascoli sono stati distrutti. Chi si oppone al furto delle proprie
terre, viene sistematicamente picchiato e confinato in prigione. Numerose sono
le denunce di stupro e persino di uccisione degli indigeni da parte dei
militari che pattugliano la regione per tutelare gli operai che lavorano alle
infrastrutture e alle piantagioni.
A Bodi, Mursi e Suri è stato
intimato di liberarsi delle mandrie – che rappresentano una parte essenziale
del loro sostentamento – e che nei campi di reinsediamento (dove forse potranno
tenere solo qualche capo di bestiame) dovranno dipendere totalmente dagli aiuti
governativi.
Non è stato effettuato nessuno
studio di valutazione d’impatto ambientale o sociale adeguato sulle piantagioni
e sugli schemi di irrigazione, e i popoli indigeni interessati non sono stati
consultati in merito a questi progetti. I maggiori donatori di aiuti
all’Etiopia, Gran Bretagna e USA, hanno effettuato diverse visite nella regione
per indagare sulle violazioni dei diritti umani. Una delegazione di donatori è
tornata nella bassa valle dell’Omo nell’agosto 2014 ma i rapporti stilati a
seguito della missione sono stati resi noti solo nel settembre 2015, dopo che
Survival si è appellata alla Commissione Europea.
Nonostante all’inizio del 2015 la
Gran Bretagna abbia dichiarato di non finanziare più il programma Promozione di
Servizi di Base (Promoting Basic Services), che molti denunciano sia collegato
al reinsediamento forzato, il governo ha aumentato i suoi finanziamenti in
altre aree e continua a non spiegare quali meccanismi ha posto in atto per
garantire che questi soldi non contribuiscano agli abusi.
Popoli della Valle dell’Omo
La bassa Valle dell’Omo è un
territorio di grande bellezza, in cui ecosistemi diversi si intersecano con una
delle ultime foreste pluviali sopravvissute nelle regioni aride dell’Africa
sub-sahariana. Ad alimentare la straordinaria biodiversità della regione e
garantire la sicurezza alimentare dei suoi popoli sono le piene stagionali del
fiume, prodotte dalle piogge degli altipiani.
I Bodi (Me’en), i Daasanach, i
Kara (o Karo), i Kwegu (o Muguji), i Mursi e i Nyangatom abitano stabilmente
lungo le sponde del fiume, da cui dipendono totalmente. Grazie alle pratiche
socio-economiche ed ecologiche complesse che hanno sviluppato, hanno potuto
adattarsi a condizioni dure e spesso imprevedibili dovute al clima semi-arido
della regione.
Le esondazioni annuali del fiume
Omo servono da nutrimento per la ricca biodiversità della regione e assicurano
la sicurezza alimentare delle tribù, dato che le piogge sono scarse e
irregolari. Seppur in modi diversi, tutti i popoli della valle dipendono da una
varietà di tecniche di sostentamento che si alternano e completano a vicenda
con il mutare delle stagioni e delle condizioni climatiche: le coltivazioni di
sorgo, mais, fagioli nelle radure alluvionali lungo le rive dell’Omo, le
coltivazioni a rotazione nelle foreste pluviali e la pastorizia nelle savane o
nei pascoli generati dalle esondazioni. Alcune tribù, e in particolare i Kwegu,
cacciano e pescano.
Bovini, capre e pecore sono
essenziali per sostentare la maggior parte dei popoli, che li utilizzano per il
sangue, il latte, la carne e le pelli. Il bestiame è di particolare valore e
viene usato anche per pagare le doti delle spose.
È un elemento fondamentale per
difendersi dalla fame quando la pioggia e i raccolti scarseggiano. In alcune
stagioni le famiglie si spostano in accampamenti temporanei per fornire alle
mandrie nuovo terreno da pascolo, e sopravvivono grazie al latte e al sangue di
questi ultimi. I Bodi trascorrono ore ad osservare i loro animali e ad
ammirarne valore e bellezza, e spesso compongono canzoni in loro onore.
Altri popoli, come gli Hamar, i
Chai o i Suri e i Turkana vivono più distante, ma grazie ad una rete
consolidata di alleanze etniche, possono accedere alle risorse generate dalle
piene dell’Omo nei momenti del bisogno, specialmente in caso di siccità e
carestie.
Anche se cooperano ed effettuano
scambi commerciali, tra alcuni di questi popoli si verificano periodicamente
dei conflitti per l’utilizzo delle scarse risorse naturali. Con la progressiva
sottrazione di terre da parte del governo, la competizione è andata crescendo e
l’introduzione delle armi da fuoco ha reso i litigi più pericolosi di un tempo.
Senza
voce
I popoli della valle dell’Omo
soffrono da anni per la progressiva perdita di controllo e di accesso alle loro
terre. Negli anni ’60 e ’70, nei loro territori sono stati istituiti due parchi
nazionali dalla cui gestione i popoli indigeni sono stati esclusi. Negli anni
’80, inoltre, parte delle loro terre sono state trasformate in grandi fattorie
irrigate e controllate dallo stato mentre recentemente il governo ha iniziato a
convertire altre aree in vaste piantagioni per la produzione di biocarburanti.
I popoli indigeni, che da
generazioni usano questa terra per coltivare i propri raccolti e far pascolare
le proprie mandrie, non hanno avuto voce in capitolo.
Anche se la costituzione etiope
garantisce ai popoli indigeni il diritto alla “piena consultazione” e alla
“espressione del proprio punto di vista nella pianificazione e attuazione di
politiche e progetti ambientali che li riguardano”, di fatto le comunità
indigene vengono raramente consultate in modo appropriato.
I popoli della valle dell’Omo
prendono le decisioni pubbliche nel corso di estesi incontri comunitari a cui
partecipano tutti gli adulti. L’accesso all’informazione pubblica è pressoché
nulla perché pochi parlano l’amarico [la lingua nazionale] e il livello di
alfabetizzazione è tra i più bassi d’Etiopia.
I funzionari di USAID che hanno
visitato la bassa valle dell’Omo nel gennaio 2009 per valutare l’impatto della
diga Gibe III hanno reso noto che le comunità indigene locali non sapevano
nulla o praticamente nulla del progetto.
Con l’obiettivo di limitare al
minimo il dibattito civile sulle politiche controverse e censurare il dissenso,
nel febbraio 2009 il governo etiope ha varato il decreto 621/2009. Il
provvedimento impedisce a qualsiasi associazione o Ong locale che riceva più
del 10% dei suoi finanziamenti da fondi esteri (quindi virtualmente tutte le
associazioni esistenti nel paese) di lavorare in settori cruciali per la
società civile tra cui quello dei diritti umani e della partecipazione
democratica.
Nel luglio 2009, l’ufficio
giudiziario della regione meridionale ha revocato il riconoscimento a 41
“associazioni comunitarie” locali con l’accusa di non cooperare con le
politiche governative. Secondo molti osservatori, si è tratta di una manovra
del governo effettuata per sradicare qualsiasi dibattito d’opposizione alla
diga.
La
diga Gibe III
Nel luglio del 2006, il governo
etiope ha affidato alla società italiana Salini Costruttori la realizzazione
del più grande progetto idroelettrico mai concepito nel paese, la diga Gibe
III. Il contratto è stato concluso senza gara d’appalto in violazione delle
leggi etiopi.
Iniziati nel 2006 subito dopo la
firma della commessa da 1,4 miliardi di euro, oggi i lavori di costruzione
quasi completati e il governo ha iniziato a riempire la riserva a monte.
La diga sbarrerà il corso
centro-settentrionale dell’Omo, il fiume che scorre impetuoso per 760 km
dall’altopiano etiope fino al Lago Turkana, al confine con il Kenya. Il fiume
attraversa i parchi nazionali Mago e Omo e, nel 1980, il suo bacino è stato
inserito nell’elenco dei Patrimoni dell’Umanità dell’Unesco per la sua particolare
importanza geologica e archeologica.
Secondo gli esperti la riduzione
del flusso del fiume causerà l’abbassamento del livello del lago Turkana di
circa due terzi. Questo distruggerà la riserve ittiche da cui dipendono
centinaia di migliaia di indigeni.
Le leggi ambientali etiopi
vietano la realizzazione di progetti che non siano stati preventivamente
sottoposti a complete valutazioni di impatto ambientale e sociale
(Environmental Social Impact Assessment – ESIA). Nonostante questo, l’Authority
etiope per la protezione dell’ambiente (EPA) ha approvato retroattivamente le
valutazioni d’impatto della Gibe III solo nel luglio 2008, con quasi due anni
di ritardo.
Gli studi di impatto della diga
Gibe III (ESIA) sono stati effettuati dall’agenzia milanese CESI per conto
dell’azienda energetica etiope EEPCo e della società costruttrice Salini.
Pubblicati in versione definitiva nel gennaio 2009, i suoi risultati sono
saldamente favorevoli al progetto, il cui impatto sull’ambiente e sulle
popolazioni interessate viene valutato come “trascurabile” o addirittura
“positivo”.
Secondo numerosi esperti
indipendenti, la diga, le piantagioni e i canali di irrigazione avranno un
enorme impatto sui delicati ecosistemi della regione modificando le esondazioni
stagionali del fiume Omo e riducendone drammaticamente il volume. Questo
causerà l’inaridimento di molte aree a riva ed farà scomparire la foresta
ripariale. I popoli indigeni come gli Kwegu, che dipendono quasi totalmente
dalla pesca e dalla caccia, si troveranno senza più nulla.
Gravissime, denunciano gli
scienziati, anche le ripercussioni sul lago Turkana del Kenya, che riceve più
del 90% delle sue acque dal fiume Omo. Il drastico abbassamento del livello del
lago potrebbe compromettere irreversibilmente le possibilità di sostentamento
di almeno altre 300.000 persone tra cui i Turkana e i Rendille, che dal lago
dipendono per pescare e procurarsi acqua potabile.
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