I rapporti a termine continuano a crescere. E con la
legge presentata dal ministro 5 Stelle la situazione cambierà ben poco
Roberta Carlini, L’Espresso
24/07/2018
Un fiume. Un flusso d’acqua
impetuoso, che corre preme e si incanala in tanti rivoli. E quando ne trova uno
bloccato, in un attimo va a riempirne un altro. L’immagine è bella e bucolica.
Ma la sostanza non lo è, se con la metafora del fiume ci si riferisce al lavoro
che le imprese cercano e vogliono dare: flessibile e temporaneo, breve e
imprevedibile come il futuro. Alla piaga del lavoro precario, contro la quale
la parte pentastellata del governo ha stampato nero su bianco sul frontespizio
di un decreto la parola “dignità”, e ha dettato le nuove regole, più rigide,
del contratto di lavoro dipendente a tempo determinato. Ma chiuso uno sbocco,
la corrente prevalente del fiume rischia di andarsene in altri, altrettanto
precari, com’è successo nel passato recente, e spesso: almeno sei volte in
cinque anni, riepiloga Bruno Anastasia, dell’osservatorio di Veneto Lavoro e
grande esperto di numeri dell’occupazione. È lui che ricorre all’immagine del
fiume in piena per raccontare cosa sta succedendo al lavoro nell’Italia del
dopo-crisi. Se guardiamo al fiume, e non ai suoi rivoli - che si chiamano a
termine, a chiamata, interinali, voucher, intermittenti, e via via tutte le
forme che il diritto del lavoro ha dato alla grande onda - possiamo
allontanarci dai duelli di giornata sui numeri del decreto e della sua
relazione, per rispondere a una domanda di fondo: il lavoro breve è la nuova
normalità della produzione di merci e servizi? E nella corsa del fiume, vince
la legge o l’economia?
Novantacinque su cento
Nello stesso giorno in cui il
Consiglio dei ministri approvava il decreto dignità, l’Istat diffondeva la sua
nota mensile sull’occupazione. I dati si riferivano a maggio e dunque
consentono di fare un confronto sul flusso di lavoro dal maggio 2017 a quello
di quest’anno. Su 457.000 occupati in più, solo 5.000 sono permanenti
(aggettivo con il quale l’Istat ha sostituito la dizione “a tempo
indeterminato”, dopo il Jobs Act), poi ci sono 19.000 autonomi e infine ben
434.000 a termine. In percentuale: 95 nuovi occupati su 100 hanno un lavoro
temporaneo. Qui c’è «un cambiamento che potremmo definire epocale», scrive
Francesco Seghezzi sul bollettino di Adapt, l’associazione fondata da Marco
Biagi, chiamando in causa le mutazioni «dei sistemi produttivi, sempre più
esposti a mercati volatili e a consumatori esigenti, il tutto rendendo
necessari livelli di flessibilità diversi da quelli del passato». Insomma, «è
difficile pensare che siamo di fronte solo a un cortocircuito normativo».
Più che cortocircuiti, le norme
negli ultimi tempi hanno fatto una bella serie di capriole e stop and go. Le
riepiloga Anastasia: la riforma Biagi nel 2003 limita le collaborazioni e apre
sui voucher e il lavoro intermittente (a chiamata); quest’ultimo viene poi
penalizzato dalla legge Fornero, che invece fa esplodere i voucher e stringe i
bulloni del tempo determinato; arriva subito dopo Letta che li allenta un po’,
fino al ciclone Poletti (e siamo al 2014) che semplifica e liberalizza il tempo
determinato; si arriva così al Jobs Act (2015) che invece incentiva il tempo
permanente e chiude di fatto le collaborazioni, e fa correre i voucher; infine
Gentiloni che chiude il rubinetto dei voucher, mentre risalgono intermittente e
lavori a termine. E adesso Di Maio, che restringe i contratti a termine: ma non
è finita ancora, poiché il ritorno parlamentare dei voucher potrebbe far
incanalare di nuovi tutto il precariato nei buoni-lavoro.
Un’altalena da far girare la
testa, e che rende abbastanza vano l’esercizio sulle previsioni post-decreto
dignità.
«Le imprese si muovono veloci
sfruttando le opportunità presenti, la corrente si sposta all’istante, sapere
quale sarà il letto nuovo del fiume è complicato», riassume Anastasia. Loro
stessi, nell’ufficio studi di Veneto Lavoro, hanno fatto dei calcoli per la
regione che guida le classifiche della produzione e dell’occupazione italiane:
80 mila i rapporti di lavoro a termine (in Veneto) potenzialmente interessati
dalla riforma Di Maio, e dunque dalla riduzione della durata massima da 36 a 24
mesi, dall’obbligo di dichiarare la causale dopo i 12 mesi, dalla riduzione del
numero delle proroghe e dall’aumento del costo contributivo a ogni rinnovo.
Di questi 80 mila, solo un quarto
sono davvero investiti dalle nuove norme, che escludono stagionali, pubblica
amministrazione, agricoltura e contratti sotto l’anno.
Ma anche delimitato così il
campo, prevedere cosa succederà è difficile. «Dipende da cosa decide
l’impresa», sembra una risposta ovvia ma non lo è. L’impresa può decidere di
fare contratti diversi - apprendistato, lavoro autonomo, anche l’assunzione a
tempo indeterminato; può sobbarcarsi il costo maggiore del tempo determinato
(se ne è parlato tanto, ma a conti fatti su una retribuzione di 1800 euro sono
9 euro al mese); può fare nuovi contratti a tempo a nuovi lavoratori, dunque
buttar fuori quelli di prima; o ancora riorganizzare la sua filiera
esternalizzando qualche pezzo. «Con due milioni di disoccupati in giro, il
problema del turn over per le qualifiche più semplici non esiste, mentre
diventa più complicato per quelle professionalità sulle quali c’è più richiesta
e meno offerta», spiega Anastasia, che reputa abbastanza ottimistica la famigerata
stima dell’Inps (a rischio 8000 posti all’anno con le nuove regole), costata la
dichiarazione di guerra permanente del governo al presidente Tito Boeri.
Se Anastasia è abbastanza
scettico sull’efficacia automatica dei cambiamenti delle norme sul lavoro, è
invece certo di un fatto: anche se il tempo indeterminato, sul totale dei
lavoratori italiani, resta di gran lunga prevalente, ormai da anni le nuove
correnti vanno tutte sul lavoro a termine, con la sola eccezione dell’anno
della decontribuzione del Jobs Act «quando le imprese hanno fatto una
indigestione di tempo indeterminato». Tra i motivi strutturali dello
spostamento verso il lavoro a termine, non va sottovalutato un fatto: «la
rilevante crescita della produzione stagionale e di breve durata». Gran parte
della ripresa occupazionale degli ultimi anni è avvenuta nei servizi, in
particolare nel turismo. «E poi il settore della cultura, lo spettacolo,
l’economia dei festival: qui non è la singola posizione ma proprio il posto di
lavoro che è a termine, per definizione».
Una ripresa a tempo?
I dati sull’occupazione sono lì a
testimoniarlo: la ripresa nell’industria è a basso contenuto di lavoro - e
ancor meno di lavoro permanente - mentre i numeri più alti sono nei servizi,
caratterizzati spesso non solo da stagionalità, come il turismo e il commercio,
ma anche da bassa produttività e scarsa innovazione. Quella che abbiamo avuto
non è una “ripresa senza occupazione” (la jobless recovery della teoria
economica), ma una ripresa con lavoro povero o precario, afferma Dario
Guarascio, economista dell’Inapp, che insieme ad altri ricercatori ha fatto uno
studio sul nesso tra occupazione e investimenti, intitolato “Lavori più deboli,
innovazione più debole”.
Il risultato è presto detto: «un
ricorso intenso al lavoro temporaneo si associa a una bassa propensione
all’introduzione di innovazione di prodotto». Insomma, un lavoro precario per
una economia fragile, condannata ancora a una produttività molto bassa: che non
si contrasta, dice Guarascio, a colpi di normativa sul lavoro (quest’ultima
però «può dare un segnale simbolico di discontinuità, rispetto al precariato»),
ma richiede politiche strutturali, capaci di agire sugli investimenti e sulla
domanda nell’economia. Se dall’avamposto veneto del nuovo triangolo industriale
enfatizzano il ruolo dinamico che comunque questa ripresa infarcita di lavoro a
termine ha nella collocazione internazionale dell’Italia, queste ricerche
vedono il lavoro temporaneo non come elemento di forza ma come sintomo di
fragilità.
Concorda la segretaria generale
della Fiom Francesca Re David, che - come storicamente il suo sindacato e la
Cgil hanno sempre fatto - chiede politiche strutturali: «Con la crisi abbiamo
perso il 25% della capacità industriale installata, restiamo il secondo Paese
manifatturiero d’Europa ma dobbiamo investire. Gli interventi fatti hanno
inciso solo sulla forma, hanno redistribuito le stesse ore di lavoro tra più
persone, qui serve più lavoro». Già, ma come? Politica industriale e intervento
pubblico diretto, sia come volano a investimenti privati che per potenziamento
del welfare che è esso stesso parte di un’economia “forte”: sono questi i
cavalli di battaglia storici sebbene un po’ ammaccati del sindacato di Camusso.
Che rispetto al decreto dignità ha preso una posizione intermedia, non
festeggiare né sabotare.
Dalla guida dei metalmeccanici Re
David la vede così: «Le imprese prendono lavoro quando ne hanno bisogno, se c’è
da produrre non è che mandano a casa gente per il decreto dignità». Ma certo non
sarà questo decreto a invertire la corrente, per tornare alla metafora del
fiume. «È un simbolo, niente di meno e niente di più. Le regole dei contratti
non possono creare lavoro, ma possono rafforzare o indebolire i lavoratori,
accompagnarli o lasciarli soli; e negli ultimi anni li hanno indeboliti».
Quanto al bisogno di flessibilità delle nuove produzioni, dei settori “che
tirano”, e delle catene produttive mondializzate, Re David replica: «La
flessibilità non è tutta uguale, e non necessariamente è precarietà. Esiste una
flessibilità governata, contrattata. Il problema è che da anni ormai si intende
la flessibilità solo come comando senza discussione. Nell’industria, si
realizza più con gli appalti e i subappalti che con il tipo di contratto di
lavoro. Ma la sostanza è la stessa».
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