Chiara Saraceno.Rivista delle
politiche sociali
25/07/2018
Le analisi di genere hanno
evidenziato come i sistemi di welfare non siano neutri né neutrali rispetto ai
modelli di organizzazione famigliare e di rapporti di potere tra uomini e
donne, dentro e fuori la famiglia, che sostengono e talvolta promuovono. Si
può, anzi, sostenere che le forme di regolazione dei rapporti di genere (gender
arrangements) sono una dimensione specifica dei sistemi di welfare, a sua volta
sostenuta da modelli culturali circa ciò che è appropriato in base al genere
(Pfau-Effinger, 2004). Il livello e tipo di offerta di servizi, i trasferimenti
alle famiglie, i sistemi fiscali, le politiche per la casa, oltre che le
pensioni o le indennità di disoccupazione, così come le forme di regolazione
del mercato del lavoro e dell’orario di lavoro, ad uno sguardo di genere escono
da una loro presunta neutralità e rivelano gli assunti dati per scontati
rispetto alla divisione del lavoro tra uomini e donne. Impone anche di
affrontare il lavoro familiare e di cura non pagato come lavoro necessario che
non solo va meglio redistribuito tra uomini e donne e tra famiglia e società,
ma che va anche riconosciuto nel suo valore e per il quale occorre garantire
tempo, alle donne e agli uomini. Una visione della (dis)uguaglianza di genere
basata non solo sulla partecipazione al lavoro remunerato ma anche al lavoro di
cura complica, infatti, la dicotomia familizzazione-defamilizzazione e il modo
in cui si possono valutare le politiche in questo campo. In primo luogo anche
nei contesti più, o viceversa meno, defamilizzati la cura, salvo eccezioni
considerate per lo più patologiche o estreme, è sempre prestata da un mix di
persone e istituzioni, in parte a pagamento in parte no.
In secondo luogo, accanto alla
defamilizzazione e politiche pubbliche possono (nella forma dei congedi) non
solo garantire «tempo per la cura», ma, se esplicitamente disegnate a questo
scopo anche favorire un riequilibrio di genere nelle responsabilità di cura
(Saraceno e Keck, 2013). Le analisi delle studiose femministe hanno trovato un
terreno di ascolto favorevole tra coloro che a livello internazionale si
interrogano sui cosiddetti nuovi rischi sociali, scaturenti dalla combinazione
invecchiamento della popolazione, indebolimento delle due istituzioni che
tradizionalmente avevano costituito le basi del welfare state tradizionale -
l’istituzione del matrimonio come legame per tutta la vita e il pieno e stabile
impiego (maschile) – le trasformazioni del lavoro dovute non solo alla
globalizzazione, ma allo sviluppo dell’economia della conoscenza. Incoraggiare
e sostenere con politiche di conciliazione famiglia-lavoro l’occupazione
femminile in nome dell’uguaglianza di genere sembra una sorta di uovo di
colombo: consente di allargare la base impositiva, allentare l’effetto
dell’invecchiamento sulla disponibilità di forza lavoro, compensare i rischi
dell’indebolimento del matrimonio e valorizzare tutto il capitale umano
disponibile. Pur allontanandosi
radicalmente dal modello male-breadwinner, questo ri-orientamento del modello
culturale, tuttavia, non si discosta dall’altro fondamento del welfare
tradizionale, ovvero dalla partecipazione al mercato del lavoro come fonte dei
diritti sociali e della cittadinanza sociale stessa. Anzi, per molti versi
l’accentua, proponendo il modello dell’adulto-lavoratore (per il mercato) come
valido per tutti, uomini e donne. La questione del lavoro di cura necessaria
viene formulata come «impedimento», «costrizione» (per le donne) che va il più
possibile contenuta tramite servizi, più che riconosciuta sia per le donne sia
per gli uomini La stessa importante, ancorché riduttiva, questione
dell’uguaglianza di genere nel mercato del lavoro è stata ridefinita in termini
di partecipazione e di conciliazione famiglia-lavoro, non di uguaglianza di
opportunità nel mercato del lavoro, né tantomeno di riorganizzazione del lavoro
(remunerato) per rendere quella conciliazione non esclusivamente
unidirezionale. Ciò è evidente nei due
approcci teorici alla riforma del welfare che hanno trovato eco maggiormente
eco anche nei documenti della stessa Unione europea: l’approccio dei mercati
del lavoro transizionali e quello dell’investimento sociale.
Il primo, che in parte è
confluito nel modello di flexicurity, propone di integrare in un nuovo sistema
di assicurazione sociale sia i nuovi «rischi sociali» di un mercato del lavoro
flessibile, sia quelli derivanti da necessità del corso di vita individuale e
famigliare dei lavoratori e lavoratrici effettivi o potenziali – di tornare in
formazione, nascita e presenza di bambini piccoli, di famigliari non
autosufficienti (Schmid, 2006). Un nuovo sistema di sicurezza sociale dovrebbe
sostenere sia le transizioni dentro e fuori il mercato del lavoro
dettate/imposte dal mercato stesso, sia quelle dettate dalle esigenze
individuali e famigliari. Questo sistema aiuterebbe anche ad affrontare con più
agio quelli che i proponenti di questo approccio chiamano i «dilemmi di
genere», in realtà concepiti come solo delle donne, tipici di «carriere
lavorative compresse», caratterizzate da richieste esigenze in più ambiti di
vita. Anche se ciò non basterebbe a proteggere le donne dai costi in termini
economici e di carriera di temporanee uscite dal mercato del lavoro. Per l’approccio dell’investimento sociale le
pari opportunità di genere sono strumentali all’obiettivo di un utilizzo più
adeguato del capitale umano più che un fine in sé. Al centro dell’approccio
dell’investimento sociale, inoltre, non ci sono le donne né la parità di
genere, bensì le giovani generazioni, a partire dai bambini e le pari
opportunità tra bambini di diversa estrazione sociale. Per questo l’educazione
infantile precoce è un cruciale strumento di riduzione delle disuguaglianze
socialmente strutturate di partenza (Esping Andersen, 2002). Accanto alla
sottovalutazione del lavoro di cura, ciò che appare problematico in questo
approccio è l’esplicito riferimento alla disuguaglianza tra donne come risorsa
per contenere il costo dei servizi. La
questione della redistribuzione del lavoro di cura tra uomini e donne rimane
aperta anche nella proposta del basic income (Van Parijs e Vanderborght, 2017),
che pure ha il merito di riconoscere il valore di attività extra-mercato e la
necessità di offrire risorse per una libertà di scelta effettiva.
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