martedì 24 luglio 2018

L'inchiesta Dall’archivio del manifesto, cronaca di una vittoria a metà

24/07/2018


16 marzo 1978
Il rettore dell’università di Roma nega l’Aula Magna per il Convegno internazionale sulla violenza
Roma. Il 27 marzo si svolgerà il Convegno internazionale sulla violenza contro le donne promosso dal mensile femminista Effe e dall’Mld (Movimento di liberazione della donna). È questo il secondo convegno internazionale che si tiene sull’argomento e questa volta il programma prevede due giorni di commissioni alla Casa della donna in via del Governo Vecchio 39, e una terza e conclusiva giornata all’Aula Magna dell’università.
Solo che questo programma non è condiviso dal rettore Ruberti, che già da parecchi giorni gioca a nascondersi dietro le sue segretarie pur di non concedere l’autorizzazione per l’utilizzo dell’Aula Magna.
Nelle trattative tra comitato promotore del convegno e rettore si sono offerte, finora senza alcun risultato, le lavoratrici dell’università. Le giustificazioni che Ruberti oppone allo svolgimento del convegno sono apparentemente di ordine amministrativo: questo convegno non riguarda l’università non ho personale a disposizione e quindi fatevelo altrove.
Diversamente, però, sembra che questo ragionamento non valga per il sindacato dei medici che, in previsione del loro sciopero generale, hanno ottenuto proprio l’Aula Magna. Dopo estenuanti attese di anticamera ieri una delegazione di donne è riuscita ad essere ricevuta dalla segreteria del rettore che ha comunicato come unica possibilità quella di far assumere tutta la responsabilità di eventuali danni o “incidenti” ad una sola donna del collettivo delle lavoratrici.
Oggi ci sarà un nuovo incontro.
Giovedì 6 aprile 1978
Con le relazioni di maggioranza e di minoranza, è iniziato il dibattito alla camera
Roma. Il dibattito alla camera sulla legge per l’aborto è iniziato ieri pomeriggio.
A parte alcune eccezioni di scarso rilievo presentate dal radicale Mellini, la seduta è stata dedicata alla presentazione delle relazioni di maggioranza e minoranza. Del Pennino e Giovanni Berlinguer (relatori di maggioranza) hanno motivato brevemente la ripresentazione del testo sull’interruzione di gravidanza, ribadendo che si tratta di un testo migliorato anche rispetto alle richieste della Dc e che è ormai urgente arrivare rapidamente alla conclusione di questa tormentata vicenda politico-legislativa.
I relatori di minoranza, i dc Gargani e Orsini, hanno quindi svolto le note argomentazioni. Ad ogni modo il dibattito non dovrebbe occupare più di pochi giorni. Lo schieramento laico e abortista, dati i rapporti di forza, sembra deciso a votare al più presto la legge.
Per i compromessi, a quanto si dice, si aspetta il turno della discussione al senato.
Venerdì 7 aprile 1978
Quali (e quante) le posizioni nel movimento
di Norma Rangeri
La questione dell’aborto, da quando è uscita dall’ambito della riflessione del movimento ed è diventata oggetto di discussione fra le forze politiche, da quando cioè il problema della procreazione è diventato fatto da regolamentare giuridicamente, ha prodotto nel movimento delle donne divisioni e contrapposizioni.
E in questi tre anni (da quando cioè nell’aprile del ’75 la commissione giustizia e sanità si occupò del problema) le differenze interne al movimento delle donne non sono diminuite e continuano a travagliarlo. Riassumerle schematicamente è assai difficile dal momento che sono strettamente legate al tipo di elaborazione e soprattutto di esperienze pratiche che in questi anni il movimento ha fatto. A questo va aggiunto che la battaglia sull’aborto, coinvolgendo schieramenti politici e equilibri parlamentari, ha messo a dura prova l’autonomia del movimento. Alle differenze fra i vari gruppi organizzati /Udi, Mld) vanno perciò aggiunte quelle di ogni collettivo (con la sua storia e la sua pratica specifica) rispetto agli altri. Insomma una mappa delle posizioni del movimento delle donne sull’aborto risulterà in ogni caso parziale. Proviamo a tracciarla.
L’orientamento più chiaro è quello dell’Udi. Questa organizzazione, infatti, da sempre abituata a gestire un rapporto con le istituzioni, ha avuto fin dall’inizio un atteggiamento di accettazione critica nei confronti della legge.
Le donne dell’Udi hanno condotto una battaglia anche nei confronti del Partito comunista ogni volta che questo prospettava una disponibilità a rimetterlo in discussione per andare incontro alle richieste democristiane. A questo proposito l’Udi ha detto chiaramente che qualsiasi peggioramento sull’attuale legge sull’aborto sarà respinto non escludendo, ma anzi minacciando, un ricorso al referendum.
Altrettanto chiara, e in certa misura speculare, è la posizione dell’Mld, che in pratica fa proprie le parole d’ordine del partito radicale: referendum, depenalizzazione, nessuna legge, nessun rapporto con le istituzioni ad eccezione di quello del referendum. Al di là di chi ha lanciato queste parole d’ordine, dire «nessuna legge sul corpo delle donne» registra consensi all’interno del movimento. E non solo perché elude il rapporto con le istituzioni politiche: dietro c’è per molte l’idea che le esperienze di autogestione dell’aborto (e della salute) non possono comunicarsi in nessun modo alle strutture pubbliche. L’unica pratica riconosciuta e generalizzabile sarebbe insomma l’aborto nei gruppi di self-help, che in questi anni hanno permesso a molte donne di abortire. Ma questa scelta non tiene conto delle lacerazioni delle crisi e dell’isolamento di cui proprio i nuclei di autogestione dell’aborto in questi anni hanno sofferto, ridotti, spesso, a pura e massacrante erogazione di un servizio.
Sono però molti i collettivi – compresi quelli che sulla pratica dell’aborto sono nati – che oggi propongono, rispetto al problema della legge, un’altra strada, quella di non dare battaglia per fronti contrapposti, su una legge o sul referendum, ma sui contenuti dell’autodeterminazione, della gratuità e dell’assistenza. Partendo dal presupposto che in ogni caso una legge non può riflettere la ricchezza e la drammaticità di un problema che tocca la donna nelle sfere più profonde della sua esistenza, si afferma che l’unica via per il movimento è quella di condurre una battaglia perché alcuni punti irrinunciabili siano tenuti presenti da chi ha il compito di registrarli giuridicamente.
Non a caso a sostenere questa posizione, almeno a Roma, è il Coordinamento dei consultori, che raggruppa quelle donne che da tempo sono impegnate in una lotta tesa a far entrare nei consultori pubblici i contenuti e le esperienze di autogestione dell’aborto e della salute, fatte nei collettivi. Un tentativo, cioè, di avviare un rapporto con le istituzioni (questione a lungo dibattuta nel movimento) più vicine alle donne in particolare con quelle deputate a gestire il problema della salute (ospedali, consultori e classe medica). Indubbiamente questa è la posizione più difficile, soggetta a tutti gli attacchi. Ma è l’unica che finora ha permesso di condurre unitariamente la discussione e le passate mobilitazioni sull’aborto. Oggi questo processo incontra ostacoli ancor più grandi che in passato, ma gran parte del movimento è decisa a continuarlo.
Sabato 15 aprile 1978
Pci e Dc si scambiano voti e astensioni e concordano il massacro della legge. La ritirata radicale
di Mauro Paissan
La legge sull’aborto è passata ieri sera alla camera con 308 voti favorevoli contro 276 contrari. È passata coi voti dei laici governativi (Pci, Psi, Psdi, Pri, Pli) e di un drappello di democristiani. Hanno votato contro Pdup-Dp, radicali, fascisti e il grosso dei democristiani.
Il testo votato è gravemente peggiore di quello originario. Il Pci ha imposto all’assemblea alcune modifiche che limitano di molto la libertà e l’autodeterminazione della donna, rendendo estremamente difficile, se non impossibile, l’intervento abortivo per le minorenni. I comunisti hanno perseguito con rudezza la loro strategia: accordo a tutti i costi con la Dc, nonostante le proteste dell’Udi, nonostante le resistenze interne, nonostante le centinaia di prese di posizione di questi giorni, nonostante l’opposizione dei socialisti e di altri esponenti laici. La Dc ha accolto le offerte comuniste, ha contribuito con l’astensione al passaggio dei punti-caldi e è giunta fino a far passare con i suoi voti determinanti la possibilità di aborto per le donne inferiori ai 18 anni. I democristiani sanno che al Senato questo testo già peggiorato non passerà incolume, che potrà costringere i laici ad altre concessioni, e ha preferito correre il rischio di vedersi accusare da certa parte del mondo cattolico di aver permesso l’introduzione, pur gravemente limitata, dell’aborto per le ragazze e di aver dato una mano nel voto finale.
La discussione sull’articolo 12 della legge, quello appunto che stabiliva una procedura particolare per le ragazze inferiori ai 18 anni, ha avuto momenti di forte tensione. C’era un emendamento democristiano che pretendeva l’innalzamento del limite d’età ai 18 anni. E si sapeva che il Pci era disponibile a questa nuova concessione, dopo quella fatta giovedì sera sulla norma che prevede la presenza del padre del nascituro nella decisione della donna.
La discussione su questo punto inizia a mezzogiorno. Gli articoli precedenti il 12 erano passati in pochissimo tempo, perché i radicali avevano abbandonato la loro controproducente tattica ostruzionistica. Mentre per l’articolo 5 erano occorse 12 ore e per l’articolo 6 più di 4 ore, in meno di un quarto d’ora sono stati votati gli articoli 9, 10 e 11.
Il Pr, dopo aver costretto i deputati a bivaccare a Montecitorio per tutta la notte (tra partite di scacchi, cori della montagna e film delle tv private), a un certo punto decidevano di permettere una conclusione veloce dell’intera legge.
Il rapido voltafaccia radicale era stato concordato da Pannella con Ingrao. Il presidente della camera ha promesso ai radicali di posticipare nel calendario dei lavori parlamentari la discussione sulla nuova legge per la Commissione inquirente, rendendo possibile in giugno il referendum su questa materia. E così è stato interrotto l’ostruzionismo.
Può cominciare la discussione sulla proposta democristiana di impedire l’aborto libero alle ragazze. Gli indipendenti di sinistra dicono che voteranno contro; l’on. Mannuzzu afferma che «non si può condannare una ragazza a essere madre». I liberali annunciano l’astensione, socialdemocratici e repubblicani lasciano libertà di voto ai propri deputati.
La compagna Castellina interviene con tono sconsolato.
Si rende conto che la legge alla quale aveva non poco contribuito è ormai massacrata. «Il compromesso che si sta delineando è il colpo decisivo all’autodeterminazione della donna. Ciò che state facendo non farà altro che approfondire la rottura fra le istituzioni e le donne e i giovani, perché state qui condannando le donne giovani». Ha poi preso la parola Adriana Lodi, a nome del gruppo del Pci, al posto di Adriana Seroni, che si era rifiutata di parlare.
La Lodi ha parlato per mezz’ora, con voce emozionata, forse non del tutto convinta. Poco convincente, comunque, è la motivazione che porta al voto di astensione. Rivendica al Pci il merito di aver posto il limite d’età ai 16 anni, di aver difeso la libertà della donna giovane, di aver mantenuto nei mesi scorsi questo principio. E poi rivendica al suo partito anche il merito di aver tenuto presenti sempre le istanze delle grandi masse, cattolici compresi, di aver ricercato le grandi intese sui principali passi della legge. Ma subito dopo, ancora, dice che i motivi che avevano portato il Pci a tener ferma questa libertà delle ragazze non sono caduti. Però, aggiunge subito, è cambiata la situazione generale, c’è stato il 16 marzo, c’è Moro, e allora dobbiamo accettare «questa sconfitta» (la Lodi ha usato questa espressione).
È l’unico modo per far approvare la legge.
Non appena la Lodi ha finito di richiamarsi ai valori dei cattolici, si alza dai banchi comunisti l’on. Giancarla Codrignani, cattolica eletta nelle liste del Pci e membro del gruppo comunista (non della sinistra indipendente), che annuncia il suo voto contrario. «Bisogna che la legge elimini l’aborto clandestino, e la minorenne rappresenta l’area più rilevante della clandestinità. L’autodeterminazione della donna è essenziale, anche se fa paura a molti, perfino in questa parte dello schieramento politico».
Alla fine anche i socialisti dicono che voteranno contro. A questo punto è chiaro che l’emendamento dc passerà solo con l’astensione comunista, e così è: 245 sì, 69 no, 217 astenuti.
Ma non è finita. Approvato l’emendamento, occorre approvare l’intero articolo, che fissa tutte le complicate procedure per l’aborto della minorenne. I socialisti dichiarano che voteranno contro, perché l’articolo è stato gravemente manomesso.
Contrari anche Pdup-Dp, radicali, missini (questi ultimi perché permissivo). I soli voti di Pci-Psdi-Pri-Pli non bastano. Interviene allora la Dc che dichiara di astenersi, permettendo il passaggio dell’articolo e con esso della intricata possibilità d’aborto per la minorenne.
La vicenda è completa dal punto di vista politico, Pci e Dc ne escono entrambi con le mani sporche. Si può procedere al voto finale.
Domenica 16 aprile 1978
Piccola politica su un grande problema
di Rossana Rossanda
Qual è la cosa più grave avvenuta in questi giorni a Montecitorio? Non solo che ne è uscita una legge sull’aborto paurosa, codina, al di sotto del testo precedente e molte leghe in qua dalle necessità sociali e dalla maturazione e consapevolezza del movimento delle donne.
Le parole assai secche con le quali i compagni Magri e Castellina hanno stigmatizzato il pasticcio tanto più contano, in quanto essi – come molti di noi – avevano creduto e lavorato a una buona legge.
Noi non siamo mai stati dell’avviso di quella parte del movimento femminista – poi disinvoltamente giocata dai radicali – che non voleva nessuna legge, ma la pura depenalizzazione dell’aborto, perché una comunità complessa e politicamente articolata deve darsi una norma, transitoria fin che si vuole, là dove – come in questo caso – si tratta non solo di restaurare un diritto, abrogandone la repressione, ma creare le condizioni per esercitarlo.
Sotto questo profilo, anzi, sembra a me, sarebbe un errore da parte delle donne non considerare un valore e un risultato della loro lotta che il principio della libertà d’aborto, sia pur così circoscritto e accompagnato da riserve, faccia ormai parte della legislazione italiana. Sarebbe stato immaginabile dieci anni fa.
Quel che è grave è che fra il modo in cui la si è varata e quel che avrebbe potuto e dovuto essere, lo spazio è grande. Il suo risvolto sarà, quindi, frustrazione, insoddisfazione giusta, sfiducia nel movimento femminista e delle donne in genere verso chi legifera su di loro.
Un ideologismo con cui il femminismo è nato, andava generosamente battuto dalle sinistre: il ripiegamento su di sé, la condanna della “politica”, il rifiuto dell’assunzione di un obiettivo parziale, come non può non essere una legge, incapace ovviamente di risolvere quel groviglio storico, culturale, di costume che sta dietro al rapporto fra donna, sessualità, maternità, aborto.
Era assai importante che, puntando sulla legge migliore possibile ed evidenziandone, come Luciana Castellina ha fatto in questi anni, con limpidezza valori e limiti, si annullassero le diffidenze pregiudiziali del movimento, che nell’incapacità o non volontà di misurarsi con le istituzioni non cresce, ma si impoverisce e divide. Esso, infatti, avrebbe sperimentato la propria forza, capito che su tutti i terreni bisogna battersi, e che nulla avrebbe perduto della sua autonomia imponendosi come interlocutore politico.
Analogamente, le sinistre e il fronte “laico” avrebbero provato anch’esse il loro limite – che è l’impossibilità di assorbire, e portare a mediazione politica tutti i contenuti di un movimento, ed è bene che sia così – ma avrebbero stabilito con esso un dialogo, un reciproco riconoscimento, un’articolazione autentica.
Questo non è avvenuto, e la lacerazione che la legge stabilisce fra norma e donne, e poi donne e donne (nella rabbiosa volontà di vendetta sulle più giovani hanno giocato motivazioni profonde, prepolitiche, orribili) si è ribaltata la lacerazione fra movimenti femminili e partiti. Quella fra il Pci e Unione donne italiane, riflessa anche in casi di coscienza acuti di alcune deputate, è la più vistosa.
Ma è così che si lacera l’immagine della democrazia e dello Stato, vorremmo dire, senza alzar la voce – che ne abbiamo poca – e con preoccupazione vera, ai compagni del Pci. In questo oscuro mese ai lavoratori è stata domandata fiducia nei confronti dello Stato , tregua a ogni critica alle istituzioni.
Ebbene, c’era tuttavia da ripulire la faccia di questo Stato, perché potesse essere consegnata la difesa nelle mani dei lavoratori. Ma anche ammesso che una ripulitura del passato non sia semplice, c’era un’occasione importante per mostrare adesso che, almeno parzialmente, almeno su un punto come quello dell’aborto, grave e importante, le istituzioni si muovevano bene. Bene vuol dire pensando a chi della legge è oggetto, in questo caso, le donne.
Bene vuol dire decidendo secondo ragione e fedeltà a un principio. Bene, voleva dire stavolta senza anteporre le donne i principi alle compatibilità democristiane, e dell’accordo con i democristiani: almeno per una volta, su una battaglia che non potevano vincere, sulla quale il ricatto non era possibile. Perché non si è fatto?
È passato un mese dal rapimento di Moro, e sulla credibilità del compromesso istituzionale non piovono solo le pallottole e i messaggi delle Brigate rosse, ma le sassate fatte dei piccoli intrighi, compromessi, viltà, politicantismi. Mai lo stato democratico avrebbe dovuto essere più limpido, il parlamento più coerente. Non capirlo significa scivolare ogni giorno su un terreno più incerto, muoversi – per la sinistra – su una lastra di ghiaccio per trovarsi sempre più squilibrata e fragile. Lunedì si aprirà il Comitato centrale comunista. Si domandi se lo stato si rafforza, quando la forza contrattuale della sinistra si indebolisce. C’è un momento, ora, in cui davvero è nelle mani del movimento operaio italiano il destino della democrazia. Lo difenderà tacendo, arrendevole, spostandosi sul minimo denominatore comune delle forze in campo, o lanciando un ponte al paese, alle masse, alle donne, alle fabbriche, ai giovani, di fronte alle settimane oscure che verranno?
Giovedì 8 giugno 1978
A Brindisi il primo aborto, mentre negli ospedali aumentano di ora in ora le richieste
di Norma Rangeri
A due giorni dall’applicazione della legge sull’aborto, in tutte le città le strutture ospedaliere sono sotto l’occhio della stampa e della pubblica opinione. La prima interruzione di gravidanza è avvenuta a Brindisi, martedì, nell’ospedale civile Umberto primo.
Ad eseguirlo è stato un assistente del reparto ginecologico, dopo che il primario Serinelli, si era rifiutato perché obiettore. A Firenze invece, i primi dieci aborti saranno fatti oggi nella clinica ostetrico-ginecologica dell’università.
Ma sono già 55 le donne che si sono presentate all’accettazione con regolare certificato medico, di cui 35 con “urgenza”. Per l’obiezione i medici avranno tempo fino al 6 luglio e solo fra un mese, quindi, si avrà un quadro completo della situazione.
Intanto al Policlinico di Roma (la capitale e il Lazio si prevede che registreranno una delle più alte percentuali di obiettori) sembra aprirsi qualche spiraglio: sono una ventina le persone (medici e personale paramedico) che in questo ospedale lavoreranno 24 ore su 24 per l’aborto.
Comunque, al Policlinico non si potranno fare più di cinque aborti al giorno.
Venerdì 16 giugno 1978
Medici e preti per l’aborto clandestino. «Con questa legge aumenteranno le reclute della prostituzione». Così scrive l’«Osservatore della Domenica»
«Una cosa è certa: con questa legge l’immoralità giovanile dilagherà e si farà sempre più precoce; rotto il freno al dramma di una iniziale gravidanza… aumenteranno parallelamente le reclute della prostituzione». Così scrive Gastone Lambertini, sull’Osservatore della Domenica, settimanale vaticano, in una lunga nota di commento alla legge riprendendo fedelmente il filo del discorso del capo della chiesa.
Paolo VI, infatti, pochi giorni fa in un discorso ufficiale, mise in guardia i fedeli dalla «passione che sostituisce l’amore».
L’articolo dopo una lunga disquisizione sulla «giovane traviata» chiede che «non si allarghi ancor più, e a spese dello stato, la macchia spaventosa del sangue di Abele». Insomma gli aborti devono possibilmente rimanere clandestini.
Martedì 4 luglio 1978
Stop Dc all’aborto nelle cliniche  Al Policlinico di Roma, nonostante l’intervento della polizia, le donne continuano l’occupazione. Intanto la lista di attesa è arrivata a quota 300
Nonostante il brutale intervento delle forze di polizia che sabato pomeriggio hanno fatto irruzione nel reparto della II clinica ostetrica, riattivato dalle donne, penetrando fin nella sala parto dove erano in corso gli interventi, gli aborti al Policlinico si continuano a fare.
Ieri mattina nel corso di un’assemblea le donne hanno deciso di recarsi in tribunale da Paolino Dell’Anno, il magistrato che si sta occupando della vicenda. E oggi la protesta si sposterà davanti gli uffici amministrativi del Pio istituto da cui il Policlinico dipende, insieme ad altri ospedali.
La decisione di sgomberare il reparto, reso funzionale dal lavoro volontario di donne e infermiere, è avvenuta dopo una lunga contrattazione con il vice questore «che – scrivono le donne in un comunicato – ci ha prima intimato di sgomberare, poi di garantire che una di noi rimanesse a coprire i turni di lavoro fino a quando la direzione sanitaria si fosse decisa a mandare personale». Nel comunicato, inoltre, si denuncia «il comportamento vergognoso e maschilista della polizia» che ha causato un forte malore a due donne.
Ieri mattina, intanto, altre dieci donne, che si aggiungono alla lunghissima lista di attesa (circa 300 richieste), si sono presentate con il certificato e sei, già in lista, sono state ricoverate. Alla fine dell’assemblea si è decisa anche una manifestazione per il 6 luglio davanti alla regione, dove contemporaneamente si svolgerà la riunione dei primari che dovranno consegnare le liste dei medici obiettori.
Giovedì 6 luglio 1978
Diserzione di massa dall’aborto. 16 medici del Forlanini di Roma chiedono di essere impiegati nei reparti dove si pratica l’aborto Roma
Un gruppo di sedici medici dell’ospedale romano Forlanini, in una lettera presentata alla direzione sanitaria, al consiglio dei delegati e alle forze politiche e femminili chiedono ufficialmente di poter «essere addetti per un certo numero di ore settimanali al servizio di ostetricia e ginecologia, in attesa che se ne potenzi l’organico e le strutture, così da poter sopperire alle sempre più numerose e pressanti richieste». Una richiesta precisa di spostamenti che va nella stessa direzione della proposta avanzata in sede regionale dal Pdup e dal Psi di dare il via, per garantire l’aborto, alla «doppia mobilità». «I sottoscritti medici e chirurghi – continua la lettera – di questo ospedale hanno considerato la grave situazione che si è venuta a creare in tutti i nosocomi romani… E in seguito alle numerose obiezioni, spesso non maturate da reali problemi di coscienza, ma frutto della campagna scatenata dalla reazione del clero… Chiedono di stabilire dei turni presso i poliambulatori, coperti esclusivamente da medici non obiettori». Attualmente invece in molti consultori i medici sono obiettori, proprio nelle strutture che dovrebbero garantire, fra le altre, l’applicazione della legge.
Martedì 3 ottobre 1978
Un trampolino per gli antiabortisti. Ieri a Firenze prima udienza del processo contro la «clinica degli aborti». Il Pubblico ministero, Casini, è un noto esponente del «Movimento per la vita»
Firenze (n.r.)
Con l’aula del tribunale affollata da militanti del partito radicale e da molte femministe è iniziato ieri a Firenze il processone contro 67 persone, fra cui Gianfranco Spadaccia, i ginecologi Conciani e Cammelli, i dirigenti del Cisa (centro italiano sterilizzazione e aborto) e 49 donne, i primi accusati di associazione per delinquere, di aborto continuato pluriaggravato, e le donne di essere ricorse all’aborto. I fatti contestati agli imputati risalgono al gennaio ’75, quando la polizia, su denuncia del settimanale Candido e del quotidiano fascista Il Secolo d’Italia, fece irruzione nella clinica S. Croce dove il dottor Conciani eseguiva gli aborti.
Qualche giorno fa, i deputati radicali che allora rivendicarono la paternità degli aborti fatti dal Cisa a Firenze, in una conferenza stampa avevano annunciato che al processo avrebbero chiesto il rinvio del dibattimento al 5 dicembre giorno in cui si sarebbero dimessi dalle cariche parlamentari, tornando così cittadini perseguibili.
Il processo è dunque iniziato con il ritiro della corte in aula di consiglio per decidere se accettare la richiesta di rinvio. Dopo un’ora e 45 minuti di discussione la corte ha respinto in rinvio. A questo punto Mauro Mellini, uno degli avvocati del collegio di difesa, ha contestato che si potesse procedere contro gli altri imputati e non contro i deputati radicali che allora furono definiti «organizzatori» degli aborti fatti dal Cisa. E Emma Bonino ha annunciato che a nome dei deputati radicali avrebbe inviato alla camera un telegramma di immediate dimissioni. Ma il pubblico ministero, Casini, che è anche esponente del «Movimento per la vita», ha Subito risposto chiarendo il significato ultimo di questo processo. Il magistrato ha infatti detto che nelle prossime udienze solleverà eccezioni di legittimità costituzionale su alcuni punti dell’attuale legge sull’aborto.
La prima puntata del “processone” è così continuata di eccezione in eccezione. Bianca Guidetti Serra e Tina Lagostena Bassi, anch’esse del collegio di difesa, hanno contestato che proprio del collegio di difesa potessero far parte due avvocati, uno noto difensore di fascisti e un altro anch’egli noto esponente del «Movimento per la vita». La presenza di questi due noti antiabortisti in veste di difensori è addirittura grottesca: furono designati d’ufficio dal Pm, Casini, all’epoca dei fatti.
La prima udienza si è conclusa ieri nel tardo pomeriggio. Un’inizio burrascoso che è servito a chiarire ulteriormente le reali ragioni di questo processo: farne un pulpito da cui lanciare la prima consistente offensiva contro l’attuale legge sull’aborto.
Venerdì 6 ottobre 1978
Al processo di Firenze radicali e pubblica accusa sostengono che la legge è illegittima. Il tribunale decide di rinviarla alla Corte costituzionale.
Firenze (n. r.)
La legge 194 sull’interruzione di gravidanza, approvata dal Parlamento il 22 maggio, è stata rinviata alla Corte costituzionale, accompagnata da una eccezione di incostituzionalità sollevata dal tribunale di Firenze. Ieri, dopo otto ore e mezzo di camera di consiglio, il presidente del tribunale, Cassano, assumendo le richieste fatte dal pubblico ministero Casini, ha letto le 19 cartelle nelle quali si enumeravano tutti gli articoli ritenuti contrari alle norme costituzionali.
Così, il processo di Firenze (contro la clinica del dottor Conciani, che nel ’75, insieme al Cisa e ad alcuni esponenti radicali, fu accusato di associazione per delinquere e aborto continuato pluriaggravato) ha inferto il primo serio colpo alla legge sull’aborto.
Quello che doveva trasformarsi in un processo contro chi, oggi in Italia, non applica una legge dello stato, si è trasformato in un processo alla legge. La pubblica accusa, rappresentata dal magistrato Casini, esponente del «Movimento per la vita», fin dalla prima udienza aveva esposto la sua linea: sollevare eccezioni di incostituzionalità, bloccare il processo.
Il collegio di difesa (composto da avvocati radicali, fra i quali Mauro Mellini e Franco De Cataldo, e dalle avvocatesse Bianca Guidetti Serra e Tina Lagostena Bassi, vicine al movimento delle donne) si è subito diviso: i radicali volevano farne un’occasione di battaglia politica contro la legge sull’aborto; le due avvocatesse, invece, lo ritenevano un momento importante di battaglia per la sua applicazione. Inutilmente si è tentato di trovare un accordo.
E così, nell’aula del tribunale fiorentino, Mauro Mellini, da sponde opposte, si è unito alle tesi sostenute dal pubblico ministero. Dopo le prime due udienze il processo è stato sospeso, e ieri, dopo un’intera giornata di camera di consiglio, il tribunale ha deciso: la legge sull’aborto deve tornare all’esame della Corte costituzionale.
Questa prima sentenza accetta in pieno le tesi sostenute dal «Movimento per la vita». Nelle 19 cartelle lette in aula si sostiene che il feto, già nelle prime otto settimane di gravidanza, è un essere umano, e quindi va tutelato dalla Costituzione. Le eccezioni in particolare riguardano gli articoli 4, 5, 6, 8 e 22.
I radicali si sono dichiarati soddisfatti della decisione, mentre il Cisa (centro informazione sterilizzazione e aborto) nella mattinata di ieri ha emesso un comunicato che si discostava dalla linea di condotta tenuta dai radicali; sulla sentenza di rinvio, invece, non ha preso posizione.

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