martedì 24 luglio 2018

L'inchiesta Quando in Parlamento si parlava anche la lingua delle donne


Quarant'anni fa. L’aborto è stato il mio battesimo parlamentare. In Commissione Sanità eravamo oppresse da deputati-medici maschi che cercavano di assumere il controllo del problema

Luciana Castellina, il Manifesto
24/07/2018


L’aborto è stato il mio battesimo parlamentare.
L’argomento si impose infatti dal primo giorno nella VII legislatura (quella che aveva portato lo sparuto drappello della nuova sinistra alla Camera dei Deputati, sei “onorevoli”, uno di Lotta Continua, due di Avanguardia operaia, tre del Pdup).
La precedente era infatti stata sciolta anzitempo proprio in virtù della grande mobilitazione suscitata dal movimento delle donne che aveva di fatto impedito al Pci di approvare – come aveva precedentemente accettato di fare – un arretratissimo compromesso. Adesso si ricominciava a discutere su un testo più avanzato, ma il confronto mi apparve subito dominato dalla preoccupazione di non incrinare l’ambiguo schieramento che sosteneva il governo della così detta «astensione costruttiva».
In Commissione Sanità, dove si trattava il problema, potei così scoprire quante e quali manovre relative agli equilibri istituzionali si intrecciavano con la IVG, come fu chiamato il progetto di legge sull’«Interruzione Volontaria della Gravidanza», quanto lontana quella discussione fosse dal sentire delle donne.
Intervenendo in aula, dove il progetto di legge era finalmente arrivato nel dicembre ’76 (ma ci volle un altro anno e mezzo per arrivare al voto finale) iniziai rilevando proprio questa siderale lontananza, che aveva per altro prodotto il paradosso: attivissimo negli anni precedenti, ora che si era arrivati al dunque il movimento risultava assente.
«Questa assenza, questo relativo silenzio – dissi (mi rileggo negli atti parlamentari) – non sono la conseguenza di una crisi del movimento, che anzi cresce… Il fatto è che il movimento ha preso coscienza dei limiti estremi di questa come di ogni legge, magari migliore di questa. Perché quel che aveva mosso il movimento sin dall’inizio non era solo l’obiettivo pratico dell’abrogazione delle norme del codice Rocco ma la liberazione delle donne da quel complesso di peccato, di vergogna, di reato che aveva circondato la loro sessualità. Solo chi all’aborto ha pensato negli angusti termini di un diritto civile può meravigliarsi per il fatto che quel primo passo di liberazione sia stato solo il momento iniziale di una riflessione collettiva ben più profonda, una premessa per riappropriarsi della propria sessualità negata; ed anche e soprattutto, della maternità, finalmente trasformata da processo biologico che cresce nel proprio corpo al di fuori della propria volontà, in scelta umana, e perciò libera e responsabile. Questa maternità, e non la vostra maternità deterministica, colleghi democristiani, è quanto oggi appassiona, aggroviglia, turba il movimento delle donne».
E tuttavia, rileggendo a quarant’anni di distanza gli atti di quel dibattito parlamentare, mi sorprendo a trovarvi un confronto per niente banale. (Rispetto all’attuale battibecco, spesso persino volgare, sembra appartenere ad un altro pianeta).
L’aver spostato l’attenzione, come era logico, dall’aborto al senso della maternità, al perché della procreazione, consentì di portare in parlamento l’eco della riflessione femminista (l’on.Maria Eletta Martini, la più sensibile delle deputate Dc, cita persino un convegno di Paestum!).
Per questo occorreva denunciare la pretesa di lasciare nella legge una casistica che la donna doveva rispettare per poter praticare l’aborto così come l’obbligo di sottoporsi al controllo di un medico-magistrato.
Misure certo ormai solo formali, e tali, dunque, da lasciar di fatto libera la donna di scegliere. E però proprio per questo tali da rendere anche più evidente il loro significato ideologico: riaffermare che il ruolo coatto della donna è la procreazione, sicché chi decide di sottrarvisi deve esser bollata come deviante.
In qualche modo si riuscì ad imporre al Parlamento una discussione che rese chiaro come tutta l’insistenza nel voler mantenere una serie di ostacoli puramente formali all’interruzione volontaria della gravidanza non avesse alcuna motivazione morale o religiosa, ma solo il timore che sollevava il processo di liberazione della donna.
Proprio per questo apparvero così filistei i suggerimenti dei tanti “buonsensai” laici che suggerivano di lasciar perdere ogni opposizione visto che il procedimento imposto alla donna prima di poter accedere all’aborto non le avrebbe nei fatti impedito una libera scelta.
Erano i tempi in cui fra gli slogan ironici e beffardi del movimento delle donne grande spazio aveva «tremate tremate le streghe sono tornate», e quell’arbitrario inserimento autoritario del medico da visitare prima di poter abortire ci ricordava che la medicina aveva storicamente oppresso o ignorato le donne, e che per liberarsene bisognava combattere la mistificazione, proprio dai medici alimentata, secondo cui la dipendenza delle donne sarebbe stata determinata da un dato biologico, e non, come invece è, da un fattore sociale.
(In Commissione sanità, dove il progetto di legge è stato a lungo in discussione, eravamo oppresse da una quantità di maschi-medici-deputati che cercavano di assumere il controllo del problema, come se fosse di loro esclusiva competenza).
Votammo comunque «Sì» una prima volta alla Camera, anche per evitare che finisse per prevaler l’ipotesi del Partito radicale: un referendum abrogativo della penalizzazione che lasciava però le donne senza alcuna tutela, soprattutto senza la possibilità di ricorrere al sistema sanitario nazionale per interrompere la gravidanza.
Ma all’ultimo voto, nel maggio del 1978, il progetto di legge era stato pesantemente peggiorato, per via di un emendamento Dc (passato grazie all’inattesa astensione del Pci e del Psi, per di più giustificata con il clima di tensione in cui si viveva per via del rapimento Moro), inteso a mettere sotto più pesante tutela le minorenni.
Questo era troppo e, sia pure con preoccupazione, decidemmo di dire no a tutto il progetto.
Ci battemmo tuttavia poco tempo dopo in difesa di questa 194 che pure non ci soddisfaceva quando l’ala più clericale della Dc la sottopose al referendum abrogativo.
Credo sia stata giusta l’una e l’altra scelta apparentemente contraddittorie: era giusto riaffermare i principi per cui si batteva il movimento delle donne; ma era giusto anche impedire che si perdesse quanto eravamo riuscite a strappare con anni di fatica con questa legge che sul piano pratico risultò una delle più avanzate d’Europa.
Anche il Pci, del resto, votò contro lo Statuto dei Lavoratori nel 1970, mentre oggi siamo impegnati per reintrodurre l’articolo18 e non solo. Così noi la 194 minacciata.
Quando dico che è stato giusto votare contro e però poi difendere queste leggi è perché in una democrazia sono necessarie le mediazioni, basta non approvare anche i compromessi perdenti.
Oggi la democrazia è così impoverita che non si dà più nemmeno dialogo.

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