24/07/2018
16 marzo 1978
Il
rettore dell’università di Roma nega l’Aula Magna per il Convegno
internazionale sulla violenza
Roma. Il 27 marzo si svolgerà il
Convegno internazionale sulla violenza contro le donne promosso dal mensile
femminista Effe e dall’Mld (Movimento di liberazione della donna). È questo il
secondo convegno internazionale che si tiene sull’argomento e questa volta il
programma prevede due giorni di commissioni alla Casa della donna in via del
Governo Vecchio 39, e una terza e conclusiva giornata all’Aula Magna
dell’università.
Solo che questo programma non è
condiviso dal rettore Ruberti, che già da parecchi giorni gioca a nascondersi
dietro le sue segretarie pur di non concedere l’autorizzazione per l’utilizzo
dell’Aula Magna.
Nelle trattative tra comitato
promotore del convegno e rettore si sono offerte, finora senza alcun risultato,
le lavoratrici dell’università. Le giustificazioni che Ruberti oppone allo
svolgimento del convegno sono apparentemente di ordine amministrativo: questo
convegno non riguarda l’università non ho personale a disposizione e quindi
fatevelo altrove.
Diversamente, però, sembra che
questo ragionamento non valga per il sindacato dei medici che, in previsione
del loro sciopero generale, hanno ottenuto proprio l’Aula Magna. Dopo
estenuanti attese di anticamera ieri una delegazione di donne è riuscita ad
essere ricevuta dalla segreteria del rettore che ha comunicato come unica
possibilità quella di far assumere tutta la responsabilità di eventuali danni o
“incidenti” ad una sola donna del collettivo delle lavoratrici.
Oggi ci sarà un nuovo incontro.
Giovedì 6 aprile 1978
Con le relazioni di maggioranza e
di minoranza, è iniziato il dibattito alla camera
Roma. Il dibattito alla camera
sulla legge per l’aborto è iniziato ieri pomeriggio.
A parte alcune eccezioni di
scarso rilievo presentate dal radicale Mellini, la seduta è stata dedicata alla
presentazione delle relazioni di maggioranza e minoranza. Del Pennino e
Giovanni Berlinguer (relatori di maggioranza) hanno motivato brevemente la
ripresentazione del testo sull’interruzione di gravidanza, ribadendo che si
tratta di un testo migliorato anche rispetto alle richieste della Dc e che è
ormai urgente arrivare rapidamente alla conclusione di questa tormentata
vicenda politico-legislativa.
I relatori di minoranza, i dc
Gargani e Orsini, hanno quindi svolto le note argomentazioni. Ad ogni modo il
dibattito non dovrebbe occupare più di pochi giorni. Lo schieramento laico e
abortista, dati i rapporti di forza, sembra deciso a votare al più presto la
legge.
Per i compromessi, a quanto si
dice, si aspetta il turno della discussione al senato.
Venerdì 7 aprile 1978
Quali
(e quante) le posizioni nel movimento
di Norma Rangeri
La questione dell’aborto, da
quando è uscita dall’ambito della riflessione del movimento ed è diventata
oggetto di discussione fra le forze politiche, da quando cioè il problema della
procreazione è diventato fatto da regolamentare giuridicamente, ha prodotto nel
movimento delle donne divisioni e contrapposizioni.
E in questi tre anni (da quando
cioè nell’aprile del ’75 la commissione giustizia e sanità si occupò del
problema) le differenze interne al movimento delle donne non sono diminuite e
continuano a travagliarlo. Riassumerle schematicamente è assai difficile dal
momento che sono strettamente legate al tipo di elaborazione e soprattutto di
esperienze pratiche che in questi anni il movimento ha fatto. A questo va
aggiunto che la battaglia sull’aborto, coinvolgendo schieramenti politici e
equilibri parlamentari, ha messo a dura prova l’autonomia del movimento. Alle
differenze fra i vari gruppi organizzati /Udi, Mld) vanno perciò aggiunte
quelle di ogni collettivo (con la sua storia e la sua pratica specifica)
rispetto agli altri. Insomma una mappa delle posizioni del movimento delle
donne sull’aborto risulterà in ogni caso parziale. Proviamo a tracciarla.
L’orientamento più chiaro è
quello dell’Udi. Questa organizzazione, infatti, da sempre abituata a gestire
un rapporto con le istituzioni, ha avuto fin dall’inizio un atteggiamento di
accettazione critica nei confronti della legge.
Le donne dell’Udi hanno condotto
una battaglia anche nei confronti del Partito comunista ogni volta che questo
prospettava una disponibilità a rimetterlo in discussione per andare incontro
alle richieste democristiane. A questo proposito l’Udi ha detto chiaramente che
qualsiasi peggioramento sull’attuale legge sull’aborto sarà respinto non
escludendo, ma anzi minacciando, un ricorso al referendum.
Altrettanto chiara, e in certa
misura speculare, è la posizione dell’Mld, che in pratica fa proprie le parole
d’ordine del partito radicale: referendum, depenalizzazione, nessuna legge,
nessun rapporto con le istituzioni ad eccezione di quello del referendum. Al di
là di chi ha lanciato queste parole d’ordine, dire «nessuna legge sul corpo
delle donne» registra consensi all’interno del movimento. E non solo perché
elude il rapporto con le istituzioni politiche: dietro c’è per molte l’idea che
le esperienze di autogestione dell’aborto (e della salute) non possono
comunicarsi in nessun modo alle strutture pubbliche. L’unica pratica
riconosciuta e generalizzabile sarebbe insomma l’aborto nei gruppi di
self-help, che in questi anni hanno permesso a molte donne di abortire. Ma
questa scelta non tiene conto delle lacerazioni delle crisi e dell’isolamento
di cui proprio i nuclei di autogestione dell’aborto in questi anni hanno
sofferto, ridotti, spesso, a pura e massacrante erogazione di un servizio.
Sono però molti i collettivi –
compresi quelli che sulla pratica dell’aborto sono nati – che oggi propongono,
rispetto al problema della legge, un’altra strada, quella di non dare battaglia
per fronti contrapposti, su una legge o sul referendum, ma sui contenuti
dell’autodeterminazione, della gratuità e dell’assistenza. Partendo dal
presupposto che in ogni caso una legge non può riflettere la ricchezza e la
drammaticità di un problema che tocca la donna nelle sfere più profonde della
sua esistenza, si afferma che l’unica via per il movimento è quella di condurre
una battaglia perché alcuni punti irrinunciabili siano tenuti presenti da chi
ha il compito di registrarli giuridicamente.
Non a caso a sostenere questa
posizione, almeno a Roma, è il Coordinamento dei consultori, che raggruppa
quelle donne che da tempo sono impegnate in una lotta tesa a far entrare nei
consultori pubblici i contenuti e le esperienze di autogestione dell’aborto e
della salute, fatte nei collettivi. Un tentativo, cioè, di avviare un rapporto
con le istituzioni (questione a lungo dibattuta nel movimento) più vicine alle
donne in particolare con quelle deputate a gestire il problema della salute
(ospedali, consultori e classe medica). Indubbiamente questa è la posizione più
difficile, soggetta a tutti gli attacchi. Ma è l’unica che finora ha permesso
di condurre unitariamente la discussione e le passate mobilitazioni
sull’aborto. Oggi questo processo incontra ostacoli ancor più grandi che in
passato, ma gran parte del movimento è decisa a continuarlo.
Sabato 15 aprile 1978
Pci
e Dc si scambiano voti e astensioni e concordano il massacro della legge. La
ritirata radicale
di Mauro Paissan
La legge sull’aborto è passata
ieri sera alla camera con 308 voti favorevoli contro 276 contrari. È passata
coi voti dei laici governativi (Pci, Psi, Psdi, Pri, Pli) e di un drappello di
democristiani. Hanno votato contro Pdup-Dp, radicali, fascisti e il grosso dei
democristiani.
Il testo votato è gravemente
peggiore di quello originario. Il Pci ha imposto all’assemblea alcune modifiche
che limitano di molto la libertà e l’autodeterminazione della donna, rendendo
estremamente difficile, se non impossibile, l’intervento abortivo per le
minorenni. I comunisti hanno perseguito con rudezza la loro strategia: accordo
a tutti i costi con la Dc, nonostante le proteste dell’Udi, nonostante le
resistenze interne, nonostante le centinaia di prese di posizione di questi
giorni, nonostante l’opposizione dei socialisti e di altri esponenti laici. La
Dc ha accolto le offerte comuniste, ha contribuito con l’astensione al
passaggio dei punti-caldi e è giunta fino a far passare con i suoi voti determinanti
la possibilità di aborto per le donne inferiori ai 18 anni. I democristiani
sanno che al Senato questo testo già peggiorato non passerà incolume, che potrà
costringere i laici ad altre concessioni, e ha preferito correre il rischio di
vedersi accusare da certa parte del mondo cattolico di aver permesso
l’introduzione, pur gravemente limitata, dell’aborto per le ragazze e di aver
dato una mano nel voto finale.
La discussione sull’articolo 12
della legge, quello appunto che stabiliva una procedura particolare per le
ragazze inferiori ai 18 anni, ha avuto momenti di forte tensione. C’era un
emendamento democristiano che pretendeva l’innalzamento del limite d’età ai 18
anni. E si sapeva che il Pci era disponibile a questa nuova concessione, dopo
quella fatta giovedì sera sulla norma che prevede la presenza del padre del
nascituro nella decisione della donna.
La discussione su questo punto
inizia a mezzogiorno. Gli articoli precedenti il 12 erano passati in pochissimo
tempo, perché i radicali avevano abbandonato la loro controproducente tattica
ostruzionistica. Mentre per l’articolo 5 erano occorse 12 ore e per l’articolo
6 più di 4 ore, in meno di un quarto d’ora sono stati votati gli articoli 9, 10
e 11.
Il Pr, dopo aver costretto i
deputati a bivaccare a Montecitorio per tutta la notte (tra partite di scacchi,
cori della montagna e film delle tv private), a un certo punto decidevano di
permettere una conclusione veloce dell’intera legge.
Il rapido voltafaccia radicale
era stato concordato da Pannella con Ingrao. Il presidente della camera ha
promesso ai radicali di posticipare nel calendario dei lavori parlamentari la
discussione sulla nuova legge per la Commissione inquirente, rendendo possibile
in giugno il referendum su questa materia. E così è stato interrotto
l’ostruzionismo.
Può cominciare la discussione
sulla proposta democristiana di impedire l’aborto libero alle ragazze. Gli
indipendenti di sinistra dicono che voteranno contro; l’on. Mannuzzu afferma
che «non si può condannare una ragazza a essere madre». I liberali annunciano
l’astensione, socialdemocratici e repubblicani lasciano libertà di voto ai
propri deputati.
La compagna Castellina interviene
con tono sconsolato.
Si rende conto che la legge alla
quale aveva non poco contribuito è ormai massacrata. «Il compromesso che si sta
delineando è il colpo decisivo all’autodeterminazione della donna. Ciò che
state facendo non farà altro che approfondire la rottura fra le istituzioni e
le donne e i giovani, perché state qui condannando le donne giovani». Ha poi
preso la parola Adriana Lodi, a nome del gruppo del Pci, al posto di Adriana
Seroni, che si era rifiutata di parlare.
La Lodi ha parlato per mezz’ora,
con voce emozionata, forse non del tutto convinta. Poco convincente, comunque,
è la motivazione che porta al voto di astensione. Rivendica al Pci il merito di
aver posto il limite d’età ai 16 anni, di aver difeso la libertà della donna
giovane, di aver mantenuto nei mesi scorsi questo principio. E poi rivendica al
suo partito anche il merito di aver tenuto presenti sempre le istanze delle
grandi masse, cattolici compresi, di aver ricercato le grandi intese sui
principali passi della legge. Ma subito dopo, ancora, dice che i motivi che
avevano portato il Pci a tener ferma questa libertà delle ragazze non sono
caduti. Però, aggiunge subito, è cambiata la situazione generale, c’è stato il
16 marzo, c’è Moro, e allora dobbiamo accettare «questa sconfitta» (la Lodi ha
usato questa espressione).
È l’unico modo per far approvare
la legge.
Non appena la Lodi ha finito di
richiamarsi ai valori dei cattolici, si alza dai banchi comunisti l’on.
Giancarla Codrignani, cattolica eletta nelle liste del Pci e membro del gruppo
comunista (non della sinistra indipendente), che annuncia il suo voto
contrario. «Bisogna che la legge elimini l’aborto clandestino, e la minorenne
rappresenta l’area più rilevante della clandestinità. L’autodeterminazione
della donna è essenziale, anche se fa paura a molti, perfino in questa parte
dello schieramento politico».
Alla fine anche i socialisti
dicono che voteranno contro. A questo punto è chiaro che l’emendamento dc
passerà solo con l’astensione comunista, e così è: 245 sì, 69 no, 217 astenuti.
Ma non è finita. Approvato
l’emendamento, occorre approvare l’intero articolo, che fissa tutte le
complicate procedure per l’aborto della minorenne. I socialisti dichiarano che
voteranno contro, perché l’articolo è stato gravemente manomesso.
Contrari anche Pdup-Dp, radicali,
missini (questi ultimi perché permissivo). I soli voti di Pci-Psdi-Pri-Pli non
bastano. Interviene allora la Dc che dichiara di astenersi, permettendo il
passaggio dell’articolo e con esso della intricata possibilità d’aborto per la
minorenne.
La vicenda è completa dal punto
di vista politico, Pci e Dc ne escono entrambi con le mani sporche. Si può
procedere al voto finale.
Domenica 16 aprile 1978
Piccola
politica su un grande problema
di Rossana Rossanda
Qual è la cosa più grave avvenuta
in questi giorni a Montecitorio? Non solo che ne è uscita una legge sull’aborto
paurosa, codina, al di sotto del testo precedente e molte leghe in qua dalle
necessità sociali e dalla maturazione e consapevolezza del movimento delle
donne.
Le parole assai secche con le
quali i compagni Magri e Castellina hanno stigmatizzato il pasticcio tanto più
contano, in quanto essi – come molti di noi – avevano creduto e lavorato a una
buona legge.
Noi non siamo mai stati
dell’avviso di quella parte del movimento femminista – poi disinvoltamente
giocata dai radicali – che non voleva nessuna legge, ma la pura
depenalizzazione dell’aborto, perché una comunità complessa e politicamente
articolata deve darsi una norma, transitoria fin che si vuole, là dove – come
in questo caso – si tratta non solo di restaurare un diritto, abrogandone la
repressione, ma creare le condizioni per esercitarlo.
Sotto questo profilo, anzi,
sembra a me, sarebbe un errore da parte delle donne non considerare un valore e
un risultato della loro lotta che il principio della libertà d’aborto, sia pur
così circoscritto e accompagnato da riserve, faccia ormai parte della
legislazione italiana. Sarebbe stato immaginabile dieci anni fa.
Quel che è grave è che fra il
modo in cui la si è varata e quel che avrebbe potuto e dovuto essere, lo spazio
è grande. Il suo risvolto sarà, quindi, frustrazione, insoddisfazione giusta,
sfiducia nel movimento femminista e delle donne in genere verso chi legifera su
di loro.
Un ideologismo con cui il femminismo
è nato, andava generosamente battuto dalle sinistre: il ripiegamento su di sé,
la condanna della “politica”, il rifiuto dell’assunzione di un obiettivo
parziale, come non può non essere una legge, incapace ovviamente di risolvere
quel groviglio storico, culturale, di costume che sta dietro al rapporto fra
donna, sessualità, maternità, aborto.
Era assai importante che,
puntando sulla legge migliore possibile ed evidenziandone, come Luciana
Castellina ha fatto in questi anni, con limpidezza valori e limiti, si
annullassero le diffidenze pregiudiziali del movimento, che nell’incapacità o
non volontà di misurarsi con le istituzioni non cresce, ma si impoverisce e
divide. Esso, infatti, avrebbe sperimentato la propria forza, capito che su
tutti i terreni bisogna battersi, e che nulla avrebbe perduto della sua
autonomia imponendosi come interlocutore politico.
Analogamente, le sinistre e il
fronte “laico” avrebbero provato anch’esse il loro limite – che è
l’impossibilità di assorbire, e portare a mediazione politica tutti i contenuti
di un movimento, ed è bene che sia così – ma avrebbero stabilito con esso un
dialogo, un reciproco riconoscimento, un’articolazione autentica.
Questo non è avvenuto, e la
lacerazione che la legge stabilisce fra norma e donne, e poi donne e donne
(nella rabbiosa volontà di vendetta sulle più giovani hanno giocato motivazioni
profonde, prepolitiche, orribili) si è ribaltata la lacerazione fra movimenti
femminili e partiti. Quella fra il Pci e Unione donne italiane, riflessa anche
in casi di coscienza acuti di alcune deputate, è la più vistosa.
Ma è così che si lacera
l’immagine della democrazia e dello Stato, vorremmo dire, senza alzar la voce –
che ne abbiamo poca – e con preoccupazione vera, ai compagni del Pci. In questo
oscuro mese ai lavoratori è stata domandata fiducia nei confronti dello Stato ,
tregua a ogni critica alle istituzioni.
Ebbene, c’era tuttavia da
ripulire la faccia di questo Stato, perché potesse essere consegnata la difesa
nelle mani dei lavoratori. Ma anche ammesso che una ripulitura del passato non
sia semplice, c’era un’occasione importante per mostrare adesso che, almeno
parzialmente, almeno su un punto come quello dell’aborto, grave e importante,
le istituzioni si muovevano bene. Bene vuol dire pensando a chi della legge è
oggetto, in questo caso, le donne.
Bene vuol dire decidendo secondo
ragione e fedeltà a un principio. Bene, voleva dire stavolta senza anteporre le
donne i principi alle compatibilità democristiane, e dell’accordo con i
democristiani: almeno per una volta, su una battaglia che non potevano vincere,
sulla quale il ricatto non era possibile. Perché non si è fatto?
È passato un mese dal rapimento
di Moro, e sulla credibilità del compromesso istituzionale non piovono solo le
pallottole e i messaggi delle Brigate rosse, ma le sassate fatte dei piccoli
intrighi, compromessi, viltà, politicantismi. Mai lo stato democratico avrebbe
dovuto essere più limpido, il parlamento più coerente. Non capirlo significa
scivolare ogni giorno su un terreno più incerto, muoversi – per la sinistra –
su una lastra di ghiaccio per trovarsi sempre più squilibrata e fragile. Lunedì
si aprirà il Comitato centrale comunista. Si domandi se lo stato si rafforza,
quando la forza contrattuale della sinistra si indebolisce. C’è un momento,
ora, in cui davvero è nelle mani del movimento operaio italiano il destino
della democrazia. Lo difenderà tacendo, arrendevole, spostandosi sul minimo
denominatore comune delle forze in campo, o lanciando un ponte al paese, alle
masse, alle donne, alle fabbriche, ai giovani, di fronte alle settimane oscure
che verranno?
Giovedì 8 giugno 1978
A
Brindisi il primo aborto, mentre negli ospedali aumentano di ora in ora le
richieste
di Norma Rangeri
A due giorni dall’applicazione
della legge sull’aborto, in tutte le città le strutture ospedaliere sono sotto
l’occhio della stampa e della pubblica opinione. La prima interruzione di
gravidanza è avvenuta a Brindisi, martedì, nell’ospedale civile Umberto primo.
Ad eseguirlo è stato un
assistente del reparto ginecologico, dopo che il primario Serinelli, si era
rifiutato perché obiettore. A Firenze invece, i primi dieci aborti saranno
fatti oggi nella clinica ostetrico-ginecologica dell’università.
Ma sono già 55 le donne che si
sono presentate all’accettazione con regolare certificato medico, di cui 35 con
“urgenza”. Per l’obiezione i medici avranno tempo fino al 6 luglio e solo fra
un mese, quindi, si avrà un quadro completo della situazione.
Intanto al Policlinico di Roma
(la capitale e il Lazio si prevede che registreranno una delle più alte
percentuali di obiettori) sembra aprirsi qualche spiraglio: sono una ventina le
persone (medici e personale paramedico) che in questo ospedale lavoreranno 24
ore su 24 per l’aborto.
Comunque, al Policlinico non si
potranno fare più di cinque aborti al giorno.
Venerdì 16 giugno 1978
Medici
e preti per l’aborto clandestino. «Con questa legge aumenteranno le reclute
della prostituzione». Così scrive l’«Osservatore della Domenica»
«Una cosa è certa: con questa
legge l’immoralità giovanile dilagherà e si farà sempre più precoce; rotto il
freno al dramma di una iniziale gravidanza… aumenteranno parallelamente le
reclute della prostituzione». Così scrive Gastone Lambertini, sull’Osservatore
della Domenica, settimanale vaticano, in una lunga nota di commento alla legge
riprendendo fedelmente il filo del discorso del capo della chiesa.
Paolo VI, infatti, pochi giorni
fa in un discorso ufficiale, mise in guardia i fedeli dalla «passione che
sostituisce l’amore».
L’articolo dopo una lunga
disquisizione sulla «giovane traviata» chiede che «non si allarghi ancor più, e
a spese dello stato, la macchia spaventosa del sangue di Abele». Insomma gli
aborti devono possibilmente rimanere clandestini.
Martedì 4 luglio 1978
Stop
Dc all’aborto nelle cliniche Al
Policlinico di Roma, nonostante l’intervento della polizia, le donne continuano
l’occupazione. Intanto la lista di attesa è arrivata a quota 300
Nonostante il brutale intervento
delle forze di polizia che sabato pomeriggio hanno fatto irruzione nel reparto
della II clinica ostetrica, riattivato dalle donne, penetrando fin nella sala
parto dove erano in corso gli interventi, gli aborti al Policlinico si
continuano a fare.
Ieri mattina nel corso di
un’assemblea le donne hanno deciso di recarsi in tribunale da Paolino
Dell’Anno, il magistrato che si sta occupando della vicenda. E oggi la protesta
si sposterà davanti gli uffici amministrativi del Pio istituto da cui il
Policlinico dipende, insieme ad altri ospedali.
La decisione di sgomberare il
reparto, reso funzionale dal lavoro volontario di donne e infermiere, è
avvenuta dopo una lunga contrattazione con il vice questore «che – scrivono le
donne in un comunicato – ci ha prima intimato di sgomberare, poi di garantire
che una di noi rimanesse a coprire i turni di lavoro fino a quando la direzione
sanitaria si fosse decisa a mandare personale». Nel comunicato, inoltre, si
denuncia «il comportamento vergognoso e maschilista della polizia» che ha
causato un forte malore a due donne.
Ieri mattina, intanto, altre
dieci donne, che si aggiungono alla lunghissima lista di attesa (circa 300
richieste), si sono presentate con il certificato e sei, già in lista, sono
state ricoverate. Alla fine dell’assemblea si è decisa anche una manifestazione
per il 6 luglio davanti alla regione, dove contemporaneamente si svolgerà la
riunione dei primari che dovranno consegnare le liste dei medici obiettori.
Giovedì 6 luglio 1978
Diserzione
di massa dall’aborto. 16 medici del Forlanini di Roma chiedono di essere
impiegati nei reparti dove si pratica l’aborto Roma
Un gruppo di sedici medici
dell’ospedale romano Forlanini, in una lettera presentata alla direzione
sanitaria, al consiglio dei delegati e alle forze politiche e femminili
chiedono ufficialmente di poter «essere addetti per un certo numero di ore
settimanali al servizio di ostetricia e ginecologia, in attesa che se ne
potenzi l’organico e le strutture, così da poter sopperire alle sempre più
numerose e pressanti richieste». Una richiesta precisa di spostamenti che va
nella stessa direzione della proposta avanzata in sede regionale dal Pdup e dal
Psi di dare il via, per garantire l’aborto, alla «doppia mobilità». «I
sottoscritti medici e chirurghi – continua la lettera – di questo ospedale
hanno considerato la grave situazione che si è venuta a creare in tutti i
nosocomi romani… E in seguito alle numerose obiezioni, spesso non maturate da
reali problemi di coscienza, ma frutto della campagna scatenata dalla reazione
del clero… Chiedono di stabilire dei turni presso i poliambulatori, coperti
esclusivamente da medici non obiettori». Attualmente invece in molti consultori
i medici sono obiettori, proprio nelle strutture che dovrebbero garantire, fra
le altre, l’applicazione della legge.
Martedì 3 ottobre 1978
Un
trampolino per gli antiabortisti. Ieri a Firenze prima udienza del processo
contro la «clinica degli aborti». Il Pubblico ministero, Casini, è un noto
esponente del «Movimento per la vita»
Firenze (n.r.)
Con l’aula del tribunale
affollata da militanti del partito radicale e da molte femministe è iniziato
ieri a Firenze il processone contro 67 persone, fra cui Gianfranco Spadaccia, i
ginecologi Conciani e Cammelli, i dirigenti del Cisa (centro italiano
sterilizzazione e aborto) e 49 donne, i primi accusati di associazione per
delinquere, di aborto continuato pluriaggravato, e le donne di essere ricorse
all’aborto. I fatti contestati agli imputati risalgono al gennaio ’75, quando
la polizia, su denuncia del settimanale Candido e del quotidiano fascista Il
Secolo d’Italia, fece irruzione nella clinica S. Croce dove il dottor Conciani
eseguiva gli aborti.
Qualche giorno fa, i deputati
radicali che allora rivendicarono la paternità degli aborti fatti dal Cisa a
Firenze, in una conferenza stampa avevano annunciato che al processo avrebbero
chiesto il rinvio del dibattimento al 5 dicembre giorno in cui si sarebbero
dimessi dalle cariche parlamentari, tornando così cittadini perseguibili.
Il processo è dunque iniziato con
il ritiro della corte in aula di consiglio per decidere se accettare la
richiesta di rinvio. Dopo un’ora e 45 minuti di discussione la corte ha
respinto in rinvio. A questo punto Mauro Mellini, uno degli avvocati del
collegio di difesa, ha contestato che si potesse procedere contro gli altri
imputati e non contro i deputati radicali che allora furono definiti
«organizzatori» degli aborti fatti dal Cisa. E Emma Bonino ha annunciato che a
nome dei deputati radicali avrebbe inviato alla camera un telegramma di
immediate dimissioni. Ma il pubblico ministero, Casini, che è anche esponente
del «Movimento per la vita», ha Subito risposto chiarendo il significato ultimo
di questo processo. Il magistrato ha infatti detto che nelle prossime udienze
solleverà eccezioni di legittimità costituzionale su alcuni punti dell’attuale
legge sull’aborto.
La prima puntata del “processone”
è così continuata di eccezione in eccezione. Bianca Guidetti Serra e Tina
Lagostena Bassi, anch’esse del collegio di difesa, hanno contestato che proprio
del collegio di difesa potessero far parte due avvocati, uno noto difensore di
fascisti e un altro anch’egli noto esponente del «Movimento per la vita». La
presenza di questi due noti antiabortisti in veste di difensori è addirittura
grottesca: furono designati d’ufficio dal Pm, Casini, all’epoca dei fatti.
La prima udienza si è conclusa
ieri nel tardo pomeriggio. Un’inizio burrascoso che è servito a chiarire
ulteriormente le reali ragioni di questo processo: farne un pulpito da cui
lanciare la prima consistente offensiva contro l’attuale legge sull’aborto.
Venerdì 6 ottobre 1978
Al
processo di Firenze radicali e pubblica accusa sostengono che la legge è
illegittima. Il tribunale decide di rinviarla alla Corte costituzionale.
Firenze (n. r.)
La legge 194 sull’interruzione di
gravidanza, approvata dal Parlamento il 22 maggio, è stata rinviata alla Corte
costituzionale, accompagnata da una eccezione di incostituzionalità sollevata
dal tribunale di Firenze. Ieri, dopo otto ore e mezzo di camera di consiglio,
il presidente del tribunale, Cassano, assumendo le richieste fatte dal pubblico
ministero Casini, ha letto le 19 cartelle nelle quali si enumeravano tutti gli
articoli ritenuti contrari alle norme costituzionali.
Così, il processo di Firenze
(contro la clinica del dottor Conciani, che nel ’75, insieme al Cisa e ad
alcuni esponenti radicali, fu accusato di associazione per delinquere e aborto
continuato pluriaggravato) ha inferto il primo serio colpo alla legge
sull’aborto.
Quello che doveva trasformarsi in
un processo contro chi, oggi in Italia, non applica una legge dello stato, si è
trasformato in un processo alla legge. La pubblica accusa, rappresentata dal
magistrato Casini, esponente del «Movimento per la vita», fin dalla prima
udienza aveva esposto la sua linea: sollevare eccezioni di incostituzionalità,
bloccare il processo.
Il collegio di difesa (composto
da avvocati radicali, fra i quali Mauro Mellini e Franco De Cataldo, e dalle
avvocatesse Bianca Guidetti Serra e Tina Lagostena Bassi, vicine al movimento
delle donne) si è subito diviso: i radicali volevano farne un’occasione di
battaglia politica contro la legge sull’aborto; le due avvocatesse, invece, lo
ritenevano un momento importante di battaglia per la sua applicazione.
Inutilmente si è tentato di trovare un accordo.
E così, nell’aula del tribunale
fiorentino, Mauro Mellini, da sponde opposte, si è unito alle tesi sostenute
dal pubblico ministero. Dopo le prime due udienze il processo è stato sospeso,
e ieri, dopo un’intera giornata di camera di consiglio, il tribunale ha deciso:
la legge sull’aborto deve tornare all’esame della Corte costituzionale.
Questa prima sentenza accetta in
pieno le tesi sostenute dal «Movimento per la vita». Nelle 19 cartelle lette in
aula si sostiene che il feto, già nelle prime otto settimane di gravidanza, è
un essere umano, e quindi va tutelato dalla Costituzione. Le eccezioni in
particolare riguardano gli articoli 4, 5, 6, 8 e 22.
I radicali si sono dichiarati
soddisfatti della decisione, mentre il Cisa (centro informazione
sterilizzazione e aborto) nella mattinata di ieri ha emesso un comunicato che
si discostava dalla linea di condotta tenuta dai radicali; sulla sentenza di
rinvio, invece, non ha preso posizione.
Nessun commento:
Posta un commento