Roma.
Nel 2005 vennero «trasferiti» lì i rom macedoni e kosovari cacciati da
«Casilino 900». Il 90% dei bambini andava a scuola e c’erano buoni standard
igienico-sanitari
Anna Pizzo, il Manifesto
Per arrivare al Camping River
bisogna prendere via Tiberina, nord di Roma, e trovare la stradicciola che va
verso il fiume, a metà della quale due macchine della polizia locale sono messe
di traverso in una specie di posto di blocco; controllo dei documenti, mentre
altri vigili chiedono se, da giornalista, abbiamo il permesso per entrare nel
campo. Quale permesso? Quando siamo andati in passato nel campo rom, non
abbiamo mai chiesto permessi. Ma il 30 giugno 2018 è un’altra storia. Perché
proprio il 30 giugno è scaduto l’ultimatum del Comune di Roma.
IL GRADUATO TELEFONA al
comandante, che chiede al suo superiore eccetera. Alla fine è consentito
entrare ma non nell’«area cantiere». Il «cantiere» è la zona del camping in cui
le ruspe stanno demolendo i container di proprietà del comune, gli altri sono
del padrone del camping. I container ancora non demoliti sono lì, vandalizzati.
Sbirciando dentro si vedono cucine, tavoli, letti buttati all’aria, tutto quel
che chi ci abitava non è riuscito a portar via a braccia.
Camping River ha una storia
complicata, cominciata nel 2005, quando il Comune lo chiamò «villaggio
attrezzato» e decise di «trasferirci» i rom macedoni e kosovari sgomberati da
Casilino 900.
Per quei tempi (ma oggi è un
ricordo lontano) si trattava di un’isola felice: il 90 per cento dei bambini
andava a scuola e c’erano buoni standard sotto il profilo igienico-sanitario.
Ma negli ultimi anni tutto è precipitato perché nel cosiddetto «piano nomadi»
della giunta Raggi, Camping River doveva essere il primo a chiudere.
COSÌ, NEL CORSO DEI MESI, agli
abitanti hanno tagliato l’acqua, poi la corrente elettrica poi hanno smesso di
ritirare i rifiuti. Infine, e arriviamo a questi ultimi dieci giorni, hanno
sbaraccato i container. Ufficialmente, le famiglie potrebbero avere i
contributi per andare a vivere in condizioni migliori. In realtà, per capire
come funziona, parliamo di Giorgio Halilovic, abitante di Camping River, che un
giorno viene fermato dai vigili e, poiché sul suo furgone trasportava rottami
raccolti per rivenderli, si vede revocare le misure di sostegno non solo a lui,
ma a tutta la sua famiglia. Anche a chi non è stato sanzionato, a dire il vero,
le cose non sono andate maglio: chi volete dia una casa in affitto a una
famiglia rom, anche se a garantire (per un periodo relativo di tempo) è il
Comune?
PER MOLTI ANNI Camping River è
stato un luogo del tutto regolare, finché la signora Raggi non ha deciso di far
valere le sue regole (andava molto fiera che nel «contratto di governo» fosse
stato inserito il suo «piano rom») e rincorrere il ciclone Salvini. Prendiamo
la giovane signora Halilovic, che nonostante il nome bosniaco, è nata in
Italia, è cittadina quanto la signora Raggi ed è residente a Roma. I suoi
fuggirono dalla guerra jugoslava quando quei profughi erano popolari e
benvenuti. Oggi ha due figlie biondissime di due e tre anni che dormono nella
casupola di mattoni di una sua parente e lei dorme all’aperto. E chiede: «Ma
Salvini ha figli? Se li avesse non farebbe queste cose». La signora Halilovic,
non sa che Salvini, «da padre», ha deciso di lasciare annegare i bambini nel
Mediterraneo, come i tre neonati morti l’altro ieri.
IL DIRIMPETTAIO, si fa per dire,
della signora è kosovaro: altri profughi che hanno avuto una certa fortuna, al
tempo in cui D’Alema bombardava Belgrado. Infatti ha lo status di rifugiato. E
quattro figli, che non sa dove far dormire dopo l’abbattimento del container:
tutti si accucciano all’aperto, tanto fa caldo, solo che l’altra notte ha
piovuto e i bimbi piangevano, racconta.
IL SUO AMICO È BOSNIACO e ha un
passaporto da apolide rilasciato dalla Repubblica italiana. Anche lui ha il
problema dei suoi figli, soprattutto perché o accetta i 10mila euro che il
comune promette (solo a quelli in regola, beninteso, i Cinque stelle ci
tengono, alla legalità, i «clandestini» sono condannati a essere sgomberati a
vita), soldi per affittare una casa, e lui commenta «chi me la dà una casa? E
se la trovo, come la pago dopo un anno, se non trovo lavoro?». Se non c’è la
casa, c’è l’«alternativa». L’alternativa è che lui va in un centro di
accoglienza, chiamiamolo così, «fuori Roma» mentre la moglie e i quattro
bambini vanno in un analogo centro sulla Casilina.
Ma non era Trump a separare a
forza le famiglie? Gli esperti dicono: lo fanno sempre, ma che sia un’abitudine
non rende questa pratica meno orrenda. Il bosniaco dice: «Sono stato sulla
Casilina, mi hanno dato un permesso per andare a vedere, la stanza è abbastanza
grande per tutti perché devono portar via il padre ai bambini e suo marito a
mia moglie?».
IMMAGINIAMO, per sottrarvi
all’abitudine di veder trattare così i rom, (e a quelli di Camping River
l’allora sindaco Alemanno promise case popolari entro sette mesi), che si stia
parlando di ebrei fuggiti alla persecuzione, o che si tratti degli abruzzesi
inurbati negli anni ’50 e che avevano costruito le baraccopoli di cui scrisse
Pier Paolo Pasolini. Diceva Luigi Pintor che il segreto sta nel non abituarsi,
nel mantenere curiosità e capacità di indignarsi, invece che votare la signora Raggi,
come molta gente di sinistra ha fatto a suo tempo.
*Associazione Cittadinanza e
Minoranze
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