Quarant'anni
fa. L’aborto è stato il mio battesimo parlamentare. In Commissione Sanità
eravamo oppresse da deputati-medici maschi che cercavano di assumere il
controllo del problema
Luciana Castellina, il Manifesto
24/07/2018
L’aborto è stato il mio battesimo
parlamentare.
L’argomento si impose infatti dal
primo giorno nella VII legislatura (quella che aveva portato lo sparuto
drappello della nuova sinistra alla Camera dei Deputati, sei “onorevoli”, uno
di Lotta Continua, due di Avanguardia operaia, tre del Pdup).
La precedente era infatti stata
sciolta anzitempo proprio in virtù della grande mobilitazione suscitata dal
movimento delle donne che aveva di fatto impedito al Pci di approvare – come
aveva precedentemente accettato di fare – un arretratissimo compromesso. Adesso
si ricominciava a discutere su un testo più avanzato, ma il confronto mi
apparve subito dominato dalla preoccupazione di non incrinare l’ambiguo
schieramento che sosteneva il governo della così detta «astensione
costruttiva».
In Commissione Sanità, dove si trattava
il problema, potei così scoprire quante e quali manovre relative agli equilibri
istituzionali si intrecciavano con la IVG, come fu chiamato il progetto di
legge sull’«Interruzione Volontaria della Gravidanza», quanto lontana quella
discussione fosse dal sentire delle donne.
Intervenendo in aula, dove il
progetto di legge era finalmente arrivato nel dicembre ’76 (ma ci volle un
altro anno e mezzo per arrivare al voto finale) iniziai rilevando proprio
questa siderale lontananza, che aveva per altro prodotto il paradosso:
attivissimo negli anni precedenti, ora che si era arrivati al dunque il
movimento risultava assente.
«Questa assenza, questo relativo
silenzio – dissi (mi rileggo negli atti parlamentari) – non sono la conseguenza
di una crisi del movimento, che anzi cresce… Il fatto è che il movimento ha
preso coscienza dei limiti estremi di questa come di ogni legge, magari
migliore di questa. Perché quel che aveva mosso il movimento sin dall’inizio
non era solo l’obiettivo pratico dell’abrogazione delle norme del codice Rocco
ma la liberazione delle donne da quel complesso di peccato, di vergogna, di
reato che aveva circondato la loro sessualità. Solo chi all’aborto ha pensato
negli angusti termini di un diritto civile può meravigliarsi per il fatto che
quel primo passo di liberazione sia stato solo il momento iniziale di una
riflessione collettiva ben più profonda, una premessa per riappropriarsi della
propria sessualità negata; ed anche e soprattutto, della maternità, finalmente
trasformata da processo biologico che cresce nel proprio corpo al di fuori
della propria volontà, in scelta umana, e perciò libera e responsabile. Questa
maternità, e non la vostra maternità deterministica, colleghi democristiani, è
quanto oggi appassiona, aggroviglia, turba il movimento delle donne».
E tuttavia, rileggendo a
quarant’anni di distanza gli atti di quel dibattito parlamentare, mi sorprendo
a trovarvi un confronto per niente banale. (Rispetto all’attuale battibecco,
spesso persino volgare, sembra appartenere ad un altro pianeta).
L’aver spostato l’attenzione,
come era logico, dall’aborto al senso della maternità, al perché della
procreazione, consentì di portare in parlamento l’eco della riflessione
femminista (l’on.Maria Eletta Martini, la più sensibile delle deputate Dc, cita
persino un convegno di Paestum!).
Per questo occorreva denunciare
la pretesa di lasciare nella legge una casistica che la donna doveva rispettare
per poter praticare l’aborto così come l’obbligo di sottoporsi al controllo di
un medico-magistrato.
Misure certo ormai solo formali,
e tali, dunque, da lasciar di fatto libera la donna di scegliere. E però
proprio per questo tali da rendere anche più evidente il loro significato
ideologico: riaffermare che il ruolo coatto della donna è la procreazione,
sicché chi decide di sottrarvisi deve esser bollata come deviante.
In qualche modo si riuscì ad
imporre al Parlamento una discussione che rese chiaro come tutta l’insistenza
nel voler mantenere una serie di ostacoli puramente formali all’interruzione volontaria
della gravidanza non avesse alcuna motivazione morale o religiosa, ma solo il
timore che sollevava il processo di liberazione della donna.
Proprio per questo apparvero così
filistei i suggerimenti dei tanti “buonsensai” laici che suggerivano di lasciar
perdere ogni opposizione visto che il procedimento imposto alla donna prima di
poter accedere all’aborto non le avrebbe nei fatti impedito una libera scelta.
Erano i tempi in cui fra gli
slogan ironici e beffardi del movimento delle donne grande spazio aveva
«tremate tremate le streghe sono tornate», e quell’arbitrario inserimento
autoritario del medico da visitare prima di poter abortire ci ricordava che la
medicina aveva storicamente oppresso o ignorato le donne, e che per liberarsene
bisognava combattere la mistificazione, proprio dai medici alimentata, secondo
cui la dipendenza delle donne sarebbe stata determinata da un dato biologico, e
non, come invece è, da un fattore sociale.
(In Commissione sanità, dove il
progetto di legge è stato a lungo in discussione, eravamo oppresse da una
quantità di maschi-medici-deputati che cercavano di assumere il controllo del
problema, come se fosse di loro esclusiva competenza).
Votammo comunque «Sì» una prima
volta alla Camera, anche per evitare che finisse per prevaler l’ipotesi del
Partito radicale: un referendum abrogativo della penalizzazione che lasciava
però le donne senza alcuna tutela, soprattutto senza la possibilità di
ricorrere al sistema sanitario nazionale per interrompere la gravidanza.
Ma all’ultimo voto, nel maggio
del 1978, il progetto di legge era stato pesantemente peggiorato, per via di un
emendamento Dc (passato grazie all’inattesa astensione del Pci e del Psi, per
di più giustificata con il clima di tensione in cui si viveva per via del rapimento
Moro), inteso a mettere sotto più pesante tutela le minorenni.
Questo era troppo e, sia pure con
preoccupazione, decidemmo di dire no a tutto il progetto.
Ci battemmo tuttavia poco tempo
dopo in difesa di questa 194 che pure non ci soddisfaceva quando l’ala più
clericale della Dc la sottopose al referendum abrogativo.
Credo sia stata giusta l’una e
l’altra scelta apparentemente contraddittorie: era giusto riaffermare i
principi per cui si batteva il movimento delle donne; ma era giusto anche
impedire che si perdesse quanto eravamo riuscite a strappare con anni di fatica
con questa legge che sul piano pratico risultò una delle più avanzate d’Europa.
Anche il Pci, del resto, votò
contro lo Statuto dei Lavoratori nel 1970, mentre oggi siamo impegnati per
reintrodurre l’articolo18 e non solo. Così noi la 194 minacciata.
Quando dico che è stato giusto
votare contro e però poi difendere queste leggi è perché in una democrazia sono
necessarie le mediazioni, basta non approvare anche i compromessi perdenti.
Oggi la democrazia è così
impoverita che non si dà più nemmeno dialogo.
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